martedì 27 gennaio 2015

“La chiave d’oro”, di Giovanni Verga


Ho riesumato questa raccolta di novelle dalle secche ginnasiali. Mi sono lasciato cullare (ogni sera, per un mese circa) dalle fantasticherie dello scrittore; dal brulicame nero e indistinto dei personaggi; dai paesaggi con le allodole nel piano, i passeri sul tetto, le foglie e i nidi nelle siepi della Sicilia nonché dagli squarci a lume chiaro del gas di Milano.

In questo articolo, però, voglio concentrarmi su uno solo di questi bozzetti del Verga, La chiave d’oro. Trattasi di “una delle novelle più belle e delle meno conosciute” (L. Sciascia) dello scrittore siciliano che, ciononostante, per i motivi che tenterò di illustrare qui, è di capitale importanza nella produzione verghiana.

Breve riassunto: la novella si apre con la figura del Canonico che, dopo cena, sta recitando il rosario insieme a un gruppo di donne. All’improvviso, una schioppettata nella notte squarcia la litania usuale. Il prete, allora, al sentire bussare al portone con un sasso, pallido come il berretto da notte, corre a prendere la carabina, al capezzale del letto, sotto il crocifisso.

Aperto il portone, appare Surfareddu (“zolfanello”, con riferimento al carattere infiammabile del personaggio), uomo che nella sua professione di camparo aveva fatto più di un omicidio, il quale confessa spavaldo come abbia ucciso almeno uno dei tre mariuoli che stavano rubando le ulive del prelato.

Il Canonico, dopo aver inveito contro il suo camparo, preoccupato del chissà quanto mi costerà questa faccenda, si prepara a trascorrere una notte agitata.

All’indomani, al far del giorno, si reca nella sua proprietà e vi trova, per l’appunto, il ladro col naso color fuligine dei moribondi che biascica:<Ah, signor canonico. Per quattro ulive m’hanno ammazzato!>

Viene il Giudice, la forza pubblica, il cancelliere, che minacciano di legare il Curato come un mascalzone.

Poi allestiscono la tavola all’ombra del frutteto.

Il Giudice viene invogliato dalle donne a prendere un boccone tra quelli alacremente preparati (maccheroni, intingoli di ogni sorta) in un “vidiri e svidiri”.  

Al termine del pranzo luculliano (le signore stesse si misero in quattro perché la tavola non sfigurasse), gli viene offerto il caffè fatto apposta con la macchina, mentre il cancelliere stende in fretta dieci righe di verbale.

All’indomani il Giudice fa sapere che ha perso, nel frutteto del canonico, la chiavetta d’oro dell’orologio; si raccomanda affinchè la cerchino bene perché doveva esserci di certo.

<Datemi due giorni di tempo, che la troveremo – rassicura, fiducioso, il Canonico.

La chiave viene trovata e il processo andò liscio per la sua strada.

Anni dopo, quando gli viene chiesto di esprimere un giudizio su quel giudice, il Canonico risponde:<Fu un galantuomo! Perché invece di perdere la sola chiavetta, avrebbe potuto farmi cercare anche l’orologio e la catena.>

Ordunque, passando ai motivi che rendono questa novella degna di attenzione, bisogna precisare come, nelle opere del Verga, non vi sia una accusa sì esplicita e dura contro la classe dei “galantuomini” e la loro “giustizia” della stessa veemenza di quella che che troviamo qui.

La cinica battuta finale del Canonico (Fu un galantuomo!) è rivelatrice: il Giudice è un “galantuomo” perché invece di alzare il prezzo della sua corruzione (e sì che lo poteva fare!), si accontenta di una contropartita “onesta”, appena due onze (il valore dell’oggetto che dichiara di aver smarrito).

Il tema di questo componimento del Verga, quindi, attualissimo in tutta la sua drammaticità, è il codice d’onore del potentato siciliano per il quale ogni perifrasi, ciascun sostantivo, anche il più chiaro, si carica sulle spalle un significato “altro”.

Il fascino di questa novella dimenticata non sta nel “fatto” (…), ma nella trascrizione dei linguaggi con cui comunicano le classi in Sicilia: il camparo, il Canonico, il Giudice parlano linguaggi diversi resi omogeni da un sottinteso di omertà più o meno esplicito. (Madrignani).

Un breve accenno merita anche la figura del Canonico, che tiene la carabina sotto il crocefisso e si reca sul luogo del delitto armato sino ai denti e con tutti i contadini dietro (manco fosse un bravaccio del Manzoni); che non prende nemmeno in considerazione l’eventualità che la persona sparata possa essere anche solo ferita e che, quindi, sarebbe opportuno precipitarsi subito laggiù nei campi; che giura il falso e corrompe il giudice.

L’acme della odiosità, però, è toccata allorché il Canonico va a prendere una bottiglia di moscadello vecchio che avrebbe risuscitato un morto, proprio mentre quell’altro morto, precisa il Verga, l’avevano sotterrato alla meglio sotto il vecchio ulivo malato.

In questa trama sordida di ammiccamenti omertosi, corruzione dilagante soprattutto tra chi, per la funzione rivestita (religiosa e civile), dovrebbe non solo esserne immune, ma ergersi a baluardo della legalità, il “vinto” è il mariuolo. E ciononostante, la vittima sembra quasi prendersi gioco della connivenza mafiosa tra i protagonisti della novella; pare quasi eleggere la sua indifferenza (forzata, per la morte) a superiorità morale sul Canonico, sul Giudice e su tutta la genia dei “galantuomini” come loro.

Nel frutteto, sotto l’albero vecchio dove è sepolto il ladro delle ulive, vengono cavoli grossi come teste di bambini.

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