giovedì 27 agosto 2015

"Un rivoluzionario chiamato Pancho", di Paco Ignacio Taibo II


Doroteo Arango, in arte Pancho Villa

Alla fine della lettura di questa monumentale biografia di Paco Ignacio Taibo II, è necessario chiudere gli occhi, prendersi una pausa dalla vita per trovare finalmente requie: di troppi sentimenti, gesta, persone, è difatti ricca la storia del famigerato Pancho Villa.

Già: chiudere gli occhi, si diceva; ma per troppe persone il gesto naturale e vitale di abbassare le palpebre ha significato, negli anni della rivoluzione messicana, il terrore di veder risorgere lui, Pancho Villa, alla guida della leggendaria Division del Norte .

Ma chi era Pancho Villa? Ed ecco che il bardo cieco riacquista la vista del mito, lo scrittore indomito rispolvera la nervatura della leggenda.

1894, stato di Durango, Messico. Il torto subito s’incarna nelle fattezze di un giovane mezzadro che, tornato a casa dal lavoro, vede l’onore di sua sorella minacciato dal potente don Augusto Lopez Negreta.

Doroteo Arango, all’epoca degli eventi troppo insignificante per sostenere il peso del Pancho Villa che diventerà, spara. E lo sparo lo condannerà alla macchia.

Per 17 anni dei 30 vissuti prima di partecipare ad una rivoluzione, era stato un fuorilegge: ricercato dalla giustizia, bandolero, ladro di bestiame, brigante.

Finalmente, poi, l’incontro con Francisco Madero, la Rivoluzione, la Storia; e, soprattutto, la scoperta della sua missione: lotta senza quartieri, massimamente con azioni di guerriglia, alla dittatura che nel corso degli anni si incarnerà in diversi personaggi e presidenti.

Nascerà il Pancho Villa stratega geniale che, pur (troppo spesso) con un equipaggiamento raffazzonato, riuscirà ad elaborare strategie sì raffinate da suscitare l’ammirazione degli osservatori internazionali. Lo stesso comandante irriducibile che, per la prima volta nella storia, violerà il sancta sanctorum del capitalismo americano con l’attacco a Columbus, nel New Messico.

Si formerà, poi, il Pancho Villa uomo: capace di attacchi di collera feroci ma anche (e soprattutto) di slanci di generosità e disinteresse tali da mettere in crisi qualsiasi topos dell’eroe positivo.

Pressoché illetterato, fonda ben 50 scuole in un solo mese da governatore dello stato di Chihuahua, persuaso che gli insegnanti debbano essere pagati di più dei guerriglieri.

Convintamente astemio in anni e ambienti di fegati allevati a sotol (bevanda nazionale di alcuni stati del Messico) che più di una volta ha appannato la lucidità dei suoi uomini.

Amante instancabile, capace di risolvere un matrimonio (uno dei tanti) non più gradito con il semplice strappo del certificato matrimoniale e purtuttavia rispettoso dell’universo femminile.

Pancho Villa, uomo diffidente fino allo stremo che era solito svegliarsi in un luogo quasi sempre diverso da quello scelto per addormentarsi, che prima di uscire di casa esigeva che venissero spente le lampade per non stagliarsi in controluce, che infine prese l’abitudine di nascondere piccoli e grandi tesori, comunque impiegati per l’azione rivoluzionaria, in posti improbabili conosciuti solo da lui.

E poi, quasi come se anche Essa potesse diventare un dettaglio al cospetto di una biografia così illustre e ricca, ecco la Storia esigere il suo tributo di vicende e personaggi: per intenderci, il Pancho Villa che conquista numerosi stati del Messico (Torreon, Ciudad Juárez, Ojinaga, Città del Messico), che si allea con Emiliano Zapata condividendo con lui il progetto di una grande riforma agraria (piano di Ayala, 1911), che lotta contro Diaz, Orozco, Huerta, che viene braccato inutilmente dalla Spedizione punitiva americana con corredo di cospicua taglia.

Nell'età della (parziale) disillusione, ecco il Pancho Villa versione Cincinnato. Caduto Carranza (1920), Villa depone le armi, ottenendo dal presidente de La Huerta, oltre alla garanzia di uno stipendio per i suoi compagni d’arme, l’azienda di Canutillo, ben presto trasformata in un funzionale villaggio dotato di elettricità, scuole, ufficio postale, sempre pronta a dare ricovero e riparo a chiunque, animato dalla volontà di mettersi al servizio della comunità, ne avesse fatto richiesta.

Alla fine della corsa, nel 1923, vi è l’assassinio di Pancho Villa che, intento a lavorare di frizione e di cambio, viene raggiunto dalle raffiche della cospirazione mentre cerca di far uscire la sua Dodge dalla buca in cui si è impantanata.

Gli esecutori che vanno via indisturbati, le truppe della guarnigione di Parral assenti proprio nell'occasione dell’agguato, numerosi indizi sul coinvolgimento del presidente Obregon e dei suoi accoliti, la magistratura che impiega ben 9 giorni per aprire l’inchiesta. Affastellamento di dati, questi, che denunciano una congiura per un personaggio che, pur ritirato a vita privata, è comunque un ostacolo alla politica dell’interesse e del sotterfugio.

Così, tanto per aggiungere una nota di colore, c’è una testa, quella del generale Pancho Villa, che viene spiccata dal corpo e viene trovata in giro per il Messico, ora qui ora là, pronta ad alimentare l’ennesima leggenda.

Basta chiudere gli occhi: ed ecco il generale Villa, magari decollato, che al grido di Viva Villa della Division del Norte, attacca indomito la canaglia intenta all'ennesimo sopruso; pronto, il nostro Pancho, a ridersela sotto i baffi anche del Villa morirà di morte naturale a 90 anni…ha una fortuna sfacciata e le pallottole non lo raggiungono profetizzato dal compagno Felipe Angeles.

Paco Ignacio Taibo II è un vulcano portatile, una pentola a pressione senza la sicura, la viva immagine di ciò che i nonni pensavano fosse un libero pensatore. I suoi romanzi sono urbani, secchi duri. La sua scrittura, come un gancio alla mandibola.

martedì 18 agosto 2015

Mi chiamo Maruzziello e amo gli extracomunitari


Mi chiamo Maruzziello. Sono un nassarius mutabilis; per intenderci, una lumaca di mare. Sì, proprio uno di quei molluschi in cui vi piace infilzare lo stuzzicadenti per estrarne la intrigante e sfuggente polpa.


Sono originario di Salerno. Nello specifico, del porticciolo di Pastena.

In Campania tutti noi ci chiamiamo maruzzielli ma qui, in questo lontano lembo di mare in cui sono emigrato per cercare fortuna, di Maruzziello ci sono solo io. E quando ho dovuto scegliere un nome per darmi un’identità oltreché un tono, ecco l’idea: Maruzziello, per l’appunto, chè tanto di campano, in questa frangia di mare lampedusano, c’è solo la mia bella conchiglia.

Avremmo sì dovuto essere in due ad emigrare ma poi, all'ultimo minuto, non ti viene il maruzziello di turno (cacasotto!) a farti la sola? Certo che sì, ovviamente. Il fatto è che ci sono dei maruzzielli, come il mio compaesano Tortiglione, che pur fiutando l’occasione per ingrassarsi come un budda, non ce la fanno proprio a lasciare il fazzoletto di mare in cui sono nati; e che pur di non abbandonare la propria mattonella d’acqua, sono capaci di accontentarsi del corpo di qualche camorrista incaprettato e buttato a mare e/o del suicida una tantum che ha la compiacenza di scegliere il tuo tratto di pertinenza per farla finita.

Quisquilie, pinzillacchere.

Io invece, da quando ho deciso di emigrare, ho trovato il mio Eldorado: non passano trenta carrette del mare che almeno una, in tutto o in parte, non decida di far felice il palato del suo Maruzziello con il tributo (liberamente offerto, per carità!) di carne umana ruspante e succulenta. Percentuale questa, ovviamente, che si arricchisce ancora di più nei giorni di mare tempestoso.

Io, da parte mia, prima di mettermi all’opera, mi limito a godermi lo spettacolo; certo, un po’ monotono, ma comunque vario pur nel suo canovaccio pressoché identico. E sì perché una cosa è vedere annegare un uomo vigoroso, in piena salute, che prima di affogare si agita come un ossesso nello strenuo tentativo di ribellarsi all'elemento estraneo che tenta di sopraffarlo; tutt'altra cosa, invece, è assistere alla flebile resistenza all'acqua delle donne incinte e dei piccoli denutriti.

Tempo un minuto che la superficie del mare, di questi ultimi ospiti, non serberà nemmeno il ricordo, archiviando la pratica con l’affidamento quasi immediato al fondale.

Io, maruzziello sempre più panciuto e libidinoso da quando sto qui, aspetto la porzione di carne che puntualmente si offrirà indolente alla mia opera distruttrice.

Inizio con col mangiucchiare gli occhi, così molli e “callosi”. Attenzione, però: il mio lavoro non è dozzinale come quello dei pesci e degli altri molluschi che accorrono ad ogni nuovo annegamento, nossignore. Io, modestamente, sono mastro d’opira fina. Ad esempio, con riferimento al mio piatto preferito (gli occhi, come confessavo poc’anzi), prima succhio la patina gelatinosa che ricopre le pupille, poi raschio ogni singolo velo che ricopre il bulbo oculare. Infine, dopo un lavoro meticoloso di cesello e sagomatura, provvedo a scarnificare le orbite ormai vuote e silenti.

Si badi bene, però: la mia felicità non è dovuta solo alla frequenza dei pasti esponenzialmente maggiore rispetto a qualsiasi altro mare. La soddisfazione più grande, l’appagamento maggiore che Maruzziello vostro possa provare, sta proprio nel fatto che non da semplici esseri umani il cibo è costituito, ma proprio da extracomunitari. Qual è la differenza? Incommensurabile. Per intenderci, la stessa che passa tra un pollo allevato in gabbia (flaccido, indolente, contaminato dai compromessi con la farmaceutica) e uno ruspante, cresciuto allo stato brado (energico, “nervoso”, forgiato dalla selezione naturale che pretende una reazione al destino di vittima sacrificale). Non è chiara ancora la differenza? E allora, il sempre vostro Maruzziello, v’invita a pensare agli occhi succitati.

Gli occhi dei disperati dei barconi hanno, incastonato nella loro pupilla zuccherina, il miele del sogno. Quelli degli esseri umani comuni invece, il retrogusto acido dell’indifferenza.

Buon appetito!


mercoledì 5 agosto 2015

Tornate al Sud e facciamo la rivoluzione



Sud. Parliamo un linguaggio di verità: un problema come la “questione meridionale” che da 154 anni sta ancora lì, è un problema che non si vuole risolvere. A maggior ragione adesso che di politici di spessore analogo a quello di Gramsci, Salvemini, Croce, Fortunato, non solo non se ne vede manco l’ummira ma addirittura se n’è smarrito il lascito

E a nulla vale, in questo contesto, richiamare il saccheggio operato dall'Italia Unita ai danni di un Sud incredibilmente ricco e prospero appena prima del 1861 (testimonial di questa ricchezza che si voleva proteggere, sono i troppi combattenti assai presto diventati briganti per l’esercito unitario).

Ciò che vorrei proporre qui, in questo articolo, al di là della denuncia sacrosanta di Saviano e della risposta “da cliché” di Renzi, è una soluzione. Già, proprio così: sommessamente, umilmente, sottovoce (alla Marzullo) una soluzione che si risolve, nella fattispecie concreta, in un invito a tutte le intelligenze che hanno dovuto, voluto abbandonare il Mezzogiorno per spendere i loro talenti in una realtà più ricca e dinamica.

Ebbene, compagni “inseriti” del Nord, se non ne potete più di sentire bistrattare il Sud, il vostro Sud; se ne avete le palle piene dei ricchi industriali che “scendono giù” il tempo necessario per impiantare i loro scheletri maleodoranti, vendere un po’ di fumo, e ritornare al Nord a grandeggiare con il profitto grondante sangue di chi si è fidato; se ancora vi rode il fegato al solo avvertire il puzzo rancido del razzismo strisciante di chi riesuma un giorno sì e l’altro pure la macchietta del meridionale piagnone e parassita; e se, infine, nonostante la rabbia verso una realtà che non vi ha capito, che ha irriso la vostra preparazione e che ha soffocato nella culla ogni sia pur lieve gemito di affermazione…; se, dicevo, malgrado tutti questi legittimi motivi di astio verso il Mezzogiorno, provate ancora amore per il nostro irriverente Sud, ebbene, in questo caso, ascoltate la mia preghiera accorata: Tornate al Sud e facciamo la rivoluzione.

<Come come (obietterete giustamente)? Bella testa ingegnosa che sei: lasciamo il nostro lavoro al Nord, torniamo al Sud e così, invece di risolvere la questione meridionale, la rimpolpiamo con la nostra disoccupazione!>

No, non è così, vi prego di darmi un minimo di credito. Fiducia accordata? Bene, vengo e mi spiego. In che consiste ‘sta trovata cheguevariana? E’ presto detto: voi che occupate ruoli strategici al Nord, in massa (è la somma che fa il totale!) così, tra il lusco e il brusco, ve ne scendete tutt’assieme al Sud.

Ora, ditemi voi, come si fa a licenziare (perché lo capisco, ci mancherebbe altro, che questa è la preoccupazione fondamentale per tutti voi) milioni di lavoratori che occupano posti di responsabilità al Nord? Non si può, né tanto meno (ho pensato pure a questo) il vostro lavoro vi potrà essere rubato dagli extracomunitari che, per loro sfortuna, non hanno una preparazione tale che gli possa consentire di sostituirvi in ruoli dirigenziali.

A questo punto, non senza un minimo di soddisfazione per aver meritato un briciolo di considerazione non foss’altro che per la consequenzialità del mio ragionamento (ve lo leggo negli occhi, compagni “realizzati”), non resterebbe che completare l’opera: fare, cioè, massa critica e starsene in panciolle (altro che rivoluzione armata, spargimento di sangue, etc.), magari davanti ai Palazzi del potere così, tanto per attestare e far stimare la nostra ingombrante presenza.

Tempo un mese (solo un mese, non un giorno di più) senza che i servizi di alta professionalità vengano prestati al Nord, che il Governo dovrà per forza venire a miti consigli. E via, dunque, ad una legislazione di urgenza “pro Sud” non tanto per risolvere la questione meridionale (troppa grazia, Sant’Antonio!), quanto per evitare l’inceppamento del sempre caro Settentrione.

Risultato? Noi del Sud che non vogliamo o non possiamo spostarci al Nord, avremmo l’occasione per saggiare la nostra bravura e preparazione in una realtà lavorativa finalmente dinamica.

Ora però, siccome sono ben consapevole che ogni accordo debba pur prevedere vantaggi per tutti i contraenti vengo, amici del Nord, al vostro utile.

Ebbene, la ricompensa (duplice, addirittura) per la vostra partecipazione alla rivoluzione più pacifica che genere umano abbia mai conosciuto, è la seguente: da un lato, contribuirete all'arricchimento del Sud nonostante tutto amato e vagheggiato (anche per lasciarvi aperta la porta per un eventuale ritorno oltreché per rendere la vita migliore ai vostri cari rimasti quaggiù); dall'altro, darete prova una volta per tutte dell’importanza che l’intelligenza proveniente dal Sud ha (anche) per far muovere l’economia del Settentrione. E poiché nel nostro mondo ridotto assai male tutto soccombe all'economia, silenzierete per sempre, forti della vostra ritrovata essenzialità (agli occhi della popolazione nordica), le sirene più o meno spiegate del razzismo sempre presente.

In conclusione, che resta altro da dirvi? Per l’ennesima volta, v’invito: Tornate al Sud, e facciamo la rivoluzione! Conviene anche a voi.