giovedì 26 settembre 2013

Maledetto, benedetto Sassuolo!


Eccomi qui.  Fustigato, da tifoso napoletano, dalla sferza mefistofelica che non ti aspetti; o meglio, che non può brandirsi perchè potenzialmente incapace dell'abbrivio necessario a procurarti dolore.
Un attimo dopo il 93esimo, stai lì come inebetito a pensare che il record delle cinque vittorie consecutive è rimasto imbrigliato negli striscioni del tutto esaurito del San Paolo.
Ti si sparapanza, allora, davanti agli occhi la classifica (
perché non rendi poi

quel che prometti allor? perché di tanto

inganni i figli tuoi?) che vede la tua squadra del cuore intrippata al secondo posto.
 
"Maledetto Sassuolo!" - ti viene da digrignare a mezza bocca, deluso e incazzato.
Poi, una luce.
Golia e Davide. Leonida e Serse. Che Guevara e Batista.
Il rosso ideale vomita cavalloni sul lago delle sicurezze quantistiche.
Il credo egualitar-rivoluzionario che ha ispirato tutta la tua vita ruggisce indomito.
"Il Napoli comunque vincerà lo scudetto."
"Benedetto Sassuolo!"

martedì 24 settembre 2013

Il Castello del Tondo Sacro

         
Ed è arrivato il giorno dell’ultimo Consiglio Comunale prima delle vacanze estive.

Nonostante i mastodontici condizionatori verde pisello appollaiati sulla testa dei Dioscuri ( le buone cose di pessimo gusto ), l’Aula del Consiglio appare refrattaria a qualsiasi, pur insistito, anelito di frescura.

I problemi sono tanti. Le forze scarseggiano. La voglia di risolverli sta già spaparanzata su qualche spiaggia da 40 € a lettino. Ciononostante, l’esimio signor sindaco Allagricoltura Braccia Rubate deve pur scioglierli ‘sti nodi gordiani che lo separano, ultimi di un lungo rosario di grattacapi, dall’approdo patinato alle isole Free Scura. Ora, non che si pretenda che vengano affrontati e risolti tutti e cinque i problemi che ingolfano l’agenda politica, ci mancherebbe, ma almeno di uno, il principale, non può essere rinviata la trattazione: la “questione monnezza” che attanaglia la città di Castellanea.

Dopo quattro ore e passa di Consiglio, le proposte sono appena tre.

Il cav. Grossa Làsparo, paonazzo in viso e sudaticcio, s’affanna a caldeggiare la trovata, a suo dire geniale, consistente nell’intombare i rifiuti cittadini in tante fosse scavate proprio accanto alle tombe dei cari estinti;  ciò quasi a voler significare che come ogni uomo, durante tutta la sua vita, porta seco pene ed affanni allo stesso modo, al sopraggiungere dell'Eguagliatrice che numera le fosse, si fa accompagnare dalla sua bella porzione di rifiuti. E già perché se i cittadini di Castellanea si rifiutano di accollarsi il peso della propria spazzatura, qualcuno dovrà pur farlo. E chi meglio dei loro defunti che sicuramente nulla potranno obiettare in proposito? Da non sottovalutare poi, l’allusivo messaggio spirituale dell’accostamento blasfemo di tale poltiglia maleodorante con la purezza dell’anima dei castellaneti.

L’ing. Perco Lato, più semplicemente, se n’è uscito con la proposta di utilizzare i rifiuti, opportunamente trattati, per asfaltare le strade della città.

Anche perché, in questo modo, si potrebbe avviare a soluzione un altro annoso problema che tormenta i sonni degli abitanti di Castellanea. Come quale? Quello della moltitudine di piccioni e gabbiani che insozzano la cittadina, no? E già perché questi uccelli fetenti, attirati dal fetore che esala dai rifiuti, sicuramente verrebbero investiti e spiaccicati al suolo dalle auto in corsa non appena si decidessero a planare sulle strade.

L’ultima idea è quella appena accennata dal dott. Uto Pista. Ben a ragione si utilizza il verbo “accennare” perchè il meschino ha avuto solo il tempo di tratteggiare la sua proposta prima che un branco inferocito di risate e di pernacchie aggredisse il suo già scarso senso di autostima.

“Chi va per questi mari…”. Come si fa, infatti, a proporre come soluzione della “questione monnezza” la raccolta differenziata? Mica si può scambiare i nobili castellaneti per porci costretti a sguazzare, tra le mura linde e candide della propria casa, nella poltiglia nauseabonda di rifiuti addirittura da differenziare?

Pazzia allo stato puro. 

Uno stanco moto d’impazienza del sindaco:<Signori, di riffa o di raffa, il problema lo dobbiamo risolvere. E che diamine, mica possiamo seppellire la spazzatura sotto le mura del Castello del Tondo Sacro?>

Silenzio lungimirante.

A momenti sarebbe stato possibile avvertire lo sferragliamento della cervicale dei Dioscuri alimentata dalle zaffate dei condizionatori verde pisello.

In seconda fila, s’erge imperioso l’avv. Zione Specula, già proprietario della catena alberghiera Legibusolutus Hotel.

Un sorriso ammaliatore. La favella ispirata. E dopo un discorso intriso di “interesse generale”, “salute pubblica”, “senso di responsabilità”, la proposta.

Negli occhi magri e segaligni dell’avvocato, s’incarna l’ennesimo business: un altro albergo, il più bello e lussuoso, che svetta sparluccicoso sulle rovine del “castello della monnezza” che dovrà necessariamente essere abbattuto non appena le sue sature mura saranno contaminate dal tanfo pestilenziale.

<La proposta ai voti.> Così sentenzia il sindaco Allagricoltura  Braccia Rubate.

L’inclito consesso approva all’unanimità.

Afa gelatinosa che paralizza i collegamenti neuronali.

L’opposizione, la cittadinanza tutta non profferiscono parola.

Si trivella alacremente la collina, proprio lì, sotto la cinta muraria del castello. E così ( miracoli dell’ingegneria avveniristica! ), tempo un paio di mesi, si scava un profondo abisso a forma di imbuto. Alla popolazione ora stregata dalle magnifiche sorti e progressive del progetto, sembra quasi che il vertice di questo cono origini ( a tal punto appare profondo ) dal centro della Terra. Proprio lì, il punto più lontano dal Paradiso dove, come opportunamente fa notare la professoressa Ura Kult, l’eccelso Consiglio Comunale pare aver confinato il lume della ragione.

E così, tra i tornanti riottosi della collina che porta al castello, ogni mattina, si arrampicano i tir baldanzosi per il prezioso carico. Ed è un sabba infernale di miasmi, rumori, gasolio bituminoso.

Per le strade della città, manco uno straccio di rifiuto. E pazienza per il fetore acre della fermentazione che, sebbene compresso all’interno dello scavo, pur riesce a trovare qualche varco per sgaiattolare via; pazienza pure per la crescita esponenziale dei carcinomi registrata in tutta Castellanea. Degna di poco conto poi, è anche l’invasione di gabbiani che coronano il nobile capo del maniero.

Oddio, non che non ci sia, al di fuori della città, qualche pseudo-intellettuale che appari scandalizzato dalla geniale soluzione trovata alla “questione monnezza”. E, d’altra parte, come meravigliarsi? E’ risaputo, infatti, che ogniqualvolta il dito indica la luna, sono proprio gli imbecilli quelli che s’attardano a guardare il dito.

Così è stato, così sarà in saecula saeculorum. Amen.

Che poi, se proprio non bastasse a convincere della bontà della scelta effettuata, ci sono pur sempre i dati che parlano chiaro: consenso al 90% per Allagricoltura Braccia Rubate & C. in vista delle imminenti elezioni comunali; articolo sparato in prima pagina su PecuniaOlet, il più importante quotidiano della città ( il rilievo mosso dalla professoressa Ura Kult, ancora lei, che a più riprese ha fatto presente come si tratti di un giornale il cui editore sia proprio l’avv. Zione Specula, s’appalesa come un’insinuazione a tal punto gretta e meschina da non meritare alcuna considerazione ); prevista esportazione, dietro pressanti e continue richieste, del modello “ammazza-rifiuti” anche in altri borghi limitrofi.

Insomma, e non poteva essere diversamente, successo a trecentosessanta gradi.

Qual è il male del mondo? Il limite, la misura. Se non ci fosse il vuoto che diventa pieno, la distanza destinata ad essere raggiunta, le ore condannate a passare, probabilmente tutto sarebbe sospeso ed imperituro.

E così, finanche l’abissale voragine di Castellanea sta per essere colmata.

Urge un altro Consiglio Comunale.

L’avv. Zione Specula, inoculato il bacillo pernicioso dell’angoscia nell’animo degli astanti, con cipiglio severo, così conclude:<E’ l’unica: fa d’uopo sfruttare il castello come contenitore. Da calcoli effettuati con certosina precisione, tenendo conto dell’altezza della sua cinta muraria, della superficie del maniero e di numerose altre variabili che non sto qui ad elencarvi risulta che, adottando siffatto sistema, la popolazione di Castellanea sarà sollevata dall’angoscia dei rifiuti almeno fino alla fine dell’inverno.>

Ipse dixit.

<Ma…!>. Una congiunzione. Per di più, avversativa.

Il varco è qui?

I Dioscuri, frastornati dalla spada di Damocle dei condizionatori verde-pisello che continuano a vomitare aria calda, per un attimo trattengono il respiro.

<La proposta ai voti.> Così sentenzia il rieletto sindaco Allagricoltura  Braccia Rubate.

L’inclito consesso approva all’unanimità.

Il freddo pungente intirizzisce i collegamenti neuronali.

Ai primi di dicembre, le possenti mura del Castello del Tondo Sacro appaiono come quella carta spessa che avvolge il cilindro del panettone appena prima che questi si gonfi a formare la capocchia.

La tenace professoressa Ura Kult, la cui mente è tetragona ai colpi dell’afa così come del freddo pungente, riesce finalmente ad organizzare un timido movimento di opinione che si oppone allo stato di degrado e d’imbarbarimento del glorioso Castello del Tondo Sacro.

Nel frattempo, la stomachevole cappella diviene sì sproporzionatamente grande che basterebbe il peso di una decina di gabbiani che vi si posino per farla franare.

Urge un ennesimo Consiglio Comunale che puntualmente si tiene.

Ancora una volta, a monopolizzare la scena, trovasi l’esimio avv. Zione Specula. E’ consapevole, il legale in questione, come manchi davvero poco affinché sulle macerie della coniugazione perifrastica passiva di tutta una vita ( castrum delendum est ) sorga un rifulgente perfetto ( castrum deletum est ). Un progetto, il suo, che ha mirabilmente sfruttato un’esigenza collettiva, quella di liberarsi dal materiale di risulta della società consumistica, fino a farla diventare il sostrato su cui erigere le fondamenta del suo tornaconto personale.

Oramai ci siamo, manca davvero poco. Giusto il tempo di prelevare dalla scarsella gli inveterati strumenti della sopraffazione e il suo sogno scellerato, iniziato con lo scavo di quell’immensa voragine nella collina, proseguito poi con l’imbottitura parossistica del castello con tonnellate di monnezza, troverà il giusto coronamento.

L’avv. Zione Specula si alza con flemma ieratica dal suo seggio, inforca gli occhiali, s’aggiusta il nodo della cravatta a pois e così esordisce:<Carissimi concittadine e concittadini. Ormai, com’è ben chiaro a tutti, la misura è colma. Il prestigioso Castello del Tondo Sacro sta per essere annientato dal peso dei nostri rifiuti. Una perdita importante, senz’ombra di dubbio. Ma com’è prerogativa dei migliori, il suo sgretolamento non sarà vano. Allo stesso modo dell’Araba Fenice infatti, risorgerà dalle sue ceneri a memento non solo del suo illustre passato ma anche di un difficile ed ugualmente importante presente; e già perché è in questi giorni che codesto nostro castello si è trasformato nell’ultimo baluardo contro la tirannia della monnezza. Ed è allora, proprio ad ideale continuazione di cotanto passato e di sì prestigioso presente, che vengo a tracciare le linee guida di un fulgido futuro per il nostro amato maniero. Ebbene sì, care concittadine e cari concittadini: fa d’uopo edificare, sulle sue autorevoli fondamenta ormai corrose dal tarlo del degrado, lungo il suo inclito perimetro già irrimediabilmente violato dal peccato originale, un novello tempio pagano…già, carissimi, un grande albergo, il più lussuoso e avveniristico che, a suo modo, possa perpetrare i fasti del fu Castello del Tondo Sacro.>

Appena il tempo di ultimare il suo intervento che, dalla porta istoriata dell’Aula del Consiglio, spuntano una serie di cartelli di protesta coraggiosamente issati da un nutrito manipolo di manifestanti. A capo di questa protesta, manco a dirlo, la professoressa Ura Kult.

I Dioscuri, indegnamente addobbati per le imminenti festività natalizie, si sorprendono a commuoversi, increduli spettatori di questa sollevazione popolare.

La speranza, però, ha appena il tempo di fare capolino dall’aula che una schiera di poliziotti, armati di tutto punto, si catapulta sui manifestanti, disperdendoli in quattro e quattr’otto.

Dopo qualche “ma…”, “forse…”, “non sarebbe…”, tutto ritorna all’assurda normalità.

<La proposta ai voti.>

Castore e Polluce, ormai prevedendo l’esito di quella votazione, dopo aver sopportato e malvolentieri tollerato, nell’ordine, zaffate di aria fredda, vampate di calore artificiale, ridicoli festoni e imbarazzanti bardature natalizie, al pensiero che saranno costretti ad assistere all’ennesimo, sciagurato scrutinio, non intendono farcela. Si guardano complici per l’ultima volta e si lasciano cadere, l’uno sull’altro in una ideale ics, quasi a voler apprestare l’estrema difesa al castello, in ossequio ad un’intesa connaturata al loro stesso essere.

Dopo una breve sospensione durata il tempo necessario a liberare la sala dai detriti delle due statue, il Consiglio Comunale riprende.

L’inclito consesso approva ancora all’unanimità.

Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta, non donne di  povincie ma bordello!

E’ la vigilia di natale. La professoressa Ura Kult, così come una trentina di altri abitanti di Castellanea, non se la sente proprio di festeggiare. La finestra gelida racchiude una luna innaturalmente gonfia, costretta a sopportare lo scempio di quelle sinistre pale meccaniche ferme proprio lì, lungo le mura del Castello del Tondo Sacro.

La nonna Ura Kult si sforza di apparire serena al nipotino. E, come ogni sera che il buon Dio manda in Terra, s’accinge a leggergli una favola, vivamente speranzosa che stavolta possa alleviare, oltre il sonno del piccolino, anche il suo.

I bambini di oggi, si sa, sono estremamente sensibili ed il piccolo Uro Fut non fa certamente eccezione. Non gli risulta difficile, infatti, notare come in un’altra occasione mai la nonna avrebbe mancato di sfruttare la magnifica luce della luna per leggergli la favoletta serale così come si ostina a fare stasera, pervicacemente voltata di spalle alla finestra che dà sul castello. Ed allora capisce che non può esimersi dal porre questa domanda:<Nonnina…- e indicando con la manina il satellite tumefatto – perché….il castello?>.

A questo punto nonna Ura Kult si rende conto che non ne può fare più a meno. Piange e sorride. Sorride e piange. Chiude il librone verde delle favole ed inizia a parlare al nipotino ed alla sua coscienza.

<Vedi, piccolo Uro Fut, questo – e non appena si volta verso il castello assediato, le lacrime scorrono più copiose – che noi chiamiamo il Castello del Tondo Sacro, in realtà, ha sempre avuto una storia estremamente umile. Mai una legge è stata promulgata in questo maniero. Nessun personaggio importante vi ha fatto giammai visita. Non c’è traccia di qualche poeta,  scrittore o artista che abbia frequentato la sua corte. E questo perché pare che, fin dai tempi più antichi, ci si fosse persuasi che il castello portasse sfortuna. Sai com’è i grandi, a volte, ne dicono di stupidaggini. E il bello è che poi, spesso, ci credono pure. Comunque, questa fama di castello maledetto sembra essere stata alimentata da diversi accadimenti poco piacevoli avvenuti tra le sue mura; ultimo dei quali, attorno all’anno 1345, la morte dell’intera famiglia reale a causa della peste. Da quel giorno, nell’intento di esorcizzare questo nefasto destino che sembrava accanirsi contro il nostro maniero, si decise di attribuirgli la denominazione “del Tondo Sacro”, laddove il termine “tondo” sta per zero, nullità assoluta.

Il piccolo e accorto Uro Fut, bisbigliando qualcosa tra sé e sè, spiana il pollice, poi l’indice e il medio e resta un attimo interdetto. Guarda la nonna e chiede:<Saccro?>

<Già, – sorride Ura Kult – hai proprio ragione. Il termine mancante, l’aggettivo “Sacro”, vuole essere una sorta di assicurazione preventiva contro altri lutti che potrebbero colpire la città di Castellanea. E’ come se i nostri antenati avessero detto: “Voi asserite che il castello non vale niente, che il suo prestigio è pari a zero? Ebbene, noi castellaneti lo chiamiamo sì il “Castello del Tondo” ma ci affibbiamo pure l’aggettivo “Sacro” perché la sacertà, foss’anche riferita al nulla, attesta pur sempre la presenza protettrice del divino.” E così, caro Uro Fut, è nata la denominazione “Castello del Tondo Sacro”>

Il piccolino, estremamente attento ad ogni parola di questa insolita ma affascinante favola, chiede curioso:<E il castello….per te?>.

Ed allora la nonna, trovando il coraggio di voltarsi per l’ultima volta nella direzione del maniero, osando ripercorrere con lo sguardo le possenti mura seminascoste da cumuli di rifiuti, brandisce un sorriso carico d’amore:<Per me, dici, cosa significa il castello? Praticamente la presenza costante, la testimonianza autentica della vita della nostra famiglia. Con la complicità delle sue ruffiane merlature, infatti, ho amato tuo nonno. Cullata dalla sua poesia, ho messo al mondo tua mamma. Nutrito dall’eternità delle mura del castello, sei cresciuto tu, piccolo Uro Fut . Al riparo dei suoi burberi bastioni infine, ho pianto la morte del mio adorato sposo e avrei voluto trovare la morte anch’io>.

Pianta un bacio sulla fronte meditabonda del piccolo. Gli rimbocca le coperte. Smorza la lampada. Chiude il librone verde. 

Adesso, con le lacrime impreziosite dal chiarore lunare, si congeda dal nipotino:<Come vedi, per me, il nostro castello è il più prestigioso di tutti. E pure tu, anche quando sarà violato definitivamente, vanne sempre orgoglioso.>

Quella notte, sullo schermo immaginifico della mente di Uro Fut, vengono proiettate immagini fantastiche ed avventurose: cavalieri, re, dame, cavalli bianchi lanciati al galoppo per combattere l’ennesima ingiustizia. Un microcosmo variegato e multicolore che trova la sua origine nell’anima del Castello del Tondo Sacro. Ed è proprio l’anima o, per dirla con Platone, l’idea stessa della castellaneità ( tutto avviene lì dove solo alligna il segreto dell’Universo: la fantasia di ogni bambino del mondo ), a ingenerare la deflagrazione della barriera storica, la liberazione dei topos letterari. Ed eccoli allora, presenze evanescenti ed invincibili, ectoplasmi della storia e delle arti documentati da studiosi ed eternati dalle pagine della letteratura, convogliati in quel castello dall’Idea della Rotondità per antonomasia, anch’essa nata nelle mura di un famoso maniero: lo Spirito della Tavola Rotonda ( la democraticità, l’uguaglianza ) di re Artù e dei suoi cavalieri.

A mezzanotte in punto quindi, proprio mentre il sindaco Allagricoltura  Braccia Rubate, l’avvocato Zione Specula e tutti i membri del Consiglio Comunale stanno issando i calici della disonestà e del malaffare per un brindisi propiziatorio, un caravanserraglio pantagruelico e pestilenziale di rifiuti esplode in aria dalle viscere del Castello del Tondo Sacro e ivi rimane, per un attimo sospeso, in trepidante attesa. E ciò fino a quando lo Spirito della Tavola Rotonda, stavolta divertendosi ad abdicare alla sua millenaria funzione eguagliatrice, non si decide a dividere il puzzolente carico in relazione al grado di stoltezza ed imbecillità dei singoli protagonisti della vicenda.

E’ Natale. La città si sveglia e guarda sulla collina. Il Castello del Tondo Sacro sparluccica in tutto il suo ritrovato splendore. Dei cumuli di monnezza, manco l’ombra.

Passato il piacevole stupore, gli occhi ritornano a guardare il contado di Castellanea.

Lo stupore continua.

La città si scopre turrita. Quindici pilastri di varia grandezza si innalzano verso il cielo. Quelli tremendamente grossi e lunghi, addirittura oltrepassanti le stesse nuvole sono, guardacaso, proprio quelli che s’innestano sulle case dell’avvocato Zione Specula e del sindaco Allagricoltura  Braccia Rubate.

Evento strano, stranissimo. Ancora più strano perché queste colonne, che sembrano sorreggere il cielo, sono fatte di monnezza compressa.

Si consultano scienziati. S’interrogano indovini.

All’interno del prestigioso Castello del Tondo Sacro è spuntata una tavola, ovviamente rotonda. Ah, dimenticavo: non si sa come né perché ( d’altra parte, se si sapesse sempre tutto non ci sarebbe spazio per le favole! ) i Dioscuri, dati ormai per spacciati dopo la rovinosa caduta, siano ritornati a presenziare, finalmente contenti e beati, la Sala degli Arazzi del castello da cui furono sfrattati per abbellire l’Aula del Consiglio.

Su ciascuna delle loro teste, campeggia una feritoia.

Da qui, ogni mattina, la brezza porta i colori ed il profumo del mare.

 


 
 
 
 
 
   
 


 

 

 

 

 

 

   

 

mercoledì 3 luglio 2013

Odio il cemento

Mio padre faceva l'imprenditore edile. Mio nonno era muratore. Il mio bisnonno lavorava la calce.
Non ricordo cosa facessero gli altri antenati. Eppure son sicuro che se facessi una ricerca genealogica, tutti quelli che hanno qualche cromosoma che si può, anche de relato, collegare a me, abbiano avuto a che fare con le pietre, la calce, il cemento, le costruzioni.
E invece io adesso sto qui. Rinchiuso in queste pareti asettiche dell'ospedale a causa di un incidente. Tutti i miei cari stanno al mio capezzale. Ognuno di loro, finanche la piccola Assuntina che sembra chiedermelo con gli occhi, vorrebbe sapere quale sia stato il motivo che mi ha spinto a sorpassare in curva la betoniera. La fretta? Il bisogno di risentire uno di quei brividi adolescenziali della cui mancanza tante volte mi sono lamentato con mia moglie? No. Ovviamente nulla di tutto questo.
Per fortuna il medico con la testa a pera ha raccomandato ai miei di non chiedermi niente in merito all'incidente. E' da poco, infatti, che ho finito di "commuovermi" cerebralmente.
Si apre la porta. L'infermiera vichinga ordina di uscire tutti fuori. 
Dopo che la stanza riprende a respirare a pieni polmoni, mi si avvicina per la puntura.
L'ago s'infilza nella mia carne come se un ago non potesse fare altro che bucare il culo delle persone.
Mi sorride. Va via.
Mi ricompongo. Ho voglia di affacciarmi alla finestra.
Fuori, un palazzo in costruzione.
Il puzzo di cemento l'avverto nonostante i vetri chiusi.
"La betoniera l'ho sorpassata perchè mi fa schifo il cemento. Perchè il cemento non è neutrale. Nossignore. Il cemento è formato da compromesso, speculazione, arrivismo. Odio il cemento, la calce, l'involucro che lo racchiude, il secchio che lo contiene, il mezzo che lo trasporta. Non sopporto il cemento nonostante lo senta scorrere e inzaccherare i miei vasi sanguigni. E' per questo che lo odio e, - rivolto sconfortato al comodino silente - a volte, mi odio anch'io."

giovedì 20 giugno 2013

L'Avvocato indagato

Gigino è stato sempre un ragazzo determinato. Anche e soprattutto quando la sua voglia di diventare avvocato si veniva a scontrare, ogni giorno che Iddio manda in Terra, con le condizioni economiche della sua famiglia che a definirle precarie si pecca di generosità. Poco male. Lavorava come cameriere in una pizzeria nei fine settimana. In estate, per qualche mese, si scorticava la schiena nei campi di pomodori. Negli occhi, sempre la fierezza di inseguire il suo sogno senza dover mai dire grazie a chicchessia. 
A chi di noi, con le palpebre sonnolenti delle undici di mattina che avevano appena finito di inzuppare la brioche nel latte e caffè di mammina, gli faceva presente che così facendo non avrebbe mai potuto avere una ragazza, lui rispondeva con un sorriso accompagnato da un'alzata di spalla. E a Gilberto che alludeva alla possibilità di buscarsi, ogni tanto, qualche euro rendendo una testimonianza "a comando" al giudice di pace, lui rispondeva sempre allo stesso modo; apparentemente alla stessa maniera, perchè si vedeva lontano un miglio, per chiunque lo conoscesse bene, che Gigino alla sola idea di tradire il suo ideale di giustizia, si avvampava come la capocchia di un fiammifero. Poi venne Emanuela. 
Dopo una settimana lo lasciò perchè non la faceva mai divertire e per il fatto che, secondo quanto riferito alla comitiva dalla sua migliore amica, non ci aveva manco ancora provato.Per questo motivo, nel nostro gruppo, la noia di un'interminabile pomeriggio d'estate partorì la calunnia che Gigino potesse essere ricchione. 
Lui quando venne a conoscenza delle illazioni a tal proposito? L'ennesimo sorriso e la solita, disarmante alzata di spalle.
Venne il giorno della sua laurea in giurisprudenza. Bruciante, fulminea; addirittura urticante, perchè tutti sapevamo che la velocità con la quale era stata conseguita, mai e poi mai sarebbe potuta essere imputata alla raccomandazione che troppo spesso serviva a giustificare la nostra ignavia.
Gigino, due anni fa, ha aperto il suo studio legale. 
Una persona, suo ex cliente, è venuto scandalizzato da me, più comprensivo, perchè si è visto messo alla porta non appena il suo legale si è accorto che uno dei testi che aveva portato per perorare la causa era falso.
L'ho incontrato una settimana fa. Tra il suo solito sorriso e la consueta alzata di spalle, ha fatto trapelare l'inquietudine per la sua situazione economica, aggravata, come sappiamo tutti senza che lui ce l'abbia mai detto, dalle continue spese mediche per la sua malattia.
Dal barbiere, dopo aver "trattato" un sinistro simil-vero, apro il giornale alla pagina locale. A caratteri troppo generosi leggo: Indagato "l'avvocato comunista" per truffa alle assicurazioni.
Alzo gli occhi dal quotidiano, spaesato . Esco fuori dal salone ancora con la schiuma da barba che soffoca il mio mento.
Ho un conato di disgusto verso il mondo. 
Verso me stesso.  

lunedì 17 giugno 2013

Linus e la saponetta di Marsiglia

Torno dal tribunale. A piedi. Un paio di chilometri.
Il sole picchia. La camicia celeste secerne sudore che viene secreto da pori opportunamente e per tempo profumati. Nonostante tutto, però, dopo le prime stille, inevitabilmente ne avverto il peso e l'essenza.
In tribunale ho incontrato colleghi. Sul corso, delle persone.
Nonostante ogni mattina ripari la corazza dalle smagliature prodottesi appena il giorno prima, avverto la patina gelatinosa dell'avversione che pur contamina i gangli dell'anima.
Torno a casa. Ho bisogno di una doccia.
Pino Silvestre. Malizia. Badedas....
Pulizia per il corpo. Non basta.
Le mie dita bagnate la cercano. Per un attimo hanno un moto di preoccupazione nel timore che possa non esserci. No, eccola. Il contatto dei polpastrelli con la sua superficie ancestrale mi rimette in sintonia con la mia fetta di mondo.
Chiudo l'acqua della doccia. Me la strofino ripetutamente lungo le asperità del corpo. Poi, non ancora soddisfatto, la faccio salpare lungo le onde appena increspate dei capelli.
Mi copro di una patina di bianco e profumo d'altri tempi.
Accordo, per un paio di minuti, l'apparire al mio essere più profondo.
Rigiro la manopola dell'acqua.
Sorrido.
La saponetta di marsiglia. 
La coperta di Linus contro gli agenti patogeni del mondo.

lunedì 10 giugno 2013

Risposte in differita

Metti un sabato sera qualunque. Di quelli in cui, a causa delle strane alchimie che non basta una vita per capirne la ragione, ti senti un attimo più riflessivo. 
Sei insieme ad un bel gruppo di amici appena arrivati al tavolo di un pub. Sei uscito perché lusingato dal "guarda che se manchi tu e la tua ragazza, non se ne fa niente".
Volutamente è stato scelto un posto vecchio stile, di quelli in cui non c'è musica assordante a impedirti di scambiare quattro chiacchiere. 
I primi dieci minuti bastano a farti sentire contento di aver fatto, questa sera, la scelta della condivisione amicale.
Un paio di minuti spesi a salutarsi con la consueta simpatia. Altri due per districarsi tra le varie voci ammiccanti del menù. Un minuto per scegliere l'ovvia pizza margherita. Altri cinque, gli ultimi, per dare il tempo alla ragazza dei tavoli, armata di un aggeggio col pennino, di prendere le ordinazioni virtuali.
Adesso, finalmente, il campo è sgombro per l'arricchimento che sempre nasce dal confronto.
<E allora, che si dice?>
Tre amici incominciano ad arrotolare la lingua e a fotografarsi con il cellulare. 
L'indice di Carlotta lo vedi impegnato ad emozionarsi nella lunga conversazione con il moroso di stanza a Canicattì. 
Paolo e Claudia s'affrettono a dar conto agli amici di facebook che proprio Paolo e Claudia si trovano al pub TaldeiTali. 
Roberto e GianCamillo, infine, si divertono a scambiarsi appezzamenti, tramite messaggistica istantanea, sulla scollatura generosa della tipa delle ordinazioni.
Tu guardi smarrito la tua ragazza. Lei, intercettando ancora una volta (non per niente è la tua fidanzata) il disagio che traspare chiaro dall'occhio di pesce lesso, inizia a parlarti, stringendoti la mano.
Passano cinque, dieci minuti. Un quarto d'ora di consueto, ma sempre piacevole, scambio di opinione con la morosa.
<Tutto bene!> (3 volte)
<A parte l'aspetto economico, non mi posso lamentare!>
<E come vuoi che vada? Va!>
<'Na chiavica!> (2 volte)
<Si sopravvive!>
"Il varco è qui?"
Sono arrivate le pizze, i panini e gli stuzzichini vari.
Necessariamente la comitiva ha dovuto prodigarsi in un faticosissimo affaccio nella vita reale; e, già che si è trovata bell'e emersa, rispondere alla tua generica domanda di quasi mezz'ora prima.    

martedì 4 giugno 2013

A Massimo Troisi


Sul display del PC, appollaiato sulla scrivania, occhieggia una mail. 
Mittente: Ananke. 
Oggetto: cessazione attività. 
Cloto, contenta di non essere costretta a filare un altro Fuso (quel giorno, le nascite erano state fin troppe), inoltra frettolosamente la mail a Lachesi. Quest’ultima, che a forza di avere a che fare con i numeri ( misura difatti, la lunghezza del Filo ) ha diluito ogni emozione nel calcolo, destina la mail, indifferente, alla diretta interessata. Atropo, dal canto suo, richiamata al PC dal borbottio triste della posta in arrivo, dopo aver soffocato in gola un impercettibile sospiro, apre la mail e legge la seguente sigla: 191953MTxy. Si reca mesta, nella stanza dell’archivio: 191950…191953L…eccolo lì. Prende il Filo.  Quasi mai legge il nome del predestinato e anche stavolta non è intenzionata a farlo; tuttavia, nel momento in cui s’accinge a incolonnarlo per ordine di chiamata, il Filo le cade a terra. La targhetta identificativa si sgancia e rivela il nome: MASSIMO TROISI. Un’angoscia profonda, una fitta al cuore. Atropo allora, fa catapultare nel suo ufficio Cloto e Lachesi.  Gli rivela, affranta, l’identità del morituro.  Nella mente scossa delle Moire, a sentire quel nome, affiora un caleidoscopio sterminato di battute, di gags, di sketchs. A loro non è concesso il lusso di commuoversi eppure, al ricordo del “tormentato” Gaetano di Ricomincio da tre, del “dubbioso” Vincenzo di Scusate il ritardo e di tanta semplice ma, nello stesso tempo, grande umanità rappresentata nei suoi films, non possono sottrarsi a quella disperazione sorda, sottile che attanaglia le viscere e semina nell’animo immalinconito, frange di sconforto. <E pensare che proprio tra due giorni esatti - chiosa Lachesi costernata – avrebbe terminato Il Postino…!><Già - di rimando, Cloto – proprio quel film pregno di poesia che avrebbe consentito al nostro Massimo di raggiungere l’acme del suo genio!> La recisione del Filo è prevista alle h 14,56’e 35”. Mancano più di tre ore. Quel tempo che divide Atropo dall’ingrato compito, le tre Moire,  decidono di impiegarlo nel ricordo tutte le gags più esilaranti del mitico Massimo, iniziando dalla Smorfia. A causa di contrasti sulle esatte parole utilizzate in alcuni sketchs, Lachesi propone di proiettare la summa delle sue opere sull’immenso schermo troneggiante in mezzo alla sala. Ovviamente, la proposta è accolta  E allora, ben presto, dimentiche della sciagura che loro malgrado avrebbero contribuito a creare di lì a poco, vengono pervase da un moto di ilarità dolce e profondo. E così, ammaliate dalle gesta dell’antieroe Massimo, le tre Moire, finiscono col dimenticare le loro incombenze; a tal punto che, per un po’, non ci sono nuove nascite né morti novelle. Questa situazione di stallo però, è destinata a durare poco. L’inflessibile Ananke, avvertita con colpevole ritardo ( per questo, il controllore responsabile viene folgorato vivo ) della situazione che si è venuta a creare, decide di recarsi di persona nell’ufficio delle Moire, per conoscere le cause di quell’insubordinazione. Alla vista della terribile Ananke, i dipendenti sprofondano in un tremendo stato di prostrazione. Ella, la cui rabbia è appena mitigata dal sottile piacere dell’esemplare punizione che di sicuro avrebbe inflitto alle Moire, s’accinge a percorrere, con passo sicuro e ineluttabile, il lungo corridoio che la separa dall’ufficio. Man mano che si approssima alla meta, sente provenire, sempre più nitidi, i risolini di gioia delle tre sorelle entusiaste. Sta per aprire la porta rimasta socchiusa, quando decide di fermarsi: ha proprio voglia di conoscere la causa di tanto irritante buonumore! Sguinzaglia allora, lo sguardo tra la fessura e lo rende spettatore di quegli spezzoni di films. Alla scena dei complessi di Robertino, si trova ad abbozzare un mezzo sorriso; a quella della pioggia torrenziale in cui Vincenzo cerca di consolare l’amico lasciato, le estremità delle labbra finalmente si sollevano fino a poi sbocciare in una vera e propria risata nel momento in cui Ananke osserva la scena della lettera a Savonarola in Non ci resta che piangere. All’improvviso, quel clima di divertita spensieratezza, è interrotto da Lachesi: <Per Zeus, le Nascite…le Morti…i Fili…!> Basta mezz’ora di lavoro frenetico, per rientrare nei parametri fissati per quell’ora. 14,53. 14,56. Atropo ordina mestamente a Lachesi di misurare il filo, impugna le lucidi forbici e appena biascica, in un profondo sospiro:<Peccato, bastavano soltanto due giorni per consentirgli di finire il Postino, l’ultimo suo capolavoro… 14h, 56’e19”: la grande Ananke, ancora accarezzata dall’ironia composta e geniale del Nostro, eccezionalmente intenerita dalla sua verve comica, decide. Con un accenno di sorriso, ripercorre il lungo corridoio verso l’uscita. 14h, 56’ e 34”: Atropo chiude gli occhi. Soffoca l’amarezza. Divarica le cesoie. Taglia…no! Il Filo resiste.  Uno scampanellio. Una mail: causa disguido, morte posticipata al 4 giugno 1994; 14h, 56’e 15”.   
Ormai per me il trapasso è ‘na pazziella;
è ‘nu passaggio dal sonoro al muto.
E quanno s’è stutata ‘a lampetella 
significa ca ll’opera è fernuta 
e ‘o primm’attore s’è ghiuto a cuccà                                                                     
 ( A. De Curtis )