lunedì 17 giugno 2013

Linus e la saponetta di Marsiglia

Torno dal tribunale. A piedi. Un paio di chilometri.
Il sole picchia. La camicia celeste secerne sudore che viene secreto da pori opportunamente e per tempo profumati. Nonostante tutto, però, dopo le prime stille, inevitabilmente ne avverto il peso e l'essenza.
In tribunale ho incontrato colleghi. Sul corso, delle persone.
Nonostante ogni mattina ripari la corazza dalle smagliature prodottesi appena il giorno prima, avverto la patina gelatinosa dell'avversione che pur contamina i gangli dell'anima.
Torno a casa. Ho bisogno di una doccia.
Pino Silvestre. Malizia. Badedas....
Pulizia per il corpo. Non basta.
Le mie dita bagnate la cercano. Per un attimo hanno un moto di preoccupazione nel timore che possa non esserci. No, eccola. Il contatto dei polpastrelli con la sua superficie ancestrale mi rimette in sintonia con la mia fetta di mondo.
Chiudo l'acqua della doccia. Me la strofino ripetutamente lungo le asperità del corpo. Poi, non ancora soddisfatto, la faccio salpare lungo le onde appena increspate dei capelli.
Mi copro di una patina di bianco e profumo d'altri tempi.
Accordo, per un paio di minuti, l'apparire al mio essere più profondo.
Rigiro la manopola dell'acqua.
Sorrido.
La saponetta di marsiglia. 
La coperta di Linus contro gli agenti patogeni del mondo.

lunedì 10 giugno 2013

Risposte in differita

Metti un sabato sera qualunque. Di quelli in cui, a causa delle strane alchimie che non basta una vita per capirne la ragione, ti senti un attimo più riflessivo. 
Sei insieme ad un bel gruppo di amici appena arrivati al tavolo di un pub. Sei uscito perché lusingato dal "guarda che se manchi tu e la tua ragazza, non se ne fa niente".
Volutamente è stato scelto un posto vecchio stile, di quelli in cui non c'è musica assordante a impedirti di scambiare quattro chiacchiere. 
I primi dieci minuti bastano a farti sentire contento di aver fatto, questa sera, la scelta della condivisione amicale.
Un paio di minuti spesi a salutarsi con la consueta simpatia. Altri due per districarsi tra le varie voci ammiccanti del menù. Un minuto per scegliere l'ovvia pizza margherita. Altri cinque, gli ultimi, per dare il tempo alla ragazza dei tavoli, armata di un aggeggio col pennino, di prendere le ordinazioni virtuali.
Adesso, finalmente, il campo è sgombro per l'arricchimento che sempre nasce dal confronto.
<E allora, che si dice?>
Tre amici incominciano ad arrotolare la lingua e a fotografarsi con il cellulare. 
L'indice di Carlotta lo vedi impegnato ad emozionarsi nella lunga conversazione con il moroso di stanza a Canicattì. 
Paolo e Claudia s'affrettono a dar conto agli amici di facebook che proprio Paolo e Claudia si trovano al pub TaldeiTali. 
Roberto e GianCamillo, infine, si divertono a scambiarsi appezzamenti, tramite messaggistica istantanea, sulla scollatura generosa della tipa delle ordinazioni.
Tu guardi smarrito la tua ragazza. Lei, intercettando ancora una volta (non per niente è la tua fidanzata) il disagio che traspare chiaro dall'occhio di pesce lesso, inizia a parlarti, stringendoti la mano.
Passano cinque, dieci minuti. Un quarto d'ora di consueto, ma sempre piacevole, scambio di opinione con la morosa.
<Tutto bene!> (3 volte)
<A parte l'aspetto economico, non mi posso lamentare!>
<E come vuoi che vada? Va!>
<'Na chiavica!> (2 volte)
<Si sopravvive!>
"Il varco è qui?"
Sono arrivate le pizze, i panini e gli stuzzichini vari.
Necessariamente la comitiva ha dovuto prodigarsi in un faticosissimo affaccio nella vita reale; e, già che si è trovata bell'e emersa, rispondere alla tua generica domanda di quasi mezz'ora prima.    

martedì 4 giugno 2013

A Massimo Troisi


Sul display del PC, appollaiato sulla scrivania, occhieggia una mail. 
Mittente: Ananke. 
Oggetto: cessazione attività. 
Cloto, contenta di non essere costretta a filare un altro Fuso (quel giorno, le nascite erano state fin troppe), inoltra frettolosamente la mail a Lachesi. Quest’ultima, che a forza di avere a che fare con i numeri ( misura difatti, la lunghezza del Filo ) ha diluito ogni emozione nel calcolo, destina la mail, indifferente, alla diretta interessata. Atropo, dal canto suo, richiamata al PC dal borbottio triste della posta in arrivo, dopo aver soffocato in gola un impercettibile sospiro, apre la mail e legge la seguente sigla: 191953MTxy. Si reca mesta, nella stanza dell’archivio: 191950…191953L…eccolo lì. Prende il Filo.  Quasi mai legge il nome del predestinato e anche stavolta non è intenzionata a farlo; tuttavia, nel momento in cui s’accinge a incolonnarlo per ordine di chiamata, il Filo le cade a terra. La targhetta identificativa si sgancia e rivela il nome: MASSIMO TROISI. Un’angoscia profonda, una fitta al cuore. Atropo allora, fa catapultare nel suo ufficio Cloto e Lachesi.  Gli rivela, affranta, l’identità del morituro.  Nella mente scossa delle Moire, a sentire quel nome, affiora un caleidoscopio sterminato di battute, di gags, di sketchs. A loro non è concesso il lusso di commuoversi eppure, al ricordo del “tormentato” Gaetano di Ricomincio da tre, del “dubbioso” Vincenzo di Scusate il ritardo e di tanta semplice ma, nello stesso tempo, grande umanità rappresentata nei suoi films, non possono sottrarsi a quella disperazione sorda, sottile che attanaglia le viscere e semina nell’animo immalinconito, frange di sconforto. <E pensare che proprio tra due giorni esatti - chiosa Lachesi costernata – avrebbe terminato Il Postino…!><Già - di rimando, Cloto – proprio quel film pregno di poesia che avrebbe consentito al nostro Massimo di raggiungere l’acme del suo genio!> La recisione del Filo è prevista alle h 14,56’e 35”. Mancano più di tre ore. Quel tempo che divide Atropo dall’ingrato compito, le tre Moire,  decidono di impiegarlo nel ricordo tutte le gags più esilaranti del mitico Massimo, iniziando dalla Smorfia. A causa di contrasti sulle esatte parole utilizzate in alcuni sketchs, Lachesi propone di proiettare la summa delle sue opere sull’immenso schermo troneggiante in mezzo alla sala. Ovviamente, la proposta è accolta  E allora, ben presto, dimentiche della sciagura che loro malgrado avrebbero contribuito a creare di lì a poco, vengono pervase da un moto di ilarità dolce e profondo. E così, ammaliate dalle gesta dell’antieroe Massimo, le tre Moire, finiscono col dimenticare le loro incombenze; a tal punto che, per un po’, non ci sono nuove nascite né morti novelle. Questa situazione di stallo però, è destinata a durare poco. L’inflessibile Ananke, avvertita con colpevole ritardo ( per questo, il controllore responsabile viene folgorato vivo ) della situazione che si è venuta a creare, decide di recarsi di persona nell’ufficio delle Moire, per conoscere le cause di quell’insubordinazione. Alla vista della terribile Ananke, i dipendenti sprofondano in un tremendo stato di prostrazione. Ella, la cui rabbia è appena mitigata dal sottile piacere dell’esemplare punizione che di sicuro avrebbe inflitto alle Moire, s’accinge a percorrere, con passo sicuro e ineluttabile, il lungo corridoio che la separa dall’ufficio. Man mano che si approssima alla meta, sente provenire, sempre più nitidi, i risolini di gioia delle tre sorelle entusiaste. Sta per aprire la porta rimasta socchiusa, quando decide di fermarsi: ha proprio voglia di conoscere la causa di tanto irritante buonumore! Sguinzaglia allora, lo sguardo tra la fessura e lo rende spettatore di quegli spezzoni di films. Alla scena dei complessi di Robertino, si trova ad abbozzare un mezzo sorriso; a quella della pioggia torrenziale in cui Vincenzo cerca di consolare l’amico lasciato, le estremità delle labbra finalmente si sollevano fino a poi sbocciare in una vera e propria risata nel momento in cui Ananke osserva la scena della lettera a Savonarola in Non ci resta che piangere. All’improvviso, quel clima di divertita spensieratezza, è interrotto da Lachesi: <Per Zeus, le Nascite…le Morti…i Fili…!> Basta mezz’ora di lavoro frenetico, per rientrare nei parametri fissati per quell’ora. 14,53. 14,56. Atropo ordina mestamente a Lachesi di misurare il filo, impugna le lucidi forbici e appena biascica, in un profondo sospiro:<Peccato, bastavano soltanto due giorni per consentirgli di finire il Postino, l’ultimo suo capolavoro… 14h, 56’e19”: la grande Ananke, ancora accarezzata dall’ironia composta e geniale del Nostro, eccezionalmente intenerita dalla sua verve comica, decide. Con un accenno di sorriso, ripercorre il lungo corridoio verso l’uscita. 14h, 56’ e 34”: Atropo chiude gli occhi. Soffoca l’amarezza. Divarica le cesoie. Taglia…no! Il Filo resiste.  Uno scampanellio. Una mail: causa disguido, morte posticipata al 4 giugno 1994; 14h, 56’e 15”.   
Ormai per me il trapasso è ‘na pazziella;
è ‘nu passaggio dal sonoro al muto.
E quanno s’è stutata ‘a lampetella 
significa ca ll’opera è fernuta 
e ‘o primm’attore s’è ghiuto a cuccà                                                                     
 ( A. De Curtis ) 

venerdì 31 maggio 2013

Erostrato e Facebook


Nel 356 a.C., infatti, le possibilità per un quisque de populo di diventare personaggio pubblico, erano pressoché nulle. A meno di accoppiarsi con qualche dea, magari sotto le mentite spoglie di un muflone selvaggio, o di uccidere il tiranno di turno che, bontà sua, decideva di farsi trovare a taglio di lama.
Scartate queste due possibilità, cosa rimaneva al nostro Nessuno per poter assurgere agli onori della cronaca? Per esempio, compiere uno sproposito; ma non uno qualsiasi, nossignore. Per raggiungere lo scopo serviva, piuttosto, un'azione talmente eclatante da farlo diventare una star non solo tra i confini delle varie polis, ma addirittura di permettere al suo nome, di secolo in secolo, di arrivare fino ai nostri motori di ricerca. Cerca che ti ricerca, ecco trovato il gesto spettacolare. Perché, checché se ne voglia dire, cosa può rendere più famoso un uomo del 356 a.C. che mettersi, bell'e buono, ad appiccare il fuoco al tempio di Artemide alias una delle sette meraviglie del mondo antico?
Certo, compiuto il fattaccio, poi c'era bisogno della pubblicità che tutto immilla. E già perché fin dal IV secolo a.C., a una distanza siderale, quindi, dalle televisioni del Biscione, era chiara l'equazione avvenimento non raccontato=avvenimento non avvenuto. Quindi, malgrado l'umile pastorello fosse convinto di averla fatta davvero grossa, gli mancava il passaggio successivo che solo avrebbe potuto imprimere il suo nome a lettere di fuoco nella mente scossa dei concittadini.
Quale modo migliore, a ben pensarci, che mettersi a urlare, mentre le fiamme divampavano all'impazzata, il proprio nome ai quattro venti in maniera tale che Erostrato, da quel momento in poi, venisse per sempre associato all'incendio del tempio di Artemide?
Portato a compimento il gesto extra-ordinario poi, di siffatto soggetto, inteso come persona fisica, si persero le tracce. 
Passano gli anni. I secoli. I millenni. Arriviamo alla nostra epoca. Si va su Facebook. Per l'appunto, "s'accende" Facebook. C'imbattiamo, così, in un esercito di erostrati. Una masnada di carneadi che, per uscire dall'anonimato delle loro vite mediocri, non trovano di meglio da fare che sciorinare tutta la loro esistenza sui fili pruriginosi del più diffuso social network. E dopo aver incendiato la piazza virtuale con milioni di megabyte di fotografie, video, stati personali, fottuti dalla paura di non riuscire comunque ad ammantarsi della veste della notorietà, li vedi pubblicare le cose più svariate. E fosse solo questo!
Addirittura, in più di un'occasione, anziché usare il social network per testimoniare qualcosa d'importante, e quindi degno di essere condiviso, si arriva alla follia di creare un evento, vivere una situazione, al solo scopo di poterla pubblicare su Facebook. In altri termini, è il social che genera l'accadimento e non viceversa. Per non parlare poi di chi, finalmente consapevole delle figuracce a cui l'ha esposto la sua grammatica deficitaria, si sfoga condividendo pensieri e aforismi (preconfezionati, ovvio) che farebbero arrossire lo stesso La Palisse. Infine, come non accennare agli untori di zucchero e miele che t'inondano la pagina con zaffate di sdolcinerie azzeccose dirette ai vari "Cuore", "Battito", "Trottolino", "Puccy" e (sigh!!) "Ai capelli (di Gennaro da parte di Mariassunta, ndr) che sembrano volare con ali d'angelo in un barlume di emozioni cerulee"?
E pensare che in un'era di sovraesposizione mediatica come la nostra, per diventare finalmente personaggio, basterebbe avere l'originalità di declinare il proprio nome nella fattualità delle cose reali, hic et nunc. Certo, non sarebbe come incendiare il tempio di Artemide, ma almeno servirebbe a farci capire che chi cerca ossessivamente la ribalta non è nulla di più dell'ennesimo sempliciotto che tra clangor di buccine s'esalta.

lunedì 27 maggio 2013

Il figlio dell'operaio e la "Critica della ragion pura"

È arrivato Gustavo. Dopo tre chiamate andate a vuoto come, d'altronde, le altrettante riparazioni fai da te dello sciacquone, finalmente la sua presenza si è materializzata. Qui e ora.
Gustavo è mio coetaneo. Ma vi è di più. E' più o meno l'esempio negativo che, una volta addidatoti come miserevole approdo a cui può portarti l'ennesimo quattro in greco, ti spinge a suffumigi disperati di versioni e ottativi.
E io me la ricordo ancora, gli possino, la sequenza corporea di papà. Dapprima il mento spianato sul malarnese appena tornato da lavoro, di poi l'indice fracristoforesco accompagnato dal “Verrà un giorno...” che mi prospettava la fine ingloriosa e sudicia di Gustavo se solo non avessi colmato quell'insufficienza.
Indi per cui, eccomi a sobbalzare nel cuore della notte; ad immaginarmi sporco, con la chiave a pappagallo arrugginita tra le mani.
Sta di fatto che la mia pigrizia mentale, stroncata da quell'infausto presagio, ci mise ben poco a lasciare il posto ad un iperattivismo capace di un fulmineo approdo alla sufficienza. Anzi, c'è da credere che se l'agghiacciante scenario mi si fosse prospettato qualche mese prima, probabilmente avrei addirittura oltrepassato la fatidica soglia del sei, tanta era la disperazione in cui il mio animo cadeva nell'istante stesso in cui osava anche solo immaginare una vita da Gustavo.
La stessa vita che adesso, in questo preciso istante, mi trovo mio malgrado a guardare con altri occhi. Quali? Beh, quelli dell'evidenza, per esempio.
Da una parte il Suv BMW con il quale è arrivato l'idraulico, uscito dal parco della sua villa e il costo della riparazione durata non più di dieci minuti; dall'altra, la mia fiat 600 cointestata con la mamma che sgaiattola fuori da casa dei miei e la parcella miserrima per una messa in mora “già fatta nel pc” e di durata analoga alla riparazione..
I fallimenti si generano dalla comparazione di dati. Il resto è aria fritta.
<Ma tu non pensi alla cultura, all'istruzione!> sembrano scusarsi gli occhi “pigliati collera” di papà.
Io pur andando fiero, nell'ordine, della mia laurea rigorosamente fuoricorso, dei miei esami al netto di pelose sponsorizzazioni, di quel pizzico di cultura che mi contraddistingue, non posso non sentirmi leggermente frustrato.
Lo sciacquone riprende a funzionare. Il costo della chiamata, calmierato da una conoscenza ventennale, e il prezzo della riparazione, vengono pagati. 
Gustavo s'accinge a lasciarci con la magra consolazione, mia e di papà, del nostro investimento sulla conoscenza e sulla cultura.
Risorse queste, santo Iddio, che mai e poi mai baratteremmo con la chiave a pappagallo di Gustavo.
In parte rinfrancato, sorveglio debitamente occultato dalla tenda celestina l'uscita del Suv bianco affronto. Sortita ritardata che alimenta la suspence. Troppo ritardata.
Suonano al citofono. Mi vien da sorridere pensando che Gustavo possa aver dimenticato la chiave a pappagallo. Io, per parte mia, non sarò mai costretto a ritornare sul luogo di lavoro per riprendere un oggetto smarrito. Non avrò mai la necessità di recuperare il classico ferro del mestiere senza il quale la mia operatività è nulla.
Pregusto già la soddisfazione nel vedere la sua mano callosa alla ricerca dello strumento della sua scienza. Anzi, dell'aggeggio che è, in pratica, la sua arte.
<Scusatemi, avevo dimenticato il libro. E domani ho l'esame.>
“Critica della ragion pura”. Ovviamente, Kant.
Mio padre s'affloscia sulla poltrona. Io mi aggrappo alla tenda.

Sul salotto zio Giorgio con Anita in grembo sorride. Di un sorriso plasmato dal rosso riverbero che il figlio dell'operaio deve poter essere messo nelle condizioni di raggiungere i più alti gradi di istruzione. A patto però, vorrei aggiungere al pensiero astrattamente condiviso, che non si discosti dal cliché del giovane istruito sì, ma anche squattrinato. 
Il rombo dell'irriverente Suv e le volute della tenda divenute improvvisamente soffocanti,  però, me l'impediscono.

martedì 21 maggio 2013

Avvistamenti

Mi sporgo giusto quel tanto che basta per scorgerne un altro. Da stamattina, è il terzo che vedo. Uno, mi è stato a latere per la durata del rosso di un semaforo appena scattato. Era a bordo di una potente macchina. I nostri sguardi si sono incrociati per un paio di secondi: il tempo sufficiente per consentirmi di riconoscerlo.
Il secondo avvistamento, invece, mi è capitato di farlo in tribunale. Era uno dei testimoni che il difensore di controparte aveva citato. Mi è bastato guardarlo mentre recitava la dinamica dell'incidente mandato a memoria per capire. "Eccone un altro!" mi sono detto.
L'ultimo della serie mattutina, è lui. Passeggia con la moglie e la figlioletta di un paio d'anni. 
In un primo momento sono stato io a doverlo cercare. Ora, quasi attratto dalla iattura della sorte comune ("ma poi, - mi vien fatto di chiedermi sempre - davvero loro possono riconoscere me come io loro? O non si tratta, piuttosto, di una fisima solo ed esclusivamente personale?"), lo vedo dirigersi decisamente verso di me. Mi guarda e passa oltre, allietato dai capricci dell'amata bambina.
Eppure non ne siamo tanti. Chi siamo? Uomini e donne. Basta. Non c'è alcuna condizione sociale nè caratteristica fisica; così come non vale ad irregimentarci nessun dato anagrafico.
Semplice. Basta fermarsi e apparire indifferente. Al momento opportuno, poi, alzare lo sguardo verso i passanti. Guardarli fissi negli occhi. Quando si riceverà, nel momento in cui le traiettorie dovessero aver la fortuna di incrociarsi, una piccola scossa, allora si sarà al cospetto di uno in più. Di un'altra persona, cioè, che pur (magari) pienamente inserito in questa società, ha ancora negli occhi un barlume rivoluzionario che gli impone di dissociarsi dalle nostre dinamiche; di credere, cioè, che un'altro mondo sia davvero possibile. Anche se poi, quasi sicuramente, smorzerà il suo anelito di cambiamento facendo finta di farsi bastare il SUV, l'essere utile per l'amico, il calore della famiglia.

martedì 14 maggio 2013

Sir Tommaso Moro e la mia estate

E mi trovo, alle due di dopopranzo, su questa panchina cullata dal mare. 
Mi porto un libro, così, tanto per ingannare lo snervante senso di colpa che "non sia mai che qualcuno passi di qui e possa anche solo minimamente pensare che me la stia scialando, oziando come un pensionato rincitrullito o alla stregua di com'è solito fare il "tardo" Pasquale del bar di fronte". 
Nossignore, non sia mai detta una cosa del genere del sempre impegnatissimo (per copione) io.
Inizio a leggere. Mi ci vuole appena un minuto per convincermi dell'inadeguatezza al contesto "spiaggesco" della mia lettura. 
Per quanto affascinante, infatti, un libro sul processo di Tommaso Moro, letto sotto un sole accecante e non potendo fare a meno di ammirare il tuffo carpiato del ragazzino di fronte, difficilmente ti consente di concentrarti sulle segrete cupe della Torre di Londra in cui fu rinchiuso. Senza parlare, poi, della difficoltà di partecipare emotivamente al momento in cui l'illustre umanista (e non solo) si accinge a offrire il collo al boia per farsi decapitare.
Poco male. Tanto il mio libro è solo una copertura per rilassarmi vicino al mare e per assecondare la voglia matta delle mie membra di farsi permeare dal sole clemente di maggio.
Poggio il Processo di Tommaso Moro sulla panchina. Chiudo gli occhi. Per un paio di minuti forse dormo. 
Oddio. 
Mi desto di soprassalto guardandomi subito intorno per assicurarmi che nessuno abbia notato la mia deprecabilissima debolezza. Riprendo subito, turbato, in mano il libro. D'altro canto, tra un paio di minuti devo ritornare allo studio e quindi, ben vengano le atmosfere cupe del "Socrate cristiano"!
Come come? "Moro amava l'umorismo, negli scritti come nella vita; la festivitas era un tratto saliente del suo temperamento". E più avanti: "E proprio sui gradini del patibolo, dopo aver pregato uno dei funzionari dello sceriffo di dargli una mano per aiutarlo a salire, aggiunse:<Poi, per scendere, lasciate pure che mi arrangi alla meglio da solo." E infine: "E quando gli fecero posare la testa sul ceppo, egli, che aveva una gran barba grigia, scostandola da un lato disse al carnefice:<Ti prego, lasciami scostare la barba dal ceppo, chè non succeda che me la tagli!>".
Chiudo il libro sorridendo. Mi arrotolo le maniche della camicia. Allargo le gambe e mi struscio scompostamente la schiena alla spalliera. Inizio perfino a fischiettare.
"Se fin un attimo prima della morte un grand'uomo come sir Tommaso Moro non ha avuto paura nemmeno della scure del boia, che timore posso avere io che qualcuno pensi che stia oziando?" Sì, sì. Se avessi il costume mi butterei anche a mare. Anzi, adesso mi permetto addirittura di pensare, ora che siamo in pieno orario di studio, alla profumata scodella di caponata, al caraffone di birra ghiacciata alla spina e alla fetta d'anguria da spolpare con tutti i semi. Ecco, questa è la mia estate, da spiluccare rigorosamente in canottiera. 
Ovviamente, sul trespolo di una terrazza a mare.