venerdì 7 aprile 2017

Fenomenologia di Dries Mertens.

Dries Mertens e la sua fenomenologia.

Come fenomenologia era stata, nel lontano 1961, quella di Mike Bongiorno scritta dall'inarrivabile Umberto Eco. Con l'unica, sostanziale differenza però, che del presentatore che furoreggiava sugli schermi televisivi, si esaltava la mediocrità, a tal punto che "egli rappresenta - chiosava Eco - un ideale che nessuno deve sforzarsi di raggiungere perché chiunque si trova già al suo livello."
La fenomenologia di Mertens, invece, è di tutt'altro genere e può essere racchiusa nel secondo goal del Napoli contro la Juventus, nel precedente turno di Coppa Italia.
Siamo al 60° minuto. Dries Mertens entra al posto di un Arkadiusz Milik da ritrovare.
Napoli contro Juve, una squadra di calcio contro un'altra sì, ma anche i Borboni contro i SabaudiMasaniello contro Camillo Benso Conte di Cavour, la catena di montaggio contro l'amministratore delegatol'espediente contro il rigore (nella doppia accezione di intransigenza e di penalty spesso concesso ai bianconeri), l'insurrezione contro il potere.
Dries Mertens, dicevamo.
Entra in una qualificazione praticamente impossibile da riagguantare per il Napoli. Il risultato della partita di ritorno infatti, unito a quanto successo all'andata, è traditore come solo sa esserlo il comportamento di chi fino a ieri era il tuo Mosè pronto a liberarti dalla schiavitù e che invece oggi, proprio lui, ha deciso di abbandonarti alle stesse piaghe d'Egitto prima inflitte ai nemici.
Ma eccolo, Dries Mertens.
Il tempo di varcare la linea del fallo laterale oltre il quale c'è finalmente la partita, la trepidazione di un popolo esagerato in ogni esternazione, che il folletto belga si fionda verso l'area avversaria.
Il difensore juventino passa la palla al suo portiere. Nel novantanove per cento dei casi, quel pallone sarò stoppato dall'estremo difensore e rinviato alla bell'e meglio senza conseguenza alcuna.
Nelle scuole di calcio, insegnano all'attaccante sì di pressare il portiere, ma anche di farlo con la convinzione che il suo pressing potrà solo innervosire l'estremo difensore e quindi, magari, fargli sbagliare il rinvio.
Nulla più di questo.
E invece...Mertens si butta su quel pallone necessariamente innocuo. Mentre corre c'è in lui, che napoletano non è, la fame atavica di Totò nell'agguantare gli spaghetti di Miseria e Nobiltà, il furore cieco del pazzariello de L'Oro di Napoli che ha finalmente saputo della malattia di Don Carmine, il boss del Rione Sanità, la dignità degli scugnizzi Pasquale e Giuseppe nel lustrare le scarpe ai signori di Sciuscià.
Mertens sfida la logica e la logica, per una volta sola, si va a prendere un caffè al Gambrinus.
Neto, il portiere della Juventus, vorrebbe stoppare il pallone passatogli dal compagno di squadra ma se lo fa scivolare oltre. E in quell'oltre lontano dal concetto di appartenenza e molto vicino, invece, a quello di conquista, si è appostato Dries Mertens, epigono del popolo cencioso che rovescia finalmente il tiranno.
Manco il tempo di esultare per la rete appena segnata che il calciatore riporta, instancabile come se ancora ci fosse qualche possibilità di superare il turno, il pallone a centrocampo.
La logica del potere però, rientra. C'ha ancora in bocca il gusto vellutato del caffè.
Estasiata per il retrogusto avvolgente, concede un altro poco di ammuina al Napoli; poi, ritorna in sé e decide di rimettere le cose al proprio posto.
La partita la vince il Napoli, ma la qualificazione è della Juventus.
Mertens esce tra gli applausi di un universo, quello napoletano, che sa accontentarsi anche del sogno. In attesa, ovviamente, del prossimo miracolo, di un altro Diego Armando Maradona che lo liberi da ogni male.
Amen.

lunedì 3 aprile 2017

Gli imperatori di Montanelli, apogeo e caduta

Gli imperatori romani di Indro Montanelli raccontati nella Storia d'Italia, vol.III, toccano l'acme del potere imperiale per poi sprofondare nei miasmi dell'irrilevanza storica.

E si parte, dopo una breve parentesi sulla città di Pompei e su Gesù e il cristianesimo, con la prima dinastia illustre, quella de I Flavi (30 a. C.-96 d. C.).
Vespasiano, allora, si staglia all'orizzonte con la sua concretezza di uomo di provincia.
Racconta Montanelli come l'imperatore di Rieti, nell'intento di riorganizzare il fisco, intraprese una via spicciola ma oltremodo efficace: lo affidò ai funzionari più rapaci e dissanguatori sguinzagliandoli, con pieni poteri, in tutte le province dell'Impero.
A rapina consumata (e qui sta il colpo di genio), Vespasiano richiamò a Roma i funzionari ingordi e, dopo averli elogiati per il loro operato, gli confiscò tutti i personali guadagni; soldi, quest'ultimi, che furono utilizzati dal callido imperatore per pareggiare il bilancio e per risarcire le vittime delle ladronerie.
Indro Montanelli, poi, sottolinea la filantropia dell'imperatore Tito che si trovò, nei sue due anni di regno, a fronteggiare catastrofi su catastrofi: l'incendio di Roma, la distruzione di Pompei ad opera del Vesuvio, la tremenda epidemia che devastò l'Italia.
Messo, suo malgrado, di fronte a questo scenario di guerra e disperazione, Tito rispose nel modo più bello e caritatevole possibile, sia pure meno funzionale per le sorti dell'Impero: esaurì il Tesoro per riparare i danni e, per assistere i malati, si contagiò egli stesso, perdendo la vita a soli quarantadue anni.
Domiziano a questo punto pensò bene, quando Tito si ammalò, di affrettarne la morte coprendone il corpo di neve.
Quando si dice "l'amore fraterno"!
Ed eccoci giunti (96-192 d.C.) all'età dei cc.dd. imperatori adottivi.
Nerva, "omaccione alto e grosso", a cui bastarono solo due anni per porre riparo ai torti del suo predecessore; Traiano che passò alla storia come uomo colto solo perché era solito portarsi, sul carro di generale, Dione Crisostomo, celebre retore del tempo, che si prodigava a parlargli ininterrottamente di filosofia. Alla domanda su cosa avesse mai capito delle spiegazioni di Dione, Traiano candidamente confessò che, in realtà, non aveva mai inteso una sola parola delle tante pronunciate dal retore ma che vi si lasciava semplicemente cullare dal loro "suono d'argento", pensando a tutt'altro.
E poi via via, lungo questo itinerario fantastico di grandi imprese e sfiziosi aneddoti, Indro Montanelli ci racconta di Adriano con la sua bella barba bionda, in realtà fatta crescere unicamente per nascondere certe sgradevoli chiazze bluastre che l'imperatore aveva sulle gote; di Antonino Pio, uomo senza nemici eccezion fatta per il nemico che si annidava tra le pareti domestiche: sua moglie Faustina, bella e a dir poco vivace; di Marc'Aurelio, infermiere ante litteram, che non abbandonava nemmeno per un secondo le corsie degli ospedali.
Ora, la narrazione va avanti ancora per molto, dai Severi fino a Costantino e oltre, per poi impaludarsi negli ultimi, insignificanti imperatori di Roma, sempre più estranei alla grandezza dell'Urbe.
Nelle fruttuose scorribande all'interno di questo, come di tutti gli alti volumi della Storia d'ItaliaIndro Montanelli riesce a puntellare la necessaria aridità delle vicende storiche con la curiosità, il "fattariello", che ci rendono più accattivante, più immediatamente fruibile, una narrazione "alta" per il solo fatto di essersi prestata alla penna del grande scrittore-giornalista. E ciò anche quando, per una diversa visione storico-politica, i suoi giudizi non sono pienamente condivisibili con i nostri.
Forse uno dei guai dell'Italia è proprio questo, di avere per capitale una città sproporzionata per nome e per storia, alla modestia di un Popolo che quando grida "forza Roma" allude solo ad una squadra di calcio.