sabato 26 novembre 2016

Fidel Castro e l'infernale picciola barca


La Storia, a volte, si diverte a intrecciare coincidenze, fino a farne trame di pregevole fattura.
Il 25 novembre 2016, giorno e mese della morte del Leader Maximo Fidel Castro, si sovrappone a un altro 25 novembre, stavolta di ben 60 anni fa.
All'una e trenta della notte tra il 24 e il 25 novembre 1956, una barca pagata solo a metà, ancora di proprietà di un gringo la cui unica colpa è quella di avere una nonna con un nome alquanto insolito (Granma), accende i due motori e, a luci spente, inizia il suo epico viaggio. 
È una notte di pioggia sferzante e vento forte.
Quella barca, il Granma per l'appunto, che qualche osservatore ben a ragione ha definito "un vascello per nani, e nemmeno tanti", con la chiglia danneggiata dal ciclone dell'anno prima, si trova, suo malgrado, a trasportare ottantadue giganti.
L'anelito di libertà, è risaputo, supera di gran lunga qualsiasi capacità umana.
Eccolo, Fidel, intabarrato nell'ardore dei suoi ideali, mentre viene sferzato dalla tramontana che spazza il Golfo del Messico.
"Fidel mi diede l'impressione di essere un uomo straordinario. Le cose più impossibili erano quelle che affrontava e risolveva. Aveva una fede eccezionale nel fatto che, una volta partito per Cuba, ci sarebbe arrivato; che una volta arrivato, avrebbe combattuto. E che combattendo, avrebbe vinto."
È dell'Ernesto Che Guevara de La Serna, questo giudizio su Castro. Già, anche lui, come Fidel, stipato sul Granma, in preda a un attacco di asma feroce che il salvifico inalatore, immolato all'ordine di Fidel di partire subito con quello che avevamo a portata di mano, per evitare che il traditore (!) avvertisse la polizia, non può disinnescare.
È un'accolita di visionari, di irresponsabili temerari, quella che la notte tra il 24 e il 25 novembre del 1956, si ammassa sullo scafo dell'imbarcazione.
A Cuba, meta di quel folle viaggio, li aspettano un dittatore sanguinario, più di trentacinquemila uomini pronti allo scontro, un esercito equipaggiato con carri armati, dieci navi da guerra, settantotto aerei da combattimento.
Eppure Fidel e il Che, avvocato l'uno, medico l'altro, entrambi amanti della lettura in un mondo di mostrine semianalfabete, conoscono il c.d. fattore X teorizzato da Tolstoj in Guerra e Pace.    
"In guerra la forza degli eserciti è data dal prodotto della massa dei soldati moltiplicata per qualcos'altro, uno sconosciuto fattore X. (...) X è lo spirito di corpo, il maggiore o minor desiderio di combattere e di far fronte ai pericoli a vantaggio di tutti i soldati che compongono l’esercito, che è diverso dal porsi la questione se essi stanno combattendo con comandanti geniali o no, con randelli o con un’arma da fuoco che spara trenta volte al minuto."
Ed è proprio facendo leva su questo spirito rivoluzionario degli intrepidi ottantuno barbudos che Fidel, in una notte di sessanta anni fa, guarda sfrontato oltre le nebbie che covano la sua rivoluzione.
25 novembre 2016. Stasera, tra le volute del chilometrico sigaro, eccoti, compagno Fidel, mentre aspetti ancora una volta una picciola barca.
Avviluppato dalla nebbia, l'attesa dura poco. E non appena la lattiginosa coltre si slabbra, ti sorprendi a sorridere alla vista del Caron dimonio con occhi di bragia e con basco d'ordinanza che ti indica la murata della barca: Granma.
Hasta la victoria siempre, Comandante, e la piccola imbarcazione con ottantadue compagni a bordo salpa irriverente verso l'ennesima, infernale rivoluzione.  

martedì 22 novembre 2016

Il caffè, lo specchio, la barca: ah, che rebus!

La canzone Rebus (1979) di Paolo Conte dura poco più di due minuti.

Velocità silenziosa ed esaustiva.
Una pennellata d'autore che sopra un letto di pianoforte e riflessioni, insegue il senso della visione.
La sfida è di quelle che l'avvocato appassionato di enigmistica, tra uno sberleffo compiaciuto e un bemolle sornione, è certo di poter vincere: il rebus, uno dei tanti affrontati e risolti al riparo delle colline astigiane, grazie a una fulminea intuizione.
Sì, proprio un lampo giallo al parabrise.
Mentre rimugina tasti e pensieri, s'impegna ad accordare immagini con significati.
Cercando di te.
Il baffo che custodisce la voce filtrata attraverso sabbia e whisky, biascica il tema del rebus: cercando di lei, per l'appunto.
Un vecchio caffè. Con dentro uno specchio. Nello specchio, il mare. Dentro il mare, una piccola barca.
Gli indizi scenografici sono questi.
La sigaretta abbandonata in preda alla riflessione, s'involve in volute di connessioni.
Seconda quartina.
Un altro caffè. Con dentro uno specchio. Nello specchio, il mare. Dentro il mare, una piccola barca.
Le dita sul pianoforte interrogano con maestria ripetizioni, rimandi.
Una prima barca che porta ad un secondo caffè. Il suggerimento di un'altra traversata, con l'ennesima barca pronta per lui, sempre alla ricerca di lei.
Il sorriso della comprensione. Il tempo di un mugolio risolutore.
Il giro in cerca di lei, è turistico. L'amore agognato, il tema del rebus, è una mistificazione. E già perché, rivela il Maestro, chi affitta le barche è anche il padrone di tutti i caffè.
Conflitto d'interessi incompatibile con la liberalità dell'amore.
Compiaciuto per la soluzione del rebus, il pianoforte tuttavia approda, tra la rabbia e la disillusione della rivelazione, al porto mercantilistico del paga di qua, e paga di là, noleggia una barca e prendi un caffè.
Nell'ultima terzina, l'amara considerazione:
Ah, è meglio star qui a guardare
i pianeti nuotare davanti a me
nell'oscurità del rebus
Malgrado tutto, poco male! Ancora una volta, dall'alto dei suoi ottant'anni di poesia e musica, lo smaliziato Conte troverà conforto nella ricerca di un po' d'Africa in giardino, tra l'oleandro e il baobab. 
Alcuni luoghi sono un'enigma; altri, una spiegazione.

venerdì 18 novembre 2016

Il NO del Referendum e il "Mille e non più Mille"

Sia chiaro: al Referendum costituzionale del quattro dicembre, voterò e farò votare, per quel rimasuglio di ascendente che ancora ho su qualche familiare-amico troppo pigro per formarsi un'opinione, No.

Voterò No perché ritengo la riforma introdotta dal Governo (e già solo questo particolare, "introdotta dal Governo", per l'appunto, e non su iniziativa del Parlamento, mi persuaderebbe a votare così) pasticciata, farraginosa e, diciamola tutta, pericolosa per gli equilibri costituzionali.
Matteo Renzi con il suo progetto di riforma, assomiglia tanto a mio zio Ermenegildo che, ignorante di meccanica come il nostro presidente lo è di diritto costituzionale, entrambi convinti, l'uno (mio zio), di riuscire a riassemblare il motore della macchina, l'altro (il premier), di riformare in maniera efficientistica la Magna Chartasi trovano in mano, al termine dell'armeggio, qualche valvola in più e un certo numero di incrostazioni costituzionali in soprannumero.
Senza contare che né il motore né la Carta costituzionale saranno in grado, dopo l'improvvida manomissione, di "funzionare".
Premesso ciò e ribadito il mio No convinto alla riforma, quello che non mi piace, perché lo ritengo addirittura contrario alla stessa causa del No oltreché indice di malafede quando non di ignoranza etimologica , è l'esagerazione, il ricorrere a lemmi (dittatura, colpo di Stato, regime et similia) che hanno il solo scopo di far ammuina, creare allarmismo.
Mille e non più Millesi gridava invasati per le piazze, vaticinando la fine del mondo per l'avvento del millennio. Poi il millennio è arrivato, e si è dovuti prendere atto che tutto continuava più o meno uguale.
Si badi bene, con questo non voglio dire che la vittoria malaugurata del Sì al referendum non cambierebbe niente o, peggio, che sarebbe analoga alla vittoria del NO. Nossignore, non sono un nichilista né un ignavo che trascina la sua vita sanza 'nfamia e sanza lodo nell'aura sanza tempo tinta.
Semplicemente, parafrasando un mai troppo abusato Nanni Moretti, ritengo che le parole siano importanti. E proprio perché ossessionato dalla loro importanza, penso sia giusto parlare un linguaggio di verità.
La vittoria del Sì, provocherebbe numerose storture nell'equilibrio costituzionale, aumenterebbe i conflitti tra le Camere, accentrerebbe il potere nel Capo dell'Esecutivo, e siamo d'accordo. Ma sicuramente non sarebbe corretto parlare di dittatura in caso di sua vittoria, ad esempio, anche per il grandissimo rispetto che dev'essere tributato a chi davvero si è trovato a subirla, la dittatura. Non solo: confrontandomi con molte persone, mi sono fatto l'idea che l'esagerazione, lo sparare alto (terminologicamente e contenutisticamente) magari solo con l'intento di conquistare un No in più, molte volte rende diffidente l'interlocutore che istintivamente pensa: "Possibile che se voto sì viene la fine del mondo? E allora uno come Veltroni, che fa le campagne di sensibilizzazione in Africa, che fa, vuole la dittatura in Italia?"
Al di là dell'ironia, ritengo sia questo il ragionamento che nasce nella testa dell'alluvionato dalle iperboli elettoralistiche che potrebbe, ormai sfiduciato nei confronti del tizio che gli prospetta scenari sì foschi, addirittura votare contrariamente, quasi per dispetto, a quanto raccomandatogli con foga degna di miglior causa.
P.S. Ho parlato delle "nostre" esagerazioni. A quelle del Sì che stanno riesumando lo spread di montiana memoria oltreché minacciando la piova etterna, maladetta, fredda e greve che si abbatterebbe sul suolo italico alla vittoria del No, non val la pena nemmeno accennare.
Insomma, e per concludere, votiamo e facciamo votare No, sempre facendo leva sul buon senso dell'argomentazione e rifuggendo dalle esagerazioni. Ce lo chiedono, innanzitutto, le nostre amate parole.
Le nostre parole sono spesso prive di significato. Ciò accade perché le abbiamo consumate, estenuate, svuotate con un uso eccessivo e soprattutto inconsapevole. Le abbiamo rese bozzoli vuoti. Per raccontare, dobbiamo rigenerare le nostre parole. Dobbiamo restituire loro senso, consistenza, colore, suono, odore. E per fare questo dobbiamo farle a pezzi e poi ricostruirle. (La manomissione delle parole, G. Carofiglio, Rizzoli, 2010)


venerdì 4 novembre 2016

Il pianoforte della prozia che mi salvò dal terremoto

L'ultima volta che ho visto il pianoforte della prozia, è stato l'anno scorso, in occasione del trasferimento a Norcia.

Ora sta confinato nel sottotetto, in compagnia del ciarpame reietto di cui nemmeno l'inafferrabile topo Lupin riesce a sbarazzarsi definitivamente.
È bruttissimo il pianoforte della prozia. Nero come una maledizione, vecchio come il respiro del mondo, squinternato alla maniera del cervello dell'antenata che sola, in più di cento cinquant'anni di miserie familiari, ha avuto la voglia di suonarlo.
Fosse stato per me e per mia moglie, lo avremmo volentieri affidato alle sapienti mani di Karol.
<Mister, cinquo minuti, e ne facemo gabia per coccodè!>
E Karol ride. E io avrei senza dubbio foraggiato la sua risata se non fosse stato per la fissazione di mammà.
Il pianoforte della prozia, per una sorta di lascito testamentario della sciroccata pianista, deve tramandarsi di generazione in generazione pena, recita ancora terrorizzata un' invasata mammà, la rovina della famiglia. Ma vi è di più: la leggenda vuole che qualora si resista (e ci vuole un bel coraggio dopo più di cento cinquant'anni!) nel sopportare la rovinosa presenza, addirittura una non meglio precisata salvezza passerà proprio per il derelitto pianoforte.
Com'è come non è, sta di fatto che anche in quest'ultimo, si spera definitivo trasferimento, il primo oggetto che è stato portato nella nuova casa di Norcia, è stato proprio quello che ormai è lo scheletro del pianoforte della prozia.
Stizzito per questa ineluttabile compagnia, mi sono vendicato inchiavardandolo in un'armatura di panno e scotch più raffazzonata dell'unica corda che, a detta di un amico incuriosito dalla vestigia musicale, ancora si ostina a dar voce a un sinistro sol grave.
Il 30 ottobre 2016, alle 07:38, nella mia nuova vecchia casa di Norcia prospiciente la basilica di San Benedetto, un suono mi si pianta in testa. Un sol grave, profondo come le viscere della paura, allarma il mio patrimonio genetico.
Balzo nella cameretta di Vinicio, lo agguanto ancora incaprettato nelle lenzuola del risveglio.
Un secondo dopo sono a vincere, con l'esperienza maturata in più di cento cinquant'anni, la ritrosia di mia moglie ad abbandonare la casa.
07:40, l'inferno. E mi trovo dal lato opposto della basilica a osservarlo dalla prospettiva dell'unica testimonianza rimasta in posizione verticale.
Il pianoforte della prozia Lucia, e la sua corda di sol grave.