martedì 19 maggio 2015

L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro


Guardando la fiumana di laureati in coda per l’ennesimo concorso da poco più di mille euro al mese, ho ripensato a quell'impressione di ormai ventiquattro anni fa al cospetto dell’art. 1 della Costituzione: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”

Ricordo il colore del libro di educazione civica, il banco scalcagnato su cui Piero non mancava mai di marcare la sua presenza “gommosa”; e tra tante spoglie di chewingum esauste, ricordo quella di colore rosa, probabilmente una big babol, su cui si piantai il mio disappunto: “ma come, ci sono tanti principi, tanti valori in grado di far vibrare i cuori, di giustificare pure il sacrificio di una vita, e i Padri Costituenti mi fondano il Paese sul lavoro?”

Poi succede che la vita, al di fuori dello Sbarco dei Mille di cui avevi condiviso anche il mal di mare, al di là della Presa della Bastiglia della quale percepivi ancora il fremito rivoluzionario, richiede la tua parte nel copione.

Ed ecco che finalmente riesci a capire appieno il significato del termine “lavoro”.

<Come ti chiami?> Ovviamente, prima domanda.

<Che lavoro fai?> Inevitabile, ineludibile seconda domanda che nasce nel momento stesso in cui si conosce qualcuno.

lavoro

E sia che si parta dall'assunto “materialista” per cui, ormai, la società è mercato e che quindi, per stare in società, devi necessariamente consumare (con il provento del lavoro); sia che si prediliga quello maggiormente “umanistico”, sulla scorta del quale la società è espressione della dignità di ogni suo membro e giocoforza, per dare il tuo contributo, devi poter “testimoniare” almeno un briciolo di dignità sociale che solo il lavoro ti può dare, ecco, in entrambi i casi, si capisce la lungimiranza dei Padri Costituenti nell'aver eletto il lavoro a primo respiro della nostra Carta costituzionale.

E allora rivivo con avvilimento e frustrazione la messe di persone, giovani e meno giovani, che lottano per superare un concorso o per affermarsi in quel che resta della tanto decantata libera professione. Per che cosa, poi? Per un principio, semplice e rivoluzionario ad un tempo: manifestare il proprio diritto alla vita, per non essere costretti a rispondere “passo” alla chiamata della Storia che richiederebbe, non foss’altro che per evitare un racconto dimidiato o partigiano, la loro versione dei fatti.

Rivivo i loro tormenti con angoscia perché consapevole, distante eppur in un certo senso vicinissimo a quel ragazzetto che appuntava su spoglie di gomme di colore via via diverso il suo disappunto, dell’importanza sociale, umana ed esistenziale della parola “lavoro”.

martedì 5 maggio 2015

Dall'alto dei cieli, la lingua di Dio



Ebbene sì, me ne sto convincendo sempre di più: secondo me la lingua di Dio, il suo idioma, è la musica.

Ragionatene con me. Il libro della Genesi ci narra la vicenda della Torre di Babele costruita dagli uomini per “raggiungere” Dio. Ora la divinità, per punire la superbia (la hybris della tragedia greca) dei suoi fedeli, ingarbuglia le lingue in maniera tale che le persone non si possono più comprendere e, non intendendosi, non possano più continuare la costruzione della torre. Ecco nata, quindi, la diversità linguistica tra i vari popoli della Terra.

A partire da questo momento, la difformità tra una lingua ed un’altra non solo ha creato problemi alle persone, ma è stata foriera di guai anche per il messaggio stesso che Dio ha voluto veicolare agli uomini di buona volontà. E non parlo soltanto del passato (si pensi, per un attimo, alle eresie nate e perseguitate per la diversa definizione data, ad esempio, allo Spirito Santo – basta leggere, all'uopo e senza scomodare i testi religiosi, il Nome della Rosa di Eco per farsene un’idea), ma anche del presente, come nel caso della querelle infinita tra gli assertori della interpretazione letterale (ad es. i Testimoni di Geova) e quelli dell’interpretazione più “libera” e “mediata” delle Scritture; oppure, per allargare il campo delle incomprensioni, si pensi ancora alle dispute interminabili, sempre causate da sottigliezze terminologiche, sul corretto significato da attribuire alla parola jihad.

Stando così le cose, io ritengo che al buon Dio sarebbe convenuto molto di più parlare attraverso la musica, non foss’altro che per evitare i fraintendimenti linguistici che hanno causato, e continuano a causare, una messe di morti per un accento o un apostrofo.

Con la musica, invece, si risolverebbe ogni problema. Il do, infatti, in qualsiasi latitudine del mondo, è sempre scritto allo stesso modo sul pentagramma. Una semibreve si chiamerà diversamente a seconda del Paese in cui la partitura viene eseguita, ma la sua raffigurazione e, quindi, il suo valore, saranno sempre la stesse, dal Manzanarre al Reno.

Quali sono le fonti capaci di accreditare questa mia (strampalata) teoria? Nessuna, ovviamente, ma mi piace pensare che a questa conclusione sul linguaggio di Dio si siano avvicinati, sia pure sempre nel solco dell’ortodossia cattolica, anche personaggi illustri come San Bernardo

I tre monaci] incontanente che furono dentro [alla porta d’esso Paradiso], udirono lo suono della rota del cielo che si volgeva; lo quale suono era di tanta dolcezza e suavitate e di tanto diletto, che quasi non sapevano lo sito dove erano, anzi si posono a sedere dentro della porta, tanto erano allegri e dilettosi di quello suono della rota del cielo! (Leggenda del Paradiso Terrestre, ne Le sette opere di penitenza di San Bernardo)

 e il Sommo Poeta Dante Alighieri, con la sua armonia delle sfere…

 Quando la rota, che tu sempiterni Desiderato, a sé mi fece atteso, Con l’armonia che temperi e discerni, Parvemi tanto, allor, del cielo acceso De la fiamma del sol, che pioggia o fiume Lago non fece mai tanto disteso. (Par I, 76-81)

 Sì, lo so che sia San Bernardo che Dante erano ben lontani dall'equazione “lingua di Dio=musica”, ma mi intriga l’idea che la mancata affermazione di una cosa del genere fosse solo dovuta a, diciamo così, prudenza teologica. Che poi, qualsiasi sia la vostra opinione al proposito, una cosa è certa: la stretta interdipendenza tra lingua e musica nella sfera religiosa è un dato di fatto che si evince, non in ultimo, anche dal nome stesso dato alle note musicali. Infatti, com'è noto, i suoni attualmente in uso nel nostro sistema musicale derivano dalle sillabe iniziali dei primi sei versi di un inno in onore di S. Giovanni attribuito a Paolo diacono:

UT queant laxis/REsonare fibris/ MIra gestorum/ FAmuli tuorum/ SOLve pollutis/ LAbiis reatum/ Sancte Jhoannes

Certo, obietterete voi, qui si parla di causa (latino, e quindi lingua) ed effetto (la musica). Ma voi stessi sapete fin troppo bene che il confine tra causa ed effetto, a volte, è molto sottile e, altrettante volte, di non chiara antecedenza logico-semantica.

In conclusione, a Dio piacendo, e nella speranza di non essere tacciato di eresia, credo proprio che la voce di Dio sia una musica celestiale.