lunedì 28 settembre 2015

550 euro al mese...escluse le spese, ma però!



<550 euro al mese… – scorge, sul mio volto, un’espressione che ci mette troppo a rintanarsi nel falso di giornata – escluse le spese, – s’affretta a precisare per l’ennesima volta, quasi che quella precisazione servisse prima a sé e poi all’interlocutore di turno – ma però!>

La vedo piccola dall’altra parte del caffè. Fuma nervosamente, proprio come mi diceva Mirko; alla stessa maniera, cioè, di chi ha dovuto imparare a fumare per acquisire il diritto di prendersi una pausa che il dominus, fumatore incallito, potesse capire e approvare.

550 euro al mese: 500 la base, 50 la speranza che prossimamente diventeranno cento, centocinquanta, e via di questo passo, di balzello in balzello; di impegno in impegno; di ricatto in ricatto.

Virginia è qui, davanti a me, dopo che grovigli di situazioni ed esperienze hanno allontanato le nostre vite; vite che, a pensarci bene, non sono mai state troppo vicine.

E come potevano esserlo? Io, il cazzone del liceo che chiamava il suo Sì Piaggio  La Poderosa, lei, la ragazza di buona famiglia che aveva chiamato i suoi due gattini Castore e Polluce. Io, sempre in rivolta innanzitutto con me stesso, che organizzavo gli scioperi durante le giornate “pesanti”, lei che aderiva alle manifestazioni solo quando coincidevano con il giorno d’assemblea ed esclusivamente per ragioni altamente meritorie.


Manco a dirlo, io impegnato fino allo sfinimento ad afferrare lo scalpo dello sfuggente sei, lei che veleggiava indomita verso il Parnaso delle eccellenze.

550 euro al mese, e il tutto con buona pace del De Bello Gallico mandato giù a a memoria, della laurea in giurisprudenza in tempo record e con il massimo dei voti, del brillante dottorato che aspetta ancora un concorso per ricercatore bandito apposta per lei (ma, la mia amica lo sa, c’è prima la figlia del Sindaco, e poi la cugina dell’Onorevole).

<E ti ricordi dei passi di versione arrotolati che ti lanciavo all’ultimo banco?> Riesce finalmente a sorridere, sia pure di un sorriso meno selvatico e più addomesticato ai compromessi della vita.

“550 euro al mese a te, che ti tuffavi nell’oceano degli ottativi, dei periodi ipotetici di vario tipo, che dominavi le riottose correnti delle interpretazioni letterarie e che infine, baldanzosa e fiera, ti ergevi trionfante sul significato finalmente chiaro della versione in classe“. Ecco, questo è quello che sto pensando in questo momento, cara Virginia, ma questo è quello che non potrei dirti mai immaginandoti condannata alla scrivania, dalle 16 alle 20, dopo l’udienza della mattina, a sfornare atti in cui bisogna ricordarsi di cambiare le generalità delle parti (facendo bene attenzione ad adattare l’articolo al genere maschile o femminile), l’accaduto, e a valutare se alla fattispecie in questione si addica più quel pezzo prefabbricato, o quell’altro.

La serata si avvia alla conclusione. E’ il momento di lasciarci, di andare via. Si è a quel punto in cui, se osassimo rimanere un altro minuto soltanto, ci consegneremmo, mani e piedi, al lazzo dei “se avessimo”, dei “ma quanto è passato tutto questo tempo?”, del “ma avresti mai pensato che andasse a finire proprio così?”.

550 euro al mese! Abbiamo capito il momento.

Siamo briciole affastellate sotto il tavolo della grande abbuffata.

Ti saluto. Prima, però, ti abbraccio. Non c’è mai stato niente tra noi, non mi sei mai piaciuta come sicuramente io non sono piaciuto a te, eppure ti voglio un bene dell’anima.

Arriva il conto.

<Aspetta faccio io, quanto…ma no, dai>

Salgo in macchina.

<Cara Virginia, sono 4 euro e 50. – mi trovo a parlare allo specchietto retrovisore – Il caffè era pessimo, il servizio scadente, ma ho rifiutato stizzito i 50 centesimi di resto. Il futuro delle persone non si tiene sospeso al ricatto delle metà!>

550 euro. Escluse le spese. Sì, sì, come no?!

Ma vaffanculo!

mercoledì 23 settembre 2015

La Monsanto ovvero la mela avvelenata della Terra


Solo negli anni Sessanta, a seguito della denuncia di come le grandi praterie americane trattate con l’erbicida 245T della Monsanto diventassero silenti, prive di vita («la primavera silenziosa»), il movimento ecologista si accorge della grave minaccia per l’ecosistema rappresentata proprio dalla «Microsoft del transgenico

L’erbicida 245T, infatti, è altamente tossico. È così potente che l’esercito americano lo impiegherà come defoliante per bruciare le foglie degli alberi vietnamiti; e con esse, i Vietcong, che saranno costretti a uscire allo scoperto e, infine, massacrati.

Composto gemello del 245T, è l’«agente orange»: un preparato altamente cancerogeno, che ha provocato e continua a provocare danni immunitari e all’apparato riproduttivo.

Eppure, fin dalla crisi del ’29, quando la Monsanto inizia a produrre i famigerati policlorobifenili (PCB), i pericoli per la salute e i danni all’ambiente sono evidenti. Ma tant’è: a volte la storia, l’economia, vanno in corto, e le metastasi di un capitalismo radioattivo, aggrediscono gli anticorpi incapaci di reagire.

Negli anni Ottanta la Monsanto scopre il Roundup, pesticida potentissimo anche nel far lievitare i suoi profitti (di circa il 20% all’anno). Da lì a poco, inventa una semente super resistente che s’impegna a diffondere assieme al Roundup stesso.

Il pacchetto doppio (sementi-pesticida) di proprietà esclusiva della venefica multinazionale, è bello e infiocchettato.

Nel 1998, poi, arriva la modifica genetica della pianta che diventa sterile. Eccolo materializzarsi, quindi, il giogo che riduce in schiavitù tantissimi contadini. E sì perché la Monsanto può sterilizzare le piantine e poiché, ormai, molti agricoltori dei Paesi poveri sono costretti ad acquistare le sementi proprio dalla Monsanto, fin dal primo acquisto questi ultimi saranno alla mercé, anno per anno, del loro carnefice.

Certo, la storia della Monsanto potrebbe continuare con la diffusione, tra gli altri,  del Prosilac, ormone capace di gonfiare il bestiame come una zampogna, e con tanti altri prodotti tossici, tutti con il minimo comune denominatore di nuocere gravemente alla salute e all’ambiente. Ma mi fermo qui.

Nella religione, nei miti e nelle favole, la mela raccontata ha spesso proiettato un’ombra sinistra sulle qualità nutrizionali del frutto. Basti pensare alla mela che il serpente fa mangiare a Eva; oppure, alla mela d’oro che, nel giudizio di Paride, scatenerà la guerra di Troia; fino ad arrivare alla mela avvelenata che la strega convince Biancaneve ad addentare, procurandole una morte apparente.

Il servo del principe azzurro, però, inciampa in una radice sporgente e fa cadere la bara giù per il fianco della collina. Durante la caduta, dalla bocca di Biancaneve racchiusa nel sarcofago, fuoriesce il boccone di mela avvelenato. La fanciulla finalmente si sveglia. Ora è salva e libera di godersi l’amore del suo principe

Ecco, in questa storia (parziale) della Monsanto, dove spesso i controllori e controllati sono le stesse persone, dove il profitto tiene al guinzaglio il diritto fondamentale alla salute, per evitare che la mela transgenica della Monsanto azzeri per sempre la biodiversità, dovremmo trasformarci tutti nella radice della fiaba: metterci, cioè, tra i piedi del gigante transgenico, e farlo finalmente inciampare, provocandone la definitiva e rovinosa caduta.

Occorre, in conclusione, vigilare e ribellarsi, singolarmente e come corpo sociale, al dominio pestilenziale della Monsanto.

 

 

 

mercoledì 16 settembre 2015

"Corale alla fine del viaggio", di E.F.Hansen


15.04.1912: il viaggio perfetto, della nave perfetta perché inaffondabile, trova il suo epilogo in un irriverente squarcio nella carena perché la situazione è terribilmente semplice (…): il Titanic può rimanere a galla con i tre compartimenti anteriori allagati e, se il mare è calmo, anche con quattro. Ma non è in grado di farlo quando sono cinque.

E ben presto i compartimenti allagati diventano proprio cinque, e poi sei, e infine sette.

Ed eccolo l’ultimo viaggio di Hansen, quello degli enormi sacrifici e delle indicibili privazioni soprattutto per la terza classe: sacrifici e privazioni prima, nel mettere assieme i cinquanta dollari necessari per sbarcare a New York come prescriveva la legge sull’immigrazione; poi, nel vedersi sbarrati le porte e i portelli da sentinelle ligie fino alla disumanità al mantra di vietato l’accesso alla prima classe (quella stessa prima classe che, durante la cerimonia religiosa della domenica, si è improvvisamente scoperta accessibile a tutti); infine, sacrifici e privazioni per essere stati i primi, gli occupanti della terza classe, e per molto tempo gli unici (troppo lontani, fisicamente e mentalmente, sono i signori innalzati agli altari delle cabine “vista stelle”) ad avere la contezza della tragedia che si sta consumando.

E quelli che la selezione naturale ha deciso dovessero appartenere alla prima classe?

Fin pochi minuti prima dell’inabissamento, sono riluttanti a calarsi nelle scialuppe (occupano 12, 24, 28 posti dei 65 disponibili), pronti a fare rimostranze a chi di dovere perché i giubbotti di salvataggio non fanno pendant con lo smoking.

Questo convincente romanzo di Hansen, però, non è la storia dell’equipaggio del Titanic e della sua manichea distinzione in ricchi e poveri, principi e mendichi. Siffatta opera vuole essere innanzitutto il racconto inventato, eppure tremendamente realistico, di un viaggio: quello ultimo dei musicisti che fino a poco prima del disastro, all’inizio per ordine del commissario di bordo (se durante le operazioni di salvataggio voi suonate, tutto sembrerà più…una specie di esercitazione), di poi per libera scelta, suonano soprattutto per esorcizzare, ancora una volta, i loro demoni.

Sullo sfondo della vicenda del Titanic, infatti, lo scrittore si sofferma sulle biografie dei protagonisti, tutti spinti a quel viaggio finale da fallimenti esistenziali più o meno marcati, quasi a conferma del Siamo impegnati in un gioco che non possiamo vincere. Alcuni fallimenti sono migliori di altri, questo è tutto di Orwell; ognuno dei musicisti quasi in fuga da una vita che li ha visti incompresi, perduti, parti in scena di un copione che non hanno mai avuto la forza e il coraggio di fare proprio. Fino a quando, proprio in quest’ultimo viaggio che avrebbe potuto consacrare un’esistenza trascorsa a vedersi vivere, i musicisti del Titanic non si scoprono finalmente e decisamente uomini.

E qui, quasi come se le note del pianoforte di Spot e del violino di Jason si sobbarcassero il compito di tenere in vita lo spirito della nave, capiscono che non possono abbandonare il Titanic, perché è solo con l’ultimo rantolo dell’Inaffondabile che si apre il varco per il riscatto finale. E solo con la fine – ormai l’orchestra ne è pienamente consapevole – l’estrema nota potrà piantare il suo vessillo despota sulla ritrovata umanità della corale; già, proprio e solo in questo preciso momento, alla fine del viaggio.

La nave e l’oceano erano avvolti da un buio pesto. In quel momento videro il cielo illuminato di stelle. Era insolitamente limpido.

Le ultime ore del disastro, quel buio assoluto e terrorizzante contro l’acqua scura e il cielo nero: nessun film o resoconto l’aveva mai restituito con tanta angosciante realtà (Isabella Bossi Fedigotti, Corriere della Sera)


giovedì 10 settembre 2015

"Saltatempo", di Stefano Benni


Eccolo, Lupetto, che proprio nel corso delle prime pagine si tramuterà in Saltatempo!

Scarpagna, brutto che tutte le volte che sorridevo a una principessa, quella cercava rifugio presso il drago, verso le scuole elementari Bisacconi (un cubo giallo vomito dentro un giardino di erbacce barbare).

Siamo nel pieno degli anni ’50. E mentre il (tra poco) Saltatempo si esalta mangiando un grappolo di zibibbo (l’esplosione che avviene quando il dente lo ferisce è come uno sborramento di gusto (…) e tu tossisci e godi e tossisci e godi e mentre tossisci mandi giù un altro chicco per godere di piùe si estenua addentando il paneterno (pane a tal punto duro che lo potevamo mangiare solo io, il cane Fox che era un bracco grande come un cavallo, e la strega Berega dentidighisa), si imbatte nel dio.

Avete presente l’immagine di Dio che il catechista solerte vi ha inculcato tra uno sbadiglio e l’altro? Ebbene, dimenticatela: il dio di Stefano Benni è

alto come una nuvola, con una barba immensa color letamaio, scortata da mosche, tutto vestito di strati e stracci. (…) Ha un bastone di pero e un cane vecchio, ma vecchio che ha annusato chissà quante pisce di tirannosauro.

Ma se è opportuno scordarsi dell’effige del Padreterno, lo è ancora di più estirpare dalla mente la posa ieratica e solenne in cui lo stesso abitualmente si affaccia sul nostro immaginario. Avete resettato? Bene, solo così potete minimamente sopportare il dio di Saltatempo che si tira giù i tre o quattro tipi di braghe e mutande e comincia a farla, ma farla davvero. Ed è alla fine del trionfo di merda tiepida che a contatto col suolo sprigiona una nube di vapore immensa e odorosa che il dio, alzando al cielo un dito sozzo e magnifico, fa dono al ragazzo (non senza aver prima chiesto in cambio un pezzo di paneterno) dell’orologio dentro che misura un tempo che non va dritto, ma avanti e indietro, fa curve e tornanti, si arrotola, inventa, rimette in scena.

Dopo quest’incontro, Lupetto lascia definitivamente il posto a Saltatempo. E lo vediamo vivere, il nostro eroe eponimo, immerso nel suo tempo, nel paese che pian piano trasforma le stipate cavedagne in claustrofobiche autostrade, che contrappone ai valori semplici e genuini di suo padre, un falegname comunista zoppo di tagliola, il disvalore predatorio e affaristico del sindaco Fefelli.

Guardiamo con simpatia Saltatempo che si arrabatta tra i primi riflussi ormonali, tra le avvisaglie di un ’68 che gli farà capire, in maniera quasi casuale ma non per questo meno convinta, da che parte stare; la stessa parte, cioè, di suo padre, di suo zio Nevio, dei tanti amici incontrati nel suo percorso formativo che si opporranno, più o meno direttamente, alla cementificazione della valle, al dilagare del capitalismo amorale, all’affarismo cialtrone di un’Italia che si condannerà alla perdizione.

Saltatempo però, con l’ironia e la leggerezza che l’ottimo Benni ha insufflato nell’anima del suo protagonista, sarà anche capace, non appena si troverà al cospetto di un ticchettio di una goccia d’acqua o di qualsiasi altro elemento in grado di dare l’idea (fisica) del tempo che passa, di vedere nel futuro, di capire che quello studente che inneggia alla rivoluzione diventerà ben presto un servo sciocco del sistema; così come che quel tratto di valle in cui amava pescare da piccino sarà asfaltato per dare sfogo alla “bulimia da cubatura” della nuova classe politica.

Ed è proprio in uno di questi momenti divinatori, mentre un orologio da quiz  segna i secondi che mancano per rispondere, che il nostro Saltatempo ha l’ennesima visione,

come l’esplosione di un altissimo fungo atomico di cretineria, e le scorie ricadevano su ogni punto del nostro paese (…), e l’effetto era un rincoglionimento totale, cosmico, indescrivibile. Nessuno aveva ancora capito che quell’elettrodomestico lì era il balcone dei Beniti futuri.

Saltatempo lo sa, lo vede grazie all’orologio dentro, e prova un sentimento di paura, proprio mentre uno degli strampalati personaggi della sua combriccola rifletterà sul significato delle marche, delle firme: l’hambuger?

20 lire di pane, 180 di polpetta, 1800 lire di nome americano.

Un romanzo leggero e profondo, ironico e di denuncia, di formazione e di rottura, il Saltatempo di Stefano Benni. Un’ulteriore voce della composita sinfonia dello scrittore, uno degli ultimi artigiani provetti della parola.

giovedì 3 settembre 2015

Caldo umido a Salerno, nebbia in Val Padana



Italia, Campania, Salerno

L’avverto quando, dando libero sfogo alle insaziabili polacchine, azzanno ancora un tratto di strada; di quelle principali, s’intende: via Roma, piazza Flavio Gioia, piazza Portanova.

Diventa palpabile non appena decido di stufarmi di radiografare l’anatomia del mio piede e alzo lo sguardo ad un’altezza che ben si confà all’animale sociale che è in me. Ed è a questo punto che si manifesta, dando prova plastica della pervasiva presenza, con le targhe che ammiccano sui citofoni istoriati.

Avv. Antistatario, inevitabilmente figlio dell’omonimo assessore comunale.

Medico chirurgo 8giornidiprognosi, incontrovertibilmente nipote del presidente della Camera di Commercio di Salerno.

Ingegnere Direzionedeilavori, fatamente fratello del direttore del museo provinciale.

Eccolo materializzarsi, quindi, il caldo umido di Salerno che inzacchera il merito dei non protetti, invischia le potenzialità dei figli di nessuno, intrippa le sinapsiincartapecorisce l’estro dei privi di natali illustri, nobilissimi e perfetti.

È una cappa filamentosa che cinge in un abbraccio mortale l’intero perimetro della città, da Pastena alle porte di Vietri sul Mare. È un respiro asmatico che fischia e scatarra per coprire il brusio di fondo dell’ennesimo tentativo di affermazione.

Certo, a Salerno ci sono le Luci d’artista, un lungomare meraviglioso; ci sarà un Crescent che si annuncia, almeno nelle intenzioni degli inguaribili ottimisti, un manufatto venuto da cielo in terra a miracol mostrare.

E come non parlare, poi, della movida, dei numerosi eventi che premiano le arti e gli artisti, di una programmazione di spettacoli degna di una grande capitale?

Tutto vero e apprezzabile, ça va sans dire. Eppure…eppure.

È come se ogni evento, ogni manifestazione si trovasse a scontare l’ombra lunga e filamentosa di un ventennio e più di potere monocolore. Un governo cittadino che ha avuto tutto il tempo di diffondere metastasi relazionali in ogni tessuto del corpo cittadino fino a compromettere la vivace salubrità dell’ingegno veramente libero.

C’è una domanda, nascosta in nessun quartiere perché presente in ogni angolo di Salerno, che sembra pendere sul capo di ogni salernitano che vuole spendere i talenti che ha in dotazione o di cui si è riempito la scarsella a prezzo di enormi sacrifici: Sì ma…chi conosci, chi ti ha parlato di noi, chi ti manda?

In un impeto di reflusso egalitario, vorrei poter dire che ogni quisque de populo talentuoso è conoscente mio, che lo sponsorizzo io in questa palude di rinnovamento che a volte Salerno è, salvo poi, con annichilente rammarico, ricordarmi che anch’io faccio parte della plebaglia anonima; per di più, di una massa finanche priva di talento.

Viviamo, nella bellissima Salerno, un’epoca di inondazione conformistica. Ed in ogni inondazione che si rispetti, la prima cosa che manca è l’acqua potabile.

Buona fortuna.