martedì 30 dicembre 2014

È severamente vietato...ovvero la "manomissione" delle parole

“È vietato severamente…”, ovvero la “manomissione” delle parole

Fermo davanti al cartello del parco Mercatello, ho un sentore di qualcosa di superfluo. “Boh, – mi dico -sarà il “di più a prescindere” di queste feste che appare anche in un innocuo “avviso ai visitatori”.

Percorro a piedi l’umbratile distanza tra il parco stesso e l’ufficio postale di Mariconda.

L’ “è vietato severamente”, però, me lo porto fin al cospetto dell’addetto alla “consegna posta inesitata”.

Qui mi imbatto in un bisbiglio di protesta che diviene vera e propria ribellione non appena dall’esterno dell’ufficio viene veicolato all’interno.

<È inutile, – precisa l’impiegato – abbiamo l’ordine tassativo…è severamente vietato…>.

“ordine tassativo…severamente vietato”: eccomi finalmente chiara la superfetazione iniziale.

Non c’è niente di meglio che la lingua, organismo vivo e sensibile come non mai, a descrivere le abitudini di un popolo. Una nazione che ha bisogno di “rendere più forte” un lemma che di per sé dovrebbe essere già il non plus ultra, non è una nazione affidabile.

Il tristemente noto “achtung” tedesco, infatti, non viene nemmeno sfiorato dal dubbio che qualcosa possa rafforzarlo. In esso già è concentrato l’acme dell’imperio.

Tornando al nostro divieto iniziale, occorre precisare come sia inutile, nel momento in cui si dice o si scrive “è vietato”, aggiungere un avverbio (“severamente”, “assolutamente”, etc .). Il participio passato “vietato” dovrebbe essere così forte, così categorico, da non consentire alcun altro rafforzativo. “È vietato”. Punto. Stop. Non si può vietare poco o vietare assai.

Analogo discorso si può fare con il verbo “amare“. Se io amo, amo. Se il mio sentimento verso qualcuno o qualcosa è inferiore all’amore, io non utilizzo “amo poco”, bensì faccio ricorso a un verbo meno esaustivo e coinvolgente dell’amare come “piacere”, ad esempio.

Nel 2010, l’ottimo Gianrico Carofiglio, ha pubblicato il saggio “La manomissione delle parole“, edito da Rizzoli. Ebbene, in quest’opera, lo scrittore usa il termine manomissione sia come denuncia che come auspicio. Come denuncia, perché invita a non, per l’appunto, manomettere, travisare le parole, tradendo il loro significato originario e attribuendogli una gradazione più o meno forte di quella che ontologicamente hanno (“è severamente vietato”, ad esempio).

La manomissione come auspicio invece, è insita nell’etimologia di siffatto lemma che risale addirittura al diritto romano: “manomettere”, dal lat. manumittĕre, propr. “mandar libero (mittĕre) con la mano (nu)”, per est. “rendere libero dalla schiavitù”. Ecco, l’auspicio dello scrittore a liberare le parole vuole essere anche una sorta di missione che ognuno di noi deve impegnarsi a portare a termine: scrivere, parlare, dando il giusto peso ai vocaboli utilizzati.

Possiamo iniziare già in occasione di queste feste facendo, ad esempio, gli “auguri” e non i troppo inflazionati “augurissimi”. Che poi, sia chiaro, se in questi giorni il destinatario dei nostri auguri vince il superenalotto, si fidanza con miss universo, scopre la fonte dell’eterna giovinezza, beh, in questo caso (ma solo in questo caso) potrebbe senza dubbio meritare gli “augurissimi”.

In conclusione, è vietato (e basta!) darsi per vinti, lasciando che il colore della nostra lingua venga sbiadito da un uso improprio.

martedì 23 dicembre 2014

Morto Babbo Natale, viva Babbo Natale

“Morto Babbo Natale”. Ebbene sì, il nostro giornale ZerOttoNove (ZON), è stato il primo a diffondere la ferale notizia.

È stata la vocina affranta di uno dei folletti a telefonarci in redazione. Poiché però, in quel momento, vi ero presente solo io, il direttore  ha dovuto abbozzare: meglio un giornalista di mezza tacca sul locus commissi delicti, che il rischio di lasciarci soffiare lo scoop (e che scoop!) della morte di Babbo Natale.

Appuntamento a mezzanotte in punto sul tetto della biblioteca dell’Università.

Si materializza, ad una decina di metri dal mio naso rigorosamente all’insù, una slitta immensa, trainata da una messe di renne. A guidarla il folletto che, non appena mi invita a salire per la scala di luce e polvere di stelle srotolata fino ai miei piedi, riconosco essere la mia fonte.

Mi si bendano gli occhi.

In un tempo che non so quantificare, mi sorprendo seduto, finalmente con gli occhi liberi, davanti ad un pantagruelico camino. In mano, una tazza di cioccolata calda.

Il folletto abbacchiato, dopo aver tentato di sedare la disperazione della Befana, mi si siede di fronte.

Mi dice che può parlarmi solo per cinque minuti: il tempo necessario, cioè, per evitare di corrompere la sua natura di fiaba. Così dicendo, mi pone in grembo un pacco di libri avvolti in carta da spedizione.

<Quando il dolce Babbo Natale – spiega il folletto ancora provato – si è reso conto che Amazon “spedisce” più velocemente di noi, non c’è l’ha fatta.>

Lo guardo ammammaloccuto.

Il folletto si soffia il naso e riprende:<Ovviamente non è solo per questo che ha deciso di farla finita. E prima ci si mettono i Natale a mezze maniche; poi i regali sempre più stupidi richiesti dai bambini; ancora le stufe a pellet che soppiantano i camini; infine, le continue interferenze, coi nostri voli, di aeroplani, satelliti vari, e cianfrusaglie volanti>.

Lo osservo insoddisfatto.

<Però, – ammette, riuscendo a sorridere per un breve istante – forse i tuoi colleghi di giornale ti sottovalutano. Ebbene, – confessa ora intristito non più soltanto dalla morte del suo capo – il motivo principale che ha indotto Babbo Natale a togliersi la vita, è che nessun bambino desidera più davvero qualcosa. Ogni desiderio, – spiega immalinconito – si nutre dell’attesa. Nel momento in cui tra la voglia della strenna e il suo ottenimento non vi è alcun lasso di tempo, la felicità è dimidiata. La verità – e il suo sguardo penetra il mio – è che il desiderio è morto. Gli occhi dei bambini non invocano più la venuta di Babbo Natale. Ed è per questo che….morto Babbo Natale, – esplode in un repentino, quanto inspiegabile, urlo di gioia – viva Babbo Natale! Da questo momento in poi, – e il rintocco tonitruante di un pendolo dal Paese di molto lontano mi fa sobbalzare – amico caro, Babbo Natale sarà morto per i bimbi opulenti d’Occidente. Sarà, invece, vivo, vivissimo, per quei piccoletti che ancora hanno voglia di appendere lo sguardo alla gruccia della sua scia luminosa, nell’attesa cullata per un anno intero>.

Non c’è tempo per capire. Uno smilzo Babbo Natale, con le guance lisce come il popò di un bambino,  mi si materializza davanti.

<Non ho spazio per i vostri eccessi: – mi dice nell’atto di accarezzare una pancia che non c’è più – il mio impegno, la mia opera, saranno rivolti solo a chi ha ancora, nel cuore e nel fisico, qualche mancanza da colmare>.

Mi sorprendo a svegliarmi.

Sono davanti al monitor del pc in compagnia della birra a triplo malto, per fegati allevati a vodka e whisky, che non è riuscita ad allontanare l’abbiocco.

Deluso per l’inganno onirico, apro il balcone e guardo in su.

Una cometa iridescente, lunga quanto l’attesa di un desiderio, si sposta verso il Sud del mondo.

Buon Natale!

martedì 16 dicembre 2014

“Vita di Luciano De Crescenzo scritta da lui medesimo”, di Luciano De Crescenzo

Vita di Luciano De Crescenzo scritta da lui medesimo”

Una vita dolce come il profumo della sfogliatella gustata al “Pallonetto” di Santa Lucia; anche chiassosa, però, al pari del sole di Napoli che allucca tra i vicoli scarmigliati della città.

Un’esistenza, infine, irriverente alla stregua dell’ingegnere regimental della IBM che si fa rivoluzionare la vita dai filosofi presocratici.

La vita di De Crescenzo ti esplode tra le mani come un carillon di musica e magia abbandonato tra i titoli di Borsa di Piazza Affari. E tra una piroetta della ballerina che da cinquant’anni si ostina a seguire quelle scarne, acute note metalliche e lo sguardo ammirato del rampante finanziere allevato a play station e virtualità, eccoti squadernare davanti agli occhi la serie di personaggi, a tal punto strabilianti da non poter essere altro che veri, della vita dello scrittore: la mamma, che dopo aver criticato un attimo prima l’esibizione in RAI di Ella Fitzgerald (“secondo me, i negri dovrebbero cantare per i negri e i bianchi per i bianchi”), risponde all’intervistatrice telefonica che le chiede un giudizio sull’artista che questa cantante le piace moltissimo perché “se io dicevo che non mi piaceva, quella poi la RAI la licenziava e questo non sta bene: chella è già accussì nera!”; il padre, anticonsumista sfegatato, che impone l’acquisto delle scarpe solo nel negozio di Stefanino Buontempo che, poiché quest’ultimo “aveva mollato, praticamente sull’altare” una loro parente, adesso è obbligato a praticare lo sconto del 30%, “vita natural durante, su tutti gli articoli del negozio”; e poi, ancora, come non citare zio Luigi, ‘o pallista, che giura e spergiura che Hitler non è tedesco, ma nato a Predappio come Mussolini (“…ma può essere che non t’accorgi che è un travestito! Hai visto i capelli che tiene? (…) E il baffetto posticcio dove lo mettiamo? Andiamo: (…) quello è na macchietta, a me me pare Charlot!”)?!

Ma la vita di Luciano De Crescenzo è ricca anche di aneddoti legati al sesso come il racconto della disarmante prima volta, nell’agognato bordello vagheggiato fin dall’adolescenza, in cui “le residue speranze di una già improbabile erezione svanirono di colpo” non appena la puttana di turno, “dopo un rapido sopralluogo per vedere se avessi piattole o altri insetti”, prese il flit “e mi stantuffò tra le gambe una fredda nuvola di disinfettante”; così come di frammenti di vita relativi al primo amore, anzi, ai “primi quattro amori” (da bambino, da adolescente, da giovanotto, da adulto) “e non quattro amori diversi (…), perché credo di essermi innamorato sempre della stessa persona”.

Sullo sfondo, poi, campeggiano, reclamando a gran voce cittadinanza in questo scritto, il paragrafo intitolato “il ventre della vacca” in cui anche trovare un paracadute, negli anni della Grande Guerra, può essere una fortuna (“a Napoli, la signora Santommaso, con la stoffa di un paracadute si è fatta ventidue camicie di seta”) e quello de “la fame” dove, sempre durante il conflitto bellico, ascoltando estasiati uno dei racconti mirabolanti di Zio Luigi, Luciano De Crescenzo e il cugino staccano i parati della cucina perché le carte da parati “si attaccano con la colla”; “e la colla come si fa?” “Con la farina.” E se Totonno ‘o Pizzaiuolo, come ha appena raccontato zio Luigi, impastò la polvere con l’acqua fino a ricavarne delle pizzette niente male, perché non possono provarci anche loro, Luciano e il cugino, a fare una cosa simile?

La vita dell’inclito scrittore prosegue con l’esperienza lavorativa in IBM e con lo scetticismo dei napoletani verso il futuro avveniristico promesso dalle macchine:

"Ma ti pare che a Napoli, con tutti i disoccupati che ci sono, quelli vanno a comprare le macchine tue? Secondo me, queste società sai che faranno? Chiameranno i disoccupati e gli daranno una moltiplicazione a testa, e quelli in quattro e quattro otto ti fanno tutti i conti. Secondo me era meglio se t’impizzavi nel Banco di Napoli!"

Dopo un breve accenno all’esperienza cinematografica, l’attenzione di De Crescenzo si sposta, non senza qualche timore per la complessità dell’argomento, sul “Dubbio positivo” che lo porta, da lì a poco, ad interrogarsi sull’eterna ed annosa quaestio del fine vita.  E, pur trovandosi necessariamente a suo agio perché approdato alla “preparazione alla morte” che i suoi amati filosofi praticavano fin dall’età della comprensione, l’arguto scrittore non può evitare di suscitare nel lettore un moto di disarmante dolcezza quando si richiama al finale del film “I clown” di Federico Fellini.

Tra le pieghe del bianco e nero di siffatta pellicola il pagliaccio protagonista, all’affermazione del direttore del circo circa la morte del compagno di numero Fru-Fru che gli deve ancora restituire dieci salsicce dall’anno scorso, obietta che “uno non può mica sparire così: da qualche parte deve pur stare.” E convinto di ciò, il pagliaccio prova a suonare la canzone del proprio numero: “ebbene, non appena attacco una nota, ecco che lui mi appare, come per incanto, e mi risponde suonando”.

Una vita in musica, anche quella di De Crescenzo, che pur nei limiti di questo libro (troppo trascurata, ad esempio, la svolta che l’ha portato ad abbandonare la professione di ingegnere per la fortunata carriera di scrittore), è stata capace di farci sorridere con ironica, intelligente e colta partecipazione.

E speriamo, infine, che la preziosa ballerina del carillon di cui sopra ce la faccia ancora una volta (è da troppo tempo ormai che, vuoi per le sue condizioni di salute, vuoi per un probabile prosciugamento della vena artistica, De Crescenzo non riesce a regalarci nuovi spunti letterari) a deliziarci con le sue poetiche e pregne di umanità piroette d’amore.

In questi tempi tristi, ne avvertiamo davvero il bisogno, come ugualmente sentiamo la necessità di aforismi del calibro di questo contenuto proprio in “Vita di Luciano De Crescenzo scritta da lui medesimo”: “La pubblicità sarà il veleno preparato dall’omologazione e la televisione il bicchiere dentro il quale ce lo fanno bere“.

Ad Maiora, Lucia’!

martedì 9 dicembre 2014

Il rosso del sipario e la sua essenza

Il rosso che squarcia il velo di ogni oscurità

Non ho bisogno dell’accompagnatore. Per orientarmi, è sufficiente che qualcuno suoni anche poche e semplici note fino alla mia entrata in scena.

La platea, il loggione, li sento strabordare di curiosità ammirata.

Ecco, mi dicono di prepararmi. Prendo le giuste distanze dal sipario che so di essere di colore rosso… già, rosso: alla mia ancestrale domanda, mi hanno risposto: “Sì, insomma…del colore del sangue” oppure “Lei ha presente il semaforo…?” o ancora “Basta pensare a una tinta più chiara di quella della maglietta della Salernitana”. Eppure, mi viene da pensare in questo momento, io saprei spiegare benissimo cos’è l’oscurità! E qui mi sorprendo a sorridere perché, come sempre, anche questa volta l’origine di tutte le incomprensioni s’annida nell’imprecisione delle mie domande. D’altra parte, quando l’infanzia s’azzardava, impertinente, a porre quesiti di tal genere, non era ancora a conoscenza del mondo delle idee di Platone; giocoforza, non avrebbe potuto chiedere, malgrado già l’intuisse, una cosa del tipo: “Sì ma… qual è l’essenza, l’idea della…rossità? Insomma, della rossezza a cui mi devo rifare?”

Troppo tempo ormai, è stato perso.

Ecco, ci siamo. Alessandra centellina le ultime note di una fuga di Bach. Mi aggrappo a esse e mi lascio sospingere al di là del sipario rosso.

Un applauso intenso circonda i miei sensi. La mia unica preoccupazione però, è quella di stare attento a rimanere nella scia del “do maggiore” a cui, tra una manciata di secondi, Ale darà voce. Eccolo qui. Affretto il passo. Un quarto, due quarti, tre quarti… il salto. Afferro il pianoforte. M’oriento grazie a esso.

M’inchino al pubblico. Artiglio le dita affusolate di Ale con la destra mentre la mano sinistra è sempre lì, piantata sul mio mondo. Con il piede cerco la panca. La trovo leggermente spostata a sinistra (probabilmente Alessandra si sarà emozionata alla fine dell’esecuzione), la sistemo e mi ci siedo. Apro e chiudo tre volte la mano destra e poi, di seguito, quella sinistra.

Poggio le dita tremanti sulla tastiera. Animo i polpastrelli.

Un’ottava, altre ottave per poi ritornare alla prima.

Un mare di tasti bianchi solcato da una miriade di delfini neri.

La mia anima esplode e vedo finalmente il rosso del sipario e la sua essenza.

mercoledì 3 dicembre 2014

Lo scrittore, questo sconosciuto!

No ma, per dire, io ancora non ho capito come si faccia a diventare scrittore. Mi arrovello fino a perdere la proverbiale trebisonda, ma non c’è verso di raccapezzarmi.

Qualcuno, allora, mi potrebbe chiedere che cosa io intenda per scrittore. E sarebbe la domanda giusta visto che, dalla notte dei tempi, per voler far parte di una categoria occorre quanto meno averne una visione di insieme, di questa categoria; anche perché, diversamente, non so fino a che punto uno possa sentirsi legittimato, con lo sguardo gemebondo e trasognante, a  sospirare: “Ah, lo scrittore!”.
Ebbene, io, per scrittore, intendo un tizio che magari passi la giornata a zonzo, in una città qualsiasi dell’universo-mondo, per raccogliere sempre nuovi spunti di riflessione…beh, a pensarci bene, anche il vagabondo fa più o meno la stessa cosa.
Sì, ecco: lo scrittore è chi si sente e si atteggia a protagonista, potendo dire tutto quello che gli pare perché il suo verbo è un concentrato di ambrosia e di suggestioni paradisiache…: casella occupata, c’è già il politico di turno che si comporta alla stessa maniera.
Calma e gesso. Vediamo un po’…ci sono: lo scrittore può essere chi viaggia in una macchinona, sempre circondato da femmine sofisticate che si lasciano sedurre dall’arguzia dal suo essere personaggio…nooo, questo è il cantante impasticcato costruito dalla major discografica!
Va bene, accantoniamo per un attimo il problema dell’essere e concentriamoci sull’aspetto del fare.
Che sfaccimma, cioè, di azioni deve compiere lo scrittore per essere definito tale?
Sgomberiamo il campo da un immediato, pernicioso fraintendimento: per diventare scrittore, non necessariamente occorre scrivere bene. Sorpresi? Beh, basta guardare me (la modestia? La morte mia!).
Tutti dicono che le mie “cose” sono egregie, che la caratterizzazione dei personaggi “è la mia gardenia all’occhiello”; che,  ancora, “ho la cultura colta delle parole” (questa, a dire il vero, non è che l’abbia capita benissimo ma…è una cosa positiva, no?). Ciononostante, a parte qualche piccola soddisfazione editoriale, non c’è la faccio a raggiungere le vette del Parnaso (la vetrina della Feltrinelli, sul corso, a Roma); che poi, a dirla tutta, mi farei bastare anche un angolino della predetta vetrina, magari pure dietro, molto dietro, l’ultimo best seller di Fabio Volo.
Ma non divaghiamo.
Quindi, dicevamo, non è condicio sine qua non, per assurgere al rango di scrittore, lo scrivere bene. Che poi, questa affermazione, oltre che dal mio lampante esempio personale (aridaglie!), viene corroborata anche da quanto si legge su alcuni siti di case editrici: “non è fondamentale saper scrivere in maniera perfetta (i correttori di bozze, altrimenti, che esisterebbero a fare?, ndr) quanto, piuttosto, avere cose originali da raccontare
Ebbene, a questo proposito, mi è capitato di leggere storie in cui si pigliano i classici due piccioni con una fava: far lavorare i correttori di bozze grazie a congiuntivi “alla comevieneviene” e, contestualmente, imbastire trame così originali che nemmeno un marziano tradotto a Saturno potrebbe tessere.
Pure io, del resto, adottando la tecnica spiegata da Saverio al professor Bellavista (invogliare il fratello a farsi i “pertusi” sul braccio e a “sbattersi” per farsi prendere nel “Collegio per i drogati” in cui “ti trovano pure un posto”), ho cercato di scrivere male e di narrare cose che mente umana non ha mai avuto ardire di raccontare. Come per il fratello di Saverio (“prufesso’, nun c’ riesce, è troppo ‘nu buono guaglione“), però, anch’io ho miseramente fallito: mi ostino a chinare il capo ai diktat della grammatica e a scrivere pagine comunque rientranti nell’umana decenza.
Ma mettiamo, per assurdo, che uno davvero riuscisse a infischiarsene delle regole della grammatica e a narrare cose turche in un paese nordico. Problema risolto? Macché, ci sarebbe sempre l’ultimo ostacolo, il terribile drago a guardia del vello d’oro, a separarci dall’immedesimazione con lo scrittore: il famigerato “contributo acquisto copie", perché “l’editoria è in crisi” e quei soldi servono a “coprire, almeno parzialmente, le energie profuse nel lavoro di pubblicazione, promozione, etc., etc.”; e poi (continuando):”persino il genio di Proust  (!)ha iniziato autopubblicandosi”.
“Cosa buona e giusta – ti vien fatto di pensare – se anche Fantozzi, per avere il privilegio di continuare a lavorare (aggratis) per il megadirettoregalattico, gli versa l’intera pensione.”
A questo punto, solo et pensoso mi trovo, come mi capita frequentemente, a osservare la vetrina della libreria sotto casa. Stavolta però, soggiogato dal demone dello scrittore che continua, imperterrito, a celarsi ai miei occhi pur facendomi sentire la sua presenza, guardo quella festa di titoli con rinnovato spirito critico.
Accartoccio le palpebre, sintonizzo la mente.
Un’improvvisa illuminazione connette le mie sinapsi, anche quelle più periferiche.
Le ricette raffinate di miss Odette, Il miracolo della prestidigitazione, Il cuore con le ali appollaiato sul trespolo della mente….
Ecco chi è finalmente lo scrittore: la ragazza che tiene in mano un libercolo di un colore sommesso, che già pregusta la gioia di perdersi in quelle pagine ingrigite per la troppa lontananza dai clangori della vetrina ammiccante.
Ella, infatti, porterà quel romanzo a casa e, in groppa a qualche feconda suggestione letteraria, si nutrirà del distillato di quei caratteri di stampa, fino a renderne satolla l’anima. E sarà allora che, inoltratasi nelle lussureggianti praterie dell’immaginazione, avvertirà il bisogno insopprimibile di sedersi davanti al monitor di un pc. Inumidirà i propri polpastrelli con il calore della creazione, e inizierà a scrivere.
Ecco chi è, allora, lo scrittore. È un fervido sognatore che se ne frega del successo, delle strategie editoriali, dei soldi.
Lo scrittore è un dio di terza classe che si diverte a creare storie e a viverle come se anche quelle degli altri gli appartenessero.
È un ghiottone di anni che non si rassegna a consumare solo quelli che sono apparecchiati sulla sua tavola ma si diverte a spiluccare anche in quelli imbanditi sulle mense altrui.
Ordunque, sulla scorta di queste definizioni, posso tranquillamente affermare che anch’io lo sono. Anch’io sono, cioè,…un attimo che recupero lo sguardo gemebondo e trasognante…uno scrittore!

giovedì 27 novembre 2014

“1984”, di George Orwell

1984 
di George Orwell. L’ho riletto a distanza di 14 anni perché “gli scritti più vicini alla perfezione, hanno questa proprietà, che ordinariamente alla seconda lettura piacciono più che alla prima.” (G. Leopardi).

1984:1948=futuro (immaginato da Orwell):presente (della stesura del libro).

Siamo all’indomani della Seconda Guerra Mondiale.

Una coltre radioattiva di sangue e disperazione pervade i gangli vitali della società.

Gli eventi storico-politici (totalitarismo, Olocausto nucleare) alimentano di un’inquietudine sorda ogni pensiero appena al di là del contingente. E il positivo delle antiche, confortanti utopie di Bacone, Moro, Campanella, viene seppellito nella proiezione del suo negativo: uno Stato, l’Oceania, in cui campeggia l’inquietante cartello, affisso in ogni luogo reale e immaginario, con la faccia dai baffi neri che ammonisce, minaccioso per pochissimi, rassicurante per la stragrande maggioranza: il Grande Fratello vi guarda.

Un Partito che si prefigge e persegue, con angosciante metodicità, la falsificazione e l’annientamento della memoria storica, la corruzione del linguaggio attraverso la Neolingua.

"Era sottinteso come, una volta che la Neolingua fosse stata definitivamente adottata (…), un pensiero eretico (e cioè un pensiero in contrasto con i principi del Socing) sarebbe stato letteralmente impensabile, per quanto almeno il pensiero dipende dalle parole con cui è suscettibile di essere espresso."

E non è il guardare fisico del controllo, del “fiato sul collo” che può venire, ad esempio, da un pedinamento, a dare contezza dell’accerchiamento. Nossignore. Nel Socing di “1984″ vi è il monitoraggio del teleschermo capace di “leggere” ogni cosa e ogni espressione, persino una sfumatura di cedimento nell’osservanza dei dogmi del Grande Fratello. E quindi, l’Oceania è ed è sempre stata in guerra con l’Eurasia. Dopo un arco di tempo più o meno lungo, l’Oceania è ed è sempre stata in guerra con l’Estasia.

Del mutamento, del cambio nelle sorti della guerra, nessuno è messo in condizione di accorgersene. E questo perché, al Ministero della Verità presso cui lavora Winston (il protagonista del romanzo), ci si impegna febbrilmente, fin nel momento stesso in cui avviene il presunto cambiamento, a neutralizzarlo: si “vaporizzano” i libri che tramandano l’eresia di una guerra dell’Oceania con l’Eurasia, si riscrivono gli articoli veri ora divenuti irrimediabilmente falsi, si ritoccano le fotografie che non riproducono più la sempiterna verità.

Il cambiamento esiste nel momento in cui c’è un qualcosa, un documento che possa attestarlo. Quando però, nel Socing del “1984” ogni fonte viene distrutta, ogni mutamento anestetizzato con la rimozione del precedente che lo certifica, si è in un presente senza fine che non può essere smentito; manca, difatti, ogni traccia di passato. E quindi l’Oceania è ed è sempre stata in guerra con l’Estasia.

Qualora poi, come pure cerca di fare Winston, ci si ostina a conservare il ricordo flebile, dubbioso, di un’altra guerra, di un’altra Londra (“cercava di spremere dal cervello quelle memorie dell’infanzia che gli dicessero se Londra era sempre stata così”), ebbene, in questo stesso momento, interviene la Psicopolizia a ristabilire la Verità.

Inutilmente Winston cercare la salvezza in Julia, una donna capace di ribellarsi al “ventre freddo” delle donne di “1984” che si accoppiano solo per procreare.

Il loro amore, assurdo e rivoluzionario, sarà presto svelato e denunciato. E proprio quando si sentiranno pienamente parte della Fratellanza di Goldstein (il traditore “Nemico del Popolo” che viene fatto oggetto dei più turpi improperi nei catartici Due Minuti d’Odio) perché in possesso del Libro (!), Winston e Julia saranno catturati e condotti nel Ministero dell’Amore (ossimoro, quest’ultimo, in perfetta sintonia con i tre slogan del Partito: la guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza).

Qui Winston viene torturato, affamato, sottoposto a scariche elettriche proprio da O’Brien, l’uomo che egli pensava facesse parte della Fratellanza. E nel momento in cui il protagonista, pur nella sua discesa agli inferi, si rifiuta di ammettere che “2+2=5”, facendo appello a una presunta, incontrovertibile umanità che non può soccombere all’illogicità di quest’asserzione, O’Brien lo fa guardare allo specchio.

Winston si vede e si scopre disumano.

"Tu stai morendo, stai cadendo a pezzi. Che sei? Un sacco d’immondizie (…). La vedi quella cosa che ti sta guardando? Quella è l’ultimo uomo. Se tu sei un uomo, quella è l’umanità. (…)"

Eppure, dall’infima miseria della sua condizione attuale, nonostante abbia confessato tutto quello che gli hanno voluto far confessare, Winston ha conservato un atomo di ribellione: Julia non l’ha ancora tradita, non ha ancora smesso di considerarla una via d’uscita dalla fine.

O’Brien lo sa e capisce che “è venuto il momento di fare l’ultimo passo”.

La mostruosa stanza 101 si staglia, annichilente nel suo carico di simbolismo, alla vista di Winston.

Una paura ancestrale, capace – questa sì - di sprofondarlo nella perdizione, è a un centimetro da lui.

"<Fatelo a Julia! Fatelo a Julia! Non a me! Julia! Non me ne importa niente di quello che le fate. Laceratele la faccia, rodetela all’osso. Non a me. Julia! Non a me!>"

E così Winston, morto irrimediabilmente proprio nel momento in cui viene reinserito nel Socing di “1984”, “era riuscito vincitore su se medesimo.

Amava il Grande Fratello".

lunedì 17 novembre 2014

Vincenzo De Luca: dal Kaos al Crescent

All’origine fu il Kaos.
Poi, dal garofano chiacchierato del sindaco Vincenzo Giordano, per mera riproduzione verginale (lett. “partenogenesi”, come solo si conviene alle divinità dell’empireo), ecco spuntare la falce e il martello dell’altro Vincenzo, questa volta, Vincenzo De Luca

Gli annali registrano, per la discesa nell’agone politico del Nostro, l’anno 1993.

Prima dell’età del disvelamento di De Luca, a partire dal 1944 (ultimo anno in cui la città di Salerno, con la sua nomina a Capitale d’Italia, ha significato qualcosa per la Storia) e fino, per l’appunto, al 1993, niente da segnalare. Poi l’Annunciazione del Verbo, che si è incarnato nel seno della civitas hippocratica e s’è fatto uomo. Ed è proprio con riferimento all’anno del Signore 1993 che i posteri parleranno di Salerno come della città in cui

Si legano le vigne con le salsicce, e avevasi un’oca a denaio e un papero giunta, ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli, e cuocergli in brodo di capponi (…) e ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciol d’acqua…

Ed eccolo, il compagno Vicienz’ degli esordi, con alle spalle la falce e martello della cospirativa sezione, ringhiare contro le magagne del governo cittadino; poi, si sa, la responsabilità imborghesisce, la vis polemica si prende la patente di diplomazia. Da Masaniello (per carità, però, non lo apostrofate mai in maniera da ricordargli l’odiata Napoli… almeno odiata fino a ieri) arravotapopolo, alla carica di vicesindaco.

Che insinuate? Ciucci: la rivoluzione del Sol dell’Avvenire si può portare avanti, oltre che dall’esterno (e parliamo di ribellione) anche dall’interno del Sistema (sovversione).

Da vice a Sindaco, il passo è breve. E con l’acquisizione della carica, di nuovo Salerno si è riagganciata alla Storia: dal 1944, uno zompo, e stiamo al 1993. E già perché, per la ridente Salernum (da salum e Irnum, “il luogo situato tra il mare e l’Irno”) oltre, ovviamente, alla summa divisio “a.C.” (avanti Cristo)” e “d.C.” (dopo Cristo) indefettibile per ogni cronologia, ve n’è un’altra. Per l’esattezza, da circa una ventina di anni, “a.D.L.” (avanti De Luca) e “d.D.L” (dopo De Luca); acronimo, quest’ultimo, da non confondere con il d.d.l. del disegno di legge ma, in questo caso, aiutano le minuscole a distinguere.

Prima di Lui, della nostra Salerno, si negava addirittura l’autonomia territoriale. Riprova ne è il racconto di mio zio, militare ad Albenga (SV) nel lontano 1995, che alla sua fiera dichiarazione di appartenenza (“Sono di Salerno”), si sentiva rispondere: “Ah, sì, vicino a Napoli!”.

Ebbene, dopo il 1993 questi fraintendimenti, siffatte sviste territoriali, non sono più ammissibili: Salerno, dal ’93 “d.D.L”, rifulge a carattere di fuoco nella geografia nazionale e guarda con schifo malcelato (“ancora oltre sopportar non posso / la vostra vicinanza puzzolente”) il pennacchio accentratore della “napolitudine“.

Come? Certo, ehmm…sì, sicuro: ora Napoli è cultura, Napoli è l’ispirazione del mondo… ora, alla vigilia delle regionali!

Forse sarebbe il caso di fare, su questo come su altri argomenti che interessano il Nostro, un poco di chiarezza. Poiché, infatti, la comprensione si annida necessariamente nel passato di avvenimenti e persone, e poiché ogni storia acquista senso solo se intrecciata con la nostra esperienza personale, è opportuno declinare il pubblico nel privato.

All’indomani dell’elezione di Vincenzo De Luca a sindaco con la lista “Progressisti per Salerno“, il mio compagno di classe, “comunista” griffato e dalle buone maniere, mi ferma nel corridoio del Tasso e mi urla contro: “Per colpa di voi komunisti (e già perché, nei primi anni dal suo insediamento, votare De Luca voleva dire professare un comunismo duro e puro (!)) che avete appoggiato quel cafone di Potenza (sempre De Luca, ndr) mio padre, per andare al lavoro, deve parcheggiare l’auto un chilometro distante dal centro: tutte strisce blu!”.

Ora è chiaro che il compagno di cui sopra aveva votato, da quell’arbiter elegantiae qual è, il professor Giuseppe Acocella; così come è altrettanto chiaro, almeno per l’io di allora, che votare De Luca significava esprimere un voto di speranza in una rivoluzione anche urbana, fatta di aree pedonali, parchi cittadini, opere pubbliche, pulizia e decoro nelle strade. E devo dire, e chi afferma il contrario può essere solo in malafede, che effettivamente il ventennio deluchiano ci ha consegnato anche la rinascita urbanistica, ambientale (si pensi alle elevate percentuali di raccolta differenziata raggiunte in città) e di prestigio di Salerno. Soprattutto, ora come ora, un episodio come quello occorso a mio zio nel 1995, non sarebbe più possibile: solo un muflone selvaggio, difatti, potrebbe continuare a qualificare Salerno come “La città vicino a Napoli” (se non addirittura, come pure è successo, “La città vicino a Battipaglia”(!!), per via della mozzarella di bufala).

La riprova, qualora ce ne fosse bisogno, l’ho avuta proprio in questi giorni di Luci d’Artista, allorché mi è capitato di ascoltare una turista che telefonava a qualcuno parlandogli di “Salernò”; pur prestandovi la dovuta attenzione, infatti, non ho scorto disappunto sul sembiante della francese che potesse denotare il fastidio di ripetere il nome della città a un interlocutore che non lo conoscesse o che lo conoscesse solo “in relazionale a”.

Insomma Vincenzo De Luca, comunque la si pensi, ha fatto assurgere Salerno alla ribalta nazionale e, soprattutto per le opere architettoniche, anche a quella almeno europea, se non addirittura internazionale. Ma ogni acqua, anche la più limpida, se lasciata troppo tempo nello stesso catino, s’intorbidisce. Vieppiù nel caso di De Luca.

Già, infatti, nei primi anni novanta, il Nostro aveva dato prova di non sopportare ingerenze nel suo operato. Basti pensare al defenestramento del vice-sindaco Pasquale Stanzione reo, secondo la vulgata comune, di aver avuto l’ardire di prendere decisioni in sua assenza.

Dopo questo precedente Vincenzo De Luca, come tutte le persone intelligenti, ha messo a frutto l’esperienza e ne ha tratto insegnamento: ogniqualvolta un compagno di partito, o comunque un politico a lui vicino, ha anche soltanto osato (per i voti presi, per le iniziative portate avanti) manifestare un barlume di soggettività politica in grado di fargli ombra, il Sindaco l’ha prontamente “vaporizzato” (“1984” di Orwell) o affidato a incarichi di secondaria importanza. Come? Facendo proprio una modus operandi vecchio come il cucco: rintanare a forza ogni sodale non appena il manigoldo in questione si azzardi a innalzarsi alla luce, anche solo con un capello, dalla tana dell’anonimato predisposta dal Nostro.

La verità è cha da un ventennio il Sindaco, a Salerno, fa il bello e il cattivo tempo.

Ama ergersi a deus ex machina dell’intero scenario salernitano, anche al di là del palcoscenico più propriamente politico.

Non c’è campo, infatti, in cui la sua parola non detti legge. Si pensi, ad esempio, alle aziende municipalizzate della città.

Circola, a tal proposito, la voce (sicuramente infondata, beninteso) che De Luca, per salvaguardare la pax sociale di Salerno, abbia rimpinzato le numerose municipalizzate (secondo alcuni, inestimabili serbatoi di voti)  di persone non propriamente raccomandabili.

“Ciru’, ma la domanda in Salerno…, l’hai fatta?”

“E che la faccio a fare? Lo sa pure l’orologio da Prefettura che, per entrarci, mi mancano quattro-cinque precedenti penali, ‘na decina di tatuaggi, e due-tre orecchini”.

Questa è la simpatica, pur nella sua tragicità se solo fosse vera (ma abbiamo già precisato che non lo è e la riportiamo qui unicamente per rendere più sfizioso il nostro scritto), risposta che mi ha fornito un amico alla domanda di cui sopra.

Poi ci sarebbero le fontane del Sindaco (talmente tante, che per buona parte degli anni novanta, De Luca è stato soprannominato Vicienz’ ‘a Funtana), alcune delle quali scomparse sotto il cemento delle rotatorie (ed eccoci a Vicienz’ ‘a rotonda), e altre che versano in uno stato di quasi abbandono; il Faro della Giustizia, realizzato dagli artisti Ben Jakober e Yannich Vu, con le ceramiche presto ingiallitesi (continuiamo con Vicienz’ ‘o cinese), e con una luce (del faro, per l’appunto) che nessun salernitano ha mai visto accesa; ancora le ripetute, cicliche inaugurazioni di pietre diverse della stessa opera; le trasmissioni su Lira Tv del venerdì (rete ben presto definita Tele Kabul come la RAI 3 del P.C.I. della lottizzazione), in cui il nostro Sindaco se l’è presa coi cafoni di ogni risma e grado, spesso con linguaggio a tal punto colorito (frullino sei il mio battito d’ali) da innescare dei veri e propri tormentoni sui social. Ma per saggiare la popolarità da icona pop di De Luca, non c’è manco bisogno di scomodare Facebook e/o Twitter: è sufficiente, infatti, farsi un giro per le vie di Salerno in occasione della processione di San Matteo, il Santo Patrono della città.

Infine ci sarebbero le inchieste giudiziarie, non ultima quella sul mastodontico Crescent di Bofill, che hanno gettato ombre (più o meno lunghe a seconda del grado di stima precedentemente nutrita per De Luca) sulla inattaccabilità della figura del Sindaco; oltreché, ovviamente, dar fuoco alle polveri di chi considera il Nostro alla stregua di Belzebù.

Per le intemperanze e le storture dell’operato di De Luca, comunque, rivolgetevi pure al simpaticissimo gruppo Figli delle Chiancarelle (dal nome di alcune tavole di legno, chiancarelle per l’appunto, che venivano lavorate dalle aziende della vecchia Salerno… quella del Kaos, per intenderci) che non perdono occasione di mettere a nudo il re e la sua corte.

Politicamente, ormai, Vincenzo De Luca si muove sganciato da ogni partito e da ogni padrino politico, come dimostra il repentino (troppo repentino!) passaggio dallo “smacchiatore” Bersani al “pattista” Renzi.

Ora il traguardo è la regione. E la carica di Governatore è talmente succulenta da indurlo, come accennavo all’inizio di questo intervento, anche a riabilitare quella napoletanità sulla cui contrapposizione ha fondato l'”orgoglio salernitano” tanto strombazzato.

Di Vincenzo De Luca ci sarebbe da scriverne per pagine e pagine.

Io, da semplice curioso della realtà circostante, mi sono limitato a portare alla vostra attenzione, un po’ “alla sanfasò” come direbbe il Maestro Camilleri, alcune tinte del ricchissimo e complesso caleidoscopio Vincenzo De Luca.

Chiudo con un apprezzamento sincero della capacità oratoria (al netto di qualche “miracolo” di troppo) di De Luca che, a un compagno della sezione che l’ascoltava estasiato fece esclamare, davanti alle mie orecchie incredule: “Mamma ma’, mi ha fatto arrivare che manco Annamaria!”.

Il potere si assefua alla propria voce. Quando l’assuefazione è completa, la scambia per la voce di Dio. (Alberto Asor Rosa)

martedì 4 novembre 2014

“Dotto’, ‘e cazettin?!”

Un ticchettìo di dita sul finestrino. Ti giri in direzione del rumore perché pensi a lei che finalmente è scesa dal treno e ti ha raggiunto. “Dotto’, – un ghigno da impunito stampato su lineamenti beffardi‘e cazettin?”

Non riesci manco a trovare il tempo di opporti che già la frangia granata (non è che per mezzo che stiamo a Salerno tutti i calzini devono essere di colore granata, no?!) s’insinua nel rettangolino del finestrino lasciato colpevolmente aperto.

“Ma io… – cerchi di accampare ‘na fetente di scusa che ti possa sottrarre all‘invasione del cazettino selvaggio…no….”

Troppe cose aperte e/o sospese: il finestrino, i puntini sospensivi fatti apposta per essere riempiti dal nylon dei calzini, la volontà morbida come il ventre caldo dell’Ubalda.

“Dotto’, ‘e cazettin!”

Imparpagliato, con i calzini granata sopra il cruscotto, metti mano al portafogli e paghi.

La fase due è quella di trovare una giustificazione all’ennesimo paia di calzini granata che regalerai al nonno, magari assieme alle brache rigorosamente nere, per riprodurre i colori sociali della Salernitana. Sempre, ovviamente, sperando che il vecchio in questione non perda la pazienza come il personaggio di Io speriamo che me la cavo (“Oh Maronna mia, nata vot o piecr! Ma che cazz o puort a fa ognj’ anno stu piecr comm a te si nun tien mai o curagg ro scannà?!? Ije te scannas ije a te!”)

E mentre pensi che “È meglio che facciano questo piuttosto che rubare o spacciare”, sopraggiunge la tua ragazza.

Ti appioppa un bacio e scorge i calzini sul cruscotto. Inizia a ridere: “Un’altra volta – osserva mentre si sganascia dalle risate ‘e cazettin?”

E tre: ti sei riempito il cruscotto di nuances granata per aspettare lei, hai “cacciato” tre euro per farti fare fesso e sei passato pure per coglione.

Piglia, impacca e porta a casa!

La settimana dopo, sempre alla stazione di Salerno e sempre ad aspettare lei.

Chiudi i finestrini e continui a spingere sul bottoncino per circa due minuti dopo la chiusura. Non pensi di controllare la venuta di Angela (“Deve cercarmi lei, l’uomo-cazettino è più importante!”) e lasci rigorosamente accesa l’auto.

Ne viene uno a destra con i calzini di spugna (granata). Innesti la prima e ti sposti due metri più in là.

Eccone un altro a sinistra, con una mappata di calzini (granata!) che cerca un varco nel tuo finestrino. Godendo come un criceto in calore, abbandoni di nuovo il cambio in folle, ingrani la marcia, e ti parcheggi, sempre col motore acceso, dall’altra parte della strada.

Viene la tua ragazza. Apre la portiera. Da destra e sinistra arrivano due ondate di stoffe granata pronte a sfruttare l’apertura alare dello sportello.

Ti avvinghi alla sua borsa, e il tirarla dentro l’abitacolo e il dare gas al motore, è tutt’uno.

E tre: ti sei risparmiato l’ennesimo paia di calzini granata sul cruscotto, non hai sborsato manco un cent, hai acquistato il rispetto della tua bella.

Fieramente impettito come il nostro ZON che vende più copie de Il Corriere della Sera, parcheggiata l’auto, te ne vai passeggiando con il tuo amore, decisamente fiero di te.

Arrivi all’altezza del palazzo della Provincia e… a destra: “Dotto’, e cazettin!”; a manca: “Dotto’, ‘nu bell’ cazettin granata, jamm!”.

Li guardi annichilito, a tal punto che la tua ragazza si sente in dovere di venirti in aiuto: “Ma che dobbiamo fare con tutti ‘ste calze e calzini, ‘na rapina?”

“Dottore’ (per normale associazione di genere), ma vi pare che se ci fosse qualcosa da rapinare, nuie stessimo ancora cca a vendere ‘sti maronn e cazettin, per di più granata (visto ca simm tifosi do Napule)?”

Tu e la tua metà vi scambiate uno sguardo di prostrata rassegnazione.

Il tornarsene a casa, tu con cinque paia di calzini lunghi, lei con altrettanti paia di cazettini di spugna (ça van sans dire, tutti di colore granata), ha qualcosa di più deprimente della Waterloo napoleonica.

sabato 1 novembre 2014

"Assassinio al Comitato Centrale", di M. V. Montalbàn

Vi è impazienza per l’arrivo di Fernando Garrido, il segretario generale.

Alla sua venuta, come sempre, i diversi gruppi nel frattempo formatisi s’apriranno “come occhi per contemplare ancora una volta l’eterno miracolo dell’incarnazione dell’avanguardia della classe operaia nella persona di un segretario generale”.

Il discorso introduttivo al Comitato Centrale, per forza di cose destinato a durare poco (“Faremo presto, perché sapete bene che non posso resistere a lungo senza fumare“), può finalmente fuoriuscire dalle labbra di Garrido, parzialmente occupate dalla sigaretta (spenta-accesa, a seconda delle ricostruzioni postume) che tanta importanza avrà, sia pure indiretta, per la risoluzione del caso.

Il black-out elettrico, con la sua oscurità pregna di possibili moventi, per qualche minuto impedisce il prosieguo dei lavori. Torna la luce, che non può fare altro che assistere e propagare l’immagine di un segretario generale morto, ucciso da una pugnalata.

Siamo all’indomani della dittatura franchista. Da poco tempo il Partito Comunista è uscito dalla clandestinità “per dare l’assalto al cielo” (Marx) della democrazia. Gli equilibri sono delicati. C’è una corrente del partito, affascinata dagli incantamenti sovietici, che vede di cattivo occhio l’eurocomunismo di Garrido. C’è chi propugna, invece, un accordo con i socialisti. Chi, infine, ritiene opportuno che il partito faccia proprie le istanze del sindacato, sua naturale cinghia di trasmissione.

Senza contare, ovviamente, il KGB, la CIA, il franchismo internazionale, che avrebbero mille motivi – anche solo per fini destabilizzanti – per volere la morte del segretario generale del partito comunista.

Eppure… porta chiusa dall’interno: l’assassino è membro del Comitato Centrale.

Le indagini vengono affidate “agli occhi acquosi senza palpebre” di Fonseca, un poliziotto che all’epoca di Franco guidava la feroce repressione agli oppositori del regime.

Santos Pacheco, numero due del partito, per il quale la Storia ci ha impedito (ai comunisti, ndr) la normalità, nel bene o nel male siamo sempre stati eccezionali, ottiene dal Governo che venga condotta, parallelamente a quella di Fonseca, un’altra indagine. Affidata questa volta a Pepe Carvalho, detective con alle spalle una militanza nel Partito Comunista clandestino spagnolo.

E lo stesso, raffinato gourmet Carvalho, immalinconito al pensiero di lasciare l’europea Barcellona per Madrid “che ha dato ai beni cultural-gastronomici della nazione soltanto un lesso, una frittata e una trippa”, si sfoga bruciando l’ennesimo libro; pratica insolita, quest’ultima, avviata contestualmente alla fine della sua carriera di compratore-lettore; precisamente, “dal giorno in cui si era sorpreso schiavo di una cultura che lo aveva separato dalla vita, (…) che aveva alterato la sua sentimentalità come gli antibiotici possono distruggere le difese dell’organismo”.

L’ottimo investigatore, tra ricerche spasmodiche di piatti “come Dio comanda”, torture fisiche e psicologiche da parte di agenti difficilmente collocabili, e donne dal fascino conturbante, riuscirà a scoprire l’assassino grazie a un particolare “illuminante”.

L’ambientazione dell’assassinio (la stanza delle riunioni del Comitato Centrale, chiusa dal di dentro, che ospita centoquaranta persone), a differenza di quell’altra celeberrima dell’Orient Express di Agatha Christie (anche in questo caso, difatti, vi è un ambiente, quello del treno, isolato dall’esterno soprattutto per la neve), è ben lontana dal suggerire quelle complicazioni psicologiche dei personaggi mirabilmente create dalla scrittrice inglese.

La trama del libro sembra volutamente mantenersi ai margini di una storia che sarebbe pure interessante per soffermarsi, piuttosto, sui reduci di un partito le cui tensioni ideali non hanno tardato a sciogliersi nella liturgia. Una formazione politica nella quale, come dice Santos nella sua lettera finale, “gli dei sono morti” e sono rimasti solo i sacerdoti, avviluppati nel loro stucchevole cerimoniale di corte.

Abbastanza confuse, poi, appaiono le motivazioni e l’appartenenza degli agenti interessati alla soluzione del caso, che verranno a scontrarsi – più o meno bruscamente – con il nostro investigatore.

Infine, non si può non rilevare un sarcasmo, in alcuni casi del tutto fuori luogo perché esasperato, di Pepe Carvalho anche in situazioni (ad esempio di fronte ai torturatori e a rischio di inasprire le loro pratiche d’interrogatorio) che presupporrebbero maggiore cautela.

Da un punto di vista stilistico, la scelta di non suddividere il romanzo in capitoli mina alquanto l’attenzione del lettore, così come i continui e improvvisi flashback appaiono, per l’appunto, troppo repentini per essere colti immediatamente. Per di più, non vengono opportunamente isolati o comunque differenziati dal normale andamento della storia.

In conclusione, malgrado il nostro Camilleri abbia scelto di chiamare il protagonista dei suoi polizieschi Montalbano, in ossequio, per l’appunto, allo scrittore spagnolo Montalbàn, diciamo che, almeno per questo romanzo… “Troppa grazia, sant’Antonio!”

Il sagace Montalbano di Camilleri, infatti, ci appare ben più accattivante del Pepe Carvalho di Montalbàn, con il quale ci sembra avere in comune esclusivamente la passione per il cibo. E anche sotto l’aspetto culinario, preferiamo grandemente la pasta “Al nivuru di siccia” e gli arancini della cammarera Adelina alle trippe e alle salsicce catalane ben tartufate di Pepe Carvalho.

martedì 28 ottobre 2014

Il Paolo Conte di "Snob"

Il Paolo Conte di “Snob”: forse, mai come questa volta, davvero “Con quella faccia un po’ così/quell’espressione un po’ così…”

E come poteva essere altrimenti? Ti guarda, dallo sfondo nero della copertina del nuovo CD,  come “l’uomo scimmia” che, nonostante tutto, davvero non “capisce il motivo”; come il “camionero sensible” (“peruviano mixto Andaluz”), bisognoso del manuale di conversazione (traccia n. 13) per potersi intendere con la bella africana che, con “intenzion cavalleresca” fa salire sul suo camion.

Già, proprio un manuale di conversazione per permettere al Maestro di farsi intelligere dalla musica, troppe volte stracciona (“Oggi si fanno canzoni con solo 2 -3 accordi, cosa che, ai miei tempi, era inconcepibile”), del nostro presente.

A rompere la classicità della foto di copertina, lo “Snob” amaranto posto in basso a destra. Proprio “snob”, “sine nobilitate“, come gli studenti di Cambridge definivano chi non apparteneva al mondo universitario. E, come volevasi dimostrare, Paolo Conte non può appartenere all’università (musicale) del contemporaneo. A rimarcarlo, qualora ce ne fosse bisogno, basterebbe far riferimento alla presentazione dell’album uscito il 14 ottobre: ai salotti paludati delle emittenti TV, alle frequenze psichedeliche delle radio, il Maestro ha preferito… la cantina. Sì, proprio così: il nuovo cd è stato presentato, al cospetto di una quindicina di giornalisti, nella cantina Rocchetta Tanaro di Asti.

La “vendemmia della cultura“, come qualcuno ha felicemente definito l’evento.

Ed eccoli qui i quindici colori, le quindici “interpretazioni di gusto” del vino (supremo) del Maestro.

1) Si sposa l’Africa: due telefonini stregoni (“io non posseggo il telefonino”) s’incontrano e, dopo essersi parlati due volte, decidono di sposarsi.

Nella prima parte, l’Africa antica, dove gli invitati arrivano tra capre e nuvole. Nella seconda, l’Africa moderna, con la terra rossa dei campi da tennis: son tutti soci di Wimbledon.

Musica etnica (fisarmonica “tambureggiante”) corredata dalla voce “tribale” di Conte che ripete il mantra Kunta Kinte;

2) Donna dal profumo di caffè: un sogno, una donna declinata con le virtù del caffè (bevo un caffè da aviatore/che sta ascoltando un motore…).

Suoni onirici e pianoforte “suggestivo”.

3) Argentina: terra d’immigrazione, dove i bastimenti gridano partiamo.

Ne abbiam frustato scarpe a Buenos Aires.

Pianoforte arrembante di malinconia.

4) Snob: le erre arrotate della propria donna fanno temere una simpatia per qualcuno dai tre cognomi. Il provinciale, però, con le sue cose “sostanziose” (parole, cibo), con le canzoni che van ben per i soldati e i muli, la riconquisterà.

Virtuosismi pianistici al limite della classicità.

5) Tropical: le ultime sambe degli anni cinquanta quando le parole bastavan da sole.

Ritmi swing come pennellate di colore.

6) Fandango: ermetismo poetico della statua di luna su lucidi ghiacci.

Atmosfere musicali dark.

7) Incontro: l’uomo incatenato e perduto al cospetto della luce d’amore (gatto d’estate che vaga e insegue un romanzo suo).

Musica “tanghera”.

8) Tutti a casa: c’è una vita nelle strade d’inverno, come nel cuore del protagonista; la stessa vita non comprensibile alla donna che si scalda le gambe davanti ad un falò.

Ballata cantilenante.

9) L’uomo specchio: un uomo che si fa specchio per esprimere la vera, segreta personalità della sua amata.

Intro: connubio d’autore sax-pianoforte. Scampoli d’elettronica.

10) Maracas: ritmo coinvolgente, tra Genova e le Americhe dove vuoi o non vuoi, hanno sorrisi più larghi di noi.

Samba in dialetto (parte finale) genovese.

11) Gente (csidn): occhi, piedi, mani, vite di Gente Che Stava Innamorandosi Di Noi.

Trionfo di chitarra acustica.

12) Glamour: un condor rosso in lingua tedesca.

Voce calda e roca del Maestro.

13) Manuale di conversazione (v. sopra).

14) Signorina Saponetta: la signorina che valzeggia, volteggia e poi marzuccheggia.

Revival musicale dei primi decenni del Novecento.

15) Ballerina: ballerina sei di legno, ma t’insegno io…

Gioco musicale d’antan.

Chapeau, Maestro.