giovedì 2 ottobre 2014

"Senza perdere la tenerezza", di Paco Ignacio Taibo II

Pensieri su ‘Senza perdere la tenerezza’ che stava lì, con le pagine ammiccanti, giocando sporco

E già, come diversamente definire un libro che si presenta con un’immagine del Che depotenziata nelle dimensioni (quasi un terzo della copertina) prima di naufragare in un anonimo bianco, così come nella retorica magniloquente dell’abusato Che con Fidel, o, festival del luogo comune, del Guerrillero Heroico di Alberto Korda?

Stava lì, dicevo, quasi timido, sopra lo scaffale del mio “spacciatore di libri ambulante.

“Oddio, l’ennesimo libro sul Che! No, Vincenzo caro, ormai sei adulto, troppo grande per le reminiscenze ginnasiali. E, soprattutto, troppo inserito (e l’iva arretrata sta lì a ricordartelo) per farti ammaliare dal basco del Comandante!”.
Giro, rigiro nella Sierra Maestra di titoli vari. Me lo ritrovo in mano.
Assolutamente contrariato per un altro libro sicuramente “pompato” sul Che, pago e vado via.

Lo porto allo studio. Inizio col dargli qualche scorsa, tra una messa in mora e un atto di citazione.

Quando partecipa come testimone alle nozze di Fernandez Mell (…), lo fa vestito con un’uniforme da battaglia logora e piena di piccoli buchi. <Com’è che sei venuto con quell’uniforme?> gli domanda qualcuno. <È la mia uniforme estiva.>

Poi gli dedico il tempo prima del lavoro e dopo l’ultima pratica.

Durante una riunione della Direzione rivoluzionaria cubana, il Primo ministro aveva domandato (…) se fosse presente qualche “economista” e il Che, che stava dormicchiando, aveva capito “qualche comunista” e aveva alzato la mano.

Ora il lavoro riempie le parentesi della lettura. A tal punto che, nonostante (uno) la mole (ragguardevole), lo finisco in 20 gg.; nonostante (due) le frenetiche fatiche dell’avvocato, la stanchezza se ne va a ramingo su una delle sue tante, amate, mule.

Biografia finalmente “depurata” di un’icona che prima di rifulgere del suo mito si sofferma sull’uomo Ernesto Guevara. E allora scopro, oltre a tutte le qualità già conosciute e apprezzate (l’ossessione per la scolarità dei suoi uomini, il suo impegno a curare anche i nemici, etc.) , che era un tipo “poco igienico”, che la sua eloquenza non era proprio da urlo. Depotenziamento della sua grandezza? No, finalmente resoconto di piccole intemperanze che lo rendono ancora più apprezzabile proprio perché umanizzanti.

Anche lo stile e la grammatica del romanzo, coerenti con quest’impostazione “piana”, che nulla concede all’autoreferenzialità, vuole essere coinvolgente per il contenuto affrancandosi, così, definitivamente dall’epos celebrativo.

Traspare, soprattutto verso la fine del libro, il credo in un comunismo comunque diverso, “altro” da quello russo (che, tra l’altro, dota Cuba di trebbiatrici e macchine agricole di pessima qualità) e un’accettazione mai rassegnata del proprio destino di morte. E comunque, pur nella corruttibilità di qualsiasi organismo umano Ernesto Guevara, ci rivela l’ottimo autore del libro, continua a imperversare nella sua “maledizione”.

“La maledizione del Che”. In che consiste? Semplicemente nella convinzione, radicata soprattutto in Bolivia e corredata da una casistica a dir poco inquietante per la sua frequenza, che le numerose morti, uccisioni e disgrazie cui sono rimasti vittima i nemici di Che Guevara, siano attribuibili proprio alla colpa di quest’ultimi di essersi messi di traverso al suo messaggio di redenzione (laica, ma pur sempre redenzione).

Che aggiungere, al proposito? Sarebbe opportuno che qualche politico salernitano “piagnone” non definisca più il Che “macellaio”, se vuole evitare  di incappare nella tremenda, annichilente “maledizione del Che”.

Com’è che si dice? Non è vero ma ci credo!

Infine, passando dal faceto al serio, leggendo quest’opera egregia di Paco Ignacio Taibo II, si insinua, anche in noi, il dubbio e la speranza che forse, se le mani di Ernesto Guevara de la Serna non fossero state amputate e fossero sopravvissute alla sua leggenda, la storia universale del comunismo avrebbe potuto seguire dinamiche diverse; uno sviluppo differente, proiezione sì del suo carattere difficile, tremendamente esigente con sé stesso e con gli altri, ma anche di una sconfinata umanità, tenerezza per l’appunto.

Confesso che era da un po’ di tempo che, pur professandomi un buon lettore, non tornavo a casa di sabato sera, alle 3, con la voglia di rinchiudermi in bagno per leggere ancora un’altra pagina. Penso che questo significhi qualcosa. Almeno per me.

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