lunedì 29 aprile 2013

Parafrasando Boccaccio

Nella III giornata del Decameron, il lettore si trova alle prese con l'ottava novella che vede protagonista tal Ferondo, uomo sempliciotto e credulone. In breve: Ferondo stringe amicizia con un abate, santo in tutto il suo fare tranne che nei rapporti col gentil sesso. Caso vuole che il villico abbia uno schianto di moglie che subito fa gola all'abate "femminaiuolo" che tanto s'adopra e tanto fa da riuscire a entrare in confidenza con lei.
Sotto il sigillo della confessione, la signora si lamenta oltremodo della gelosia di Ferondo e l'abate, convinto di poter sfruttare questo esacerbato spirito di possessione dell'amico a suo vantaggio, comunica  che un rimedio lui ce l'ha a portata di mano per far passare al marito siffatta fisima. E che s'impegna fin da subito a porlo in essere a patto che la donna, una volta liberato Ferondo dal suo demone, acconsenta a giacere con lui. Dopo un'iniziale, scenica resistenza, la madonna acconsente.
Il chierico si mette all'opera: fa bere a Ferondo un po' di vino frammisto a un potente veleno del Vecchio della Montagna che ha la proprietà di far sembrare morto chi lo ingurgita. E tutti, per l'appunto, a vederlo senza vita steso a terra, si convincono della sua dipartita. Viene, quindi, celebrato il funerale e il buon uomo seppellito come creanza comanda.
Dopo tre giorni l'abate, con il prezioso aiuto di un suo confratello, lo va a disseppellire e lo porta in una cella oscura del convento dove l'uomo finalmente si sveglia. 
L'amico dell'abate fa credere facilmente a Ferondo che si trova in Purgatorio per via della sua gelosia e affinché questo racconto sia ancora più veritiero, tre volte al giorno lo fustiga. Gli paventa, poi, la possibilità di un ritorno in vita a patto di non dimostrarsi più geloso della sua, tra l'altro, onestissima donna. In tutto questo, ovviamente, il sagace abate si diletta a soddisfare le voglie della moglie dell'amico con tanta veemenza da ingravidarla; ragion per cui, è opportuno che il frate carceriere comunichi a Ferondo che Domeniddio lo farà ritornare effettivamente in vita e gli concederà pure la grazia di un figlio, sempre a condizione che egli non ricada nella deprecabile gelosia.
Morale della storia: Ferondo ritorna in vita da tutti considerato alla stregua di un miracolato, accetta di buon grado il figlio, abbandona del tutto la sua gelosia con somma soddisfazione dell'abate che può continuare a trastullarsi, incontrastato, con il procace corpo della signora.
Fuor di metafora e parafrasando siffatta novella, mi vien da chiedermi: e se noi potessimo disporre dello stesso veleno dell'abate? Ecco, potremmo, ad esempio, prendere un buon numero di politici a cui glielo faremmo ingurgitare. Così addormentatili, potremmo deportarli in massa in un campo di raccolta di pomodori campano a lavorare sotto il sole e con la "paga" che si dà a un extracomunitario. Potremmo, ancora, fargli credere che si trovano in purgatorio, che devono scontare le loro ruberie e che solo dopo un certo tempo di patimenti, se ben si comporteranno, potranno ritornare ad occupare la posizione di privilegio che avevano prima della caduta nel mondo dell'espiazione.
Come come? Non credete in nessun modo che una volta rimessi con le chiappe sul velluto degli scranni di Montecitorio possano fa tesoro di quella esperienza e donarsi anima e corpo al bene comune? Diffidenza fondata. A pensarci bene però, male che vada, ci saremmo almeno divertiti a vederli "buttare il sangue" per un buon lasso di tempo. O mi sbaglio?

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