martedì 29 aprile 2014

"Oi pleistoi kakoi" (La maggioranza è cattiva)


Tra i Sette Sapienti dell’antichità, ecco che ci si presenta, con l’immancabile barba rigogliosa e l’altrettanto indefettibile cipiglio severo, Biante.

Perché mi sia venuto lo schiribizzo di parlarne, è presto detto.

Biante, il buon Biante, aveva capito tutto, con circa 2600 anni d’anticipo, della politica, della storia, della fiumana del progresso. Quando, infatti, gli venne chiesto di dar sfoggio di sapienza con l’incidere, sul frontone del tempio dell’oracolo a Delfi, un motto, la frase più importante del suo pensiero lui, senza esitazione alcuna, così scrisse: OI PLESTOI KAKOI (la maggioranza è cattiva).

Una frase che probabilmente lasciò di stucco gli stessi Sapienti.

<Ma come, – avrà pensato Chilone (o Talete, a seconda delle versioni), un altro dei Sette Savi che già aveva provveduto all’incisione della sua, di frase – io scrivo un motto di una profondità esagerata (“Conosci te stesso”), e questo se ne viene con un’affermazione che più scontata non si può?>

Ebbene, nessuno dei contemporanei (alla faccia dei Sapienti!) né, v’è da giurarlo, alcuno di noi ha capito fino in fondo la portata rivoluzionaria dell’ OI PLESTOI KAKOI.

Io, dal basso della mia mediocrità, c’ho pensato l’altro giorno e sono giunto a siffatta conclusione.

Campo dell’esperimento: la politica.

Fateci caso: ogni movimento, ogni partito, ogni moto rivoluzionario, appena sorge e per un certo periodo di tempo (quando è ancora  “a base ristretta” e fino a quando non diventa “di massa”), il più delle volte, contiene la parte migliore di quell’idea, di quel cambiamento che si vuole portare nel consesso sociale. Non appena, però, ci si ingrandisce, allorquando il vertice originario incomincia necessariamente a lievitare, ecco che gli ideali di partenza iniziano ad annacquarsi, la dirittura morale ad allentarsi, il credo politico a subire il fascino del compromesso.

Esempio pratico.

Con la “svolta della Bolognina” del 1989 che diede il via allo scioglimento del P.C.I., ad esempio, il segretario Occhetto, e più tardi il suo sostituto Massimo D’Alema, giustificarono la trasmigrazione nel P.D.S. con la necessità di acquisire una “vocazione maggioritaria”, di abbandonare, insomma, quell’ “angolino (sterile) da perfettini” che era stato il Partito per buona parte della sua storia (anche nei momenti di massimo splendore, infatti, c’era sempre la D.C. ad essere primo partito nel Paese).

Tutto vero, tutto giusto. Come infatti andare contro l’ovvietà che in un Paese democratico, per vincere e quindi per imporre la propria visione delle cose, è necessario diventare maggioranza?

Ecco, la maggioranza. E siamo di nuovo al punto di partenza.

Sulla scorta di questa ossessione maggioritaria, si è passati, nell’arco di quasi trent’anni, al P.D.S., poi al P.D., ancora ai D.S., e infine al P.D..

In questa lunga, e per certi aspetti deprimente cavalcata, si è conquistata la fatidica vocazione maggioritaria. Su questo, non ci piove. Peccato, però, che si sono a tal punto intorbidati gli ideali di partenza, così annichilite le magnifiche sorti e progressive, che il P.D. altro non è, ormai, che un partito similare della vecchia Democrazia Cristiana.

E che significa questo (qualcuno potrebbe saggiamente obiettare), che per conservare la purezza dei propri ideali ci si deve condannare ad essere insignificanti? Che, per restare coerenti con le proprie idee, non si potrà mai raggiungere quella maggioranza che sola consente di governare?

Bella obiezione! Il Sapiente Biante, tetragono alle sirene del potere, direbbe di sì, che è proprio così perchè nel momento in cui si diventa maggioranza, la negatività inizia ad insinuarsi non solo nel corpo del movimento ma, probabilmente, anche nel suo modus operandi.
 
E fin qui, ci siamo.
 
Il guaio, però, è che anch’io, che continuo a vedere il mondo a modo mio, a votare per i partiti che è già un successo se superano la soglia di sbarramento, che quando il mio pensiero inizia ad essere condiviso da troppe persone mi chiedo “in che cosa ho sbagliato?”; ecco, la iattura, dicevo, è che anch’io, uomo del terzo millennio, temo di pensarla proprio come Biante. Domani mi taglio la barba. Domani mi devo assolutamente tagliare la barba.

 

giovedì 24 aprile 2014

La pancia (alias "bambino") alla riscossa



Lo studiolo del dottor Spatafora s’affaccia timido proprio dirimpetto alla finestra della sua cameretta. Ed è proprio da qui che il nostro Fobìa attende impaziente l’arrivo della Smart grigio chiaro del luminare.

Appena la vede sbucare dal curvone e perdere velocità per prepararsi al parcheggio, è assalito da uno stato di agitazione improvviso quanto immotivato.

“Ma come? – si chiede allarmato - Sono cinque maledettissimi giorni che aspetti questo momento e mo che fai? Ti agiti, t’impaurisci come un muccusiello che ne ha appena combinato una delle sue?”

Mentre cerca di mortificare con queste parole il sentimento canaglia, si sorprende a chiedersi se anche Garibaldi, prima dello sbarco dei Mille o (perché no?) lo stesso Giuda, prima di tradire Gesù, siano stati preda della sua stessa palpitazione. Sta di fatto comunque che, agitazione o meno, paura o no, in questo momento ha l’obbligo di rimanere ben saldo nel suo proposito, costi quel che costi. Pensiero e azione, questo deve essere il leit-motiv di quella giornata. E visto che di tempo da dedicare al pensiero ce n’è stato fin troppo, non rimane che agire. Poiché però è ben consapevole di non esser dotato di un cuor di leone, (d’altra parte, se uno il coraggio non ce l’ha, non se lo può dare) per trovare la forza necessaria alla sua impresa, dovrà giocare d’anticipo. Proprio così, questa è la mossa che gli consentirà di dare scacco matto alla sua attuale, insopportabile, vita di privazioni.

“E allora, forza… dai!”

E si trova, istintivamente, a darsi una sostanziosa manata sul sedere proprio come faceva da piccolo, prima di mettersi a correre per scovare i cuginetti nascosti.

Appena vede il dietologo segaligno spuntare davanti al portone, si precipita in cucina, spalanca il frigo, acchiappa le due armi contundenti, si getta a rompicollo per le scale.

Sgaiattola dal cancello rimasto aperto.

Guadagna finalmente la strada; con un balzo, l’attraversa.

L’Agitazione e la Paura si squagliano sulle mani.

Si aggrappa al citofono. Suona.

“Chi è?”

“Fabio.”

“Fabio chi?”

C’è poco tempo per rispondere. L’Agitazione e la Paura continuano a sciogliersi, stavolta però su una mano sola. L’altra gli serve per aprire il portone.

Aggredisce le scale.

Sa che ha circa cinque minuti di tempo prima che il mellifluo “s’accomodi” introduca la prima visita.

Guarda l’orologio: ne ha impiegati appena due per arrivare fin lì.

“Buong…uè, ma dove vai?”

Non c’è tempo per rispondere. Approda alla stanza in fondo al corridoio, con la domanda della segretaria che lievita sempre di più nel petto affannato.

Apre e richiude con la gamba la porta sottile dietro di sé. Allarga le braccia guardando a terra.

Si sforza d’incanalare le parole secondo quell’ordine ossessivamente studiato da giorni: “Dottor Spatafora… la dieta non la voglio fare più…- adesso prolunga lo sguardo lungo le scarpe appuntite del luminare, sguscianti via dalla scrivania filiforme – perché sono tutti mosci quelli che fanno la dieta…- e, tra una leccata nervosa a quel po’ d’Angoscia pistacchio che è rimasta integra - …eppoi la verità è che…- e un morso a quell’accenno di Paura nocciola ancora non squagliata -… mi ci sono affezionato a…- s’aggrappa a questa pausa, trovando per un attimo il coraggio di salpare da vincitore nella pupilla acquosa del dietologo -…insomma sì, gli voglio ormai un cuofano di bene – si afferra la pancia finalmente convinto - a ’sto benedetto bambino.”



martedì 22 aprile 2014

Siparietto simil-religioso


Il nome di Michela Fragolina è stato sicuramente l’argomento più convincente che avessi mai potuto utilizzare per spingere Dante all’azione.

Quella vicenda ci ha fatto capire, a noi poco più che sbarbatelli, le difficoltà che avremmo incontrato nei rapporti con il gentil sesso.

C’è stato un tempo, quantitativamente non troppo lontano (sette, otto anni prima) ma “ormonicamente” distante anni luce in cui io, Dante e Totò frequentavamo la parrocchia.

Detta così, non ci sarebbe nulla di strano.

Il fatto è che noi però, non ci limitavamo ad andare a messa la domenica, a partecipare alle riunioni dell’Azione Cattolica e della Legio Mariae o a prestare servigi di chierichetto (attività queste, già di per sè più che sufficienti ad assicurarci la beatitudine). Nossignore. Noi, in pratica, abitavamo in chiesa. Eravamo le Perpetue onnipresenti di don Esposito. Assistevamo a tutte le cerimonie liturgiche, timbravamo il cartellino a ogni processione, sotto il sole e sotto la pioggia; addirittura prendevamo parte ai ritiri spirituali nei luoghi più impervi e remoti dove l’unica traccia di civiltà era rappresentata dalla segnaletica stradale.

E tutto questo, manco a dirlo, con somma goduria del prete e delle fimmine chiesastre, orgogliosi della nostra fervida e disinteressata vocazione.

Fu una delusione tremenda quindi, tranne che per il mio e per il padre di Dante, mangiapreti incalliti, venire a conoscenza che la nostra fede non era né fervida né tantomeno disinteressata.

La verità era che noi tre non perseguivamo il credo religioso, ma la fede sviscerata in questa Michela Fragolina.

Che Dio, o chi per Lui, ci possa perdonare!

Durante le innumerevoli messe, ci posizionavamo, in base ad un accordo tacito, in questo modo: uno a destra ( per una sorta di segno premonitore, il Che non ci era mai capitato, a destra) uno al centro e uno a sinistra della navata principale.

Lo scopo non troppo celato di questo schieramento, era quello di verificare, addirittura contare, quante volte la bella Michela, appollaiata sull’altare nell’intento di nobilitare, con la sua, le voci sgraziate del coro, avesse guardato a destra, al centro o a sinistra.

Ovviamente, alla fine della funzione, tutti eravamo convinti che il punto più frequentemente messo a fuoco da Michela fosse, guarda caso, proprio quello in cui era posizionato il diretto interessato.

Come all’indomani delle elezioni, tutti e tre ci sentivamo in qualche modo vincitori. E ne avevamo ben ragione. Il fatto è che i criteri presi in considerazione per attribuire l’ambito primato, erano talmente tanti e diversi (oltre ai movimenti del capo e degli occhi, degni di considerazione erano pure l’intensità dello sguardo, il fluttuare sinuoso del corpo in una direzione piuttosto che in un’altra, etc.), da infondere in ciascuno di noi la convinzione assoluta di essere finalmente entrati nelle grazie della nostra musa ispiratrice.

Morale della favola? Noi ci facevamo tutte le celebrazioni liturgiche, ci scambiavamo accuse di brogli nello spoglio degli sguardi e la nostra bella (che poi a dirla tutta, tanto bella non era…chissà perché però, ci se n’accorge sempre dopo!), si mise con un tal Alberto che la chiesa l’aveva vista solo al battesimo e alla comunione.

Costui, manco a dirlo, spendeva il suo tempo a giocare a pallone ed a spassarsela con le ragazzine; lo stesso tempo che noi, sepolcri imbiancati abusivamente ammantati di Ave Maria e Padre Nostro, consacravamo alla beltà di Michela Fragolina.

Che Dio, o chi per Lui, ci possa perdonare!

 

 

giovedì 13 marzo 2014

Le sopracciglia ad ali di gabbiano e il generale di Archiloco

Ieri sera, a letto, mentre ancora maledici il terzo dito che non ne vuole sapere di pigiare, con cipiglio fiero (cazzo, c'è scritto "ff" ovverossia fortissimo!), il tasto che viene dopo la pausa, t'imbatti in un programma. Per l'esattezza (figurati se si ha il tempo di seguirlo tutto, un programma!), in uno spezzone di trasmissione.
Vedi un giovane in costume adamitico, steso su un lettino, che risponde alle domande di un divertito Enrico Lucci.
Sissignore, sei su "Le iene".
Alzi un po' il volume per capire chi stia "coglionando", con l'aria "paracula" di quello che s'accinge a raccogliere il Verbo sulle Dodici Tavole, il sagace giornalista; soprattutto, ovviamente, il perché.
All'inizio cerchi il giusto compromesso tra l'esigenza di ascoltare le parole dell'illuminato relatore e l'audio basso per evitare di svegliare tuo fratello che dorme già il sonno dei giusti.
Quando le tue sinapsi, però, lambiscono di senso le spiegazioni insensate del giovinastro televisivo, te ne fotti una beata minchia di tuo fratello e del sonno.
Alzi la voce, dopo aver pescato il telecomando in bocca al gatto raggomitolato sotto il piumone.
"Ogni settimana sto al centro estetico. Ho pure il numero privato del titolare così non faccio alcuna fila..."
Poi, sul lettino del centro estetico, se ne corca un altro, di valente orgoglio della gioventù italiota.
"Odio i peli, anche quelli della barba perché mi danno un senso di sporcizia...per non parlare di quelli dietro la schiena...mi sento un perdente solo a immaginarli..."
Ritorna sullo schermo l'adamo di prima.
"Mi sento fuori luogo, incapace di farmi accettare quando non ho le sopracciglia aggiustate...proprio così, ad ala di gabbiano".    
Spegni la tv.
Ti metti sotto le coperte.
Passa un minuto. Ti rizzi ad angolo retto in mezzo al letto.
Con la mente in trance, ti alzi finalmente.
Stai talmente "flashato" che nemmeno l'immancabile sfracellamento del mignolo contro lo stipite riesce a farti fare il presentat-arm! a qualche santo, neanche a qualcuno, meschino, "di contorno".
Torni a letto impugnando un foglio di scottex. Lo schiacci sulla collottola di un sorpreso Pedro. Lo afferri (sempre con lo scottex) e lo lanci via da te.
"Tutto 'sto sfaccimma di pelo che permea (questa è la prova che non ci stai con le cervella, altrimenti col cazzo che ti veniva 'sto verbo) la mia esistenza , vuoi vedere che è per questo che mi sento fuori luogo, incapace di farmi accettare, fondamentalmente perdente?
Poi cadi, come corpo morto cade, in un sonno piombigno.
Nel sogno, la vittoria del generale di Archiloco.
 
Non amo un generale alto, che sta a gambe larghe,
fiero dei suoi riccioli e ben rasato.
Uno basso ne voglio, con le gambe storte,
ma ben saldo sui piedi, e pieno di coraggio
 
Fanculo le ali, il gabbiano e quel ricchione di adamo.

venerdì 21 febbraio 2014

Fabio Fobìa


<Gesù, Gesù, ma questo è caduto con la capa per terra!>

Ci voltiamo tutti a guardarlo, curiosi di conoscere l’ennesimo motivo di preoccupazione di Fabio.

Per Fobìa ( mai anagramma fu più azzeccato! ), ogni giorno porta in dote una serie di grattacapi più o meno reali. E già perché, se per un infausto motivo la giornata si presentasse senza noie, ebbene, in questo preciso momento, interverrebbe l’immaginazione a sopperire alla grave mancanza.

Malgrado la naturale tendenza alla tragedia però, questa volta la sua preoccupazione avrebbe un serio fondamento. Ed infatti, il rosso vivo della maglietta di Che Guevara sbandierato sotto il truce grugno dei camerati della Destra Sociale affastellati in corteo, senz’ombra di dubbio costituirebbe una concreta istigazione al nostro scotennamento. Ma il timore viene meno nel momento in cui, ad indossarlo, è il mitico Dante detto, per l’appunto, “il Che”.

Cos’è l’autorevolezza? Basta conoscere Dante per averne piena cognizione.

Ora, quand’uno parla di autorevolezza, saggezza con riferimento a un tizio, si è subito portati a raffigurarsi il soggetto in questione come uno dei quei vecchi druidi con la barba lunga un chilometro, zellosi, seriosi, perennemente in meditazione. Per intenderci, alla maniera di Nestore, re di Pilo, vecchissimo ( si narra che avesse all’incirca trecento anni sul groppone quando si decise a tirar le cuoia ) combattente acheo nella leggendaria guerra contro Troia. Insomma, come se queste virtù si degnassero di appartenere ai soli possessori della carta d’argento!

L’autorevolezza di Dante invece è sfiziosa proprio perché figlia di quelle mille, mastodontiche e contraddittorie intemperanze adolescenziali che la rendono continuamente disponibile ad essere messa in discussione da noi ragazzi del gruppo; gli stessi ragazzi della comitiva che però, nei momenti di una qualche importanza, siamo pronti ad ascoltare i preziosi consigli del nostro compagno.

In buona sostanza, se l’Auctoritas si dovesse incarnare nel corpo di un mortale, sceglierebbe senz’ombra di dubbio il suo. Un esempio? L’ultima versione di latino della prima liceo.

Sebbene quella prova fosse decisiva per molti di noi lui, tomo tomo, cacchio cacchio, che cosa mai ti fece? Ebbe l’ardire di arricchire la traduzione scontata dell’espressione tacitiana “fingunt e credunt” ( fingono e credono, appunto ), nientepopodimeno che con codesta blasfema aggiunta: ( trad. libera, in omaggio alla nostra cultura campana:se la cantano e se la suonano ).

Mai parentesi fu più rivoluzionaria!

E come succede a tutti i ribelli in uno stato di polizia, quello del professor Cozzolina poi rasenta il regime, il nostro eroe fu impiccato all’albero dell’esame a settembre perenne e il suo cadavere gettato in pasto all’imperituro odio del succitato docente.

Ma un evento straordinario, si sa, assai difficilmente si limita a partorire un solo effetto:nel caso di specie difatti, questo gesto temerario, oltre a cristallizzarsi nella classica pigliata ‘ncopp’ a ll’uocchie del sobillatore in questione da parte del collerico Cozzolina, trovò ospitalità nei margini assai larghi e slabbrati del fattariello che da quel momento in poi prese ad aleggiare, presenza strabordante e pervasiva, in tutti i corridoi, le aule, gli anfratti più reconditi del Liceo Ginnasio Torquato Tasso.

giovedì 20 febbraio 2014

Lo sfogo di un Avvocato con la Cravatta


È uno sfogo di cui mi pentirò tra un minuto. E sì perché io sono un “Avvocato con la Cravatta” e agli “Avvocati con la Cravatta” non è consentito lamentarsi. Già, la cravatta!

Come se questo accessorio fosse la prova inoppugnabile della raggiunta agiatezza.

In uno dei film cult di Luciano De Crescenzo "Così parlò Bellavista", nel celeberrimo sketch "la mezz'ora", il fratello saggio rimprovera il più piccolo, un affranto Cannavale, di aver dilapidato tutte le proprietà che i genitori gli hanno lasciato. Il tutto, anche in nome della 124 spider che, a detta dello scapestrato rampollo, non gli consente di abbassarsi a lavorare da fattorino, "manco - e questo è il commento caustico del fratello "inserito"- se la centoventiquattro spider fosse un titolo di studio!". Già, il titolo di studio!

Mi sono laureato in Giurisprudenza. Non mi piaceva molto. Avrei voluto fare lettere classiche o, per converso, avendo già qualche anno di pianoforte (rectius pianola, "perché il pianoforte costa troppo e non abbiamo spazio") alle spalle, avrei voluto diplomarmi al conservatorio. Ma si sa, di latino e greco così come di virtuosismi acustici, non si mangia.

“Con Giurisprudenza, male che vada, troverò il placido posto in banca che mi permetterà di condurre una vita normale", ovverosia di raggiungere l' aurea mediocritas a cui ho sempre aspirato.

E quindi, sotto con gli esami. C'ho messo, per una serie di motivi, troppo tempo per laurearmi; questa è la mia colpa, lo so, sebbene abbia, nel frattempo, prestato il servizio militare, lavorato part-time all'università stessa, etc., etc..

Forse, però, il vero fattore di rallentamento è stato studiare qualcosa che non mi entusiasmava mentre continuavo a divorare libri (di narrativa) su libri, la mia vera passione.

Fiat laurea! Mi sottopongo, zittendo la mia dignità "comunista" che qualche "maestro" (!) o dominus (!!) mi (ciononostante) rinfacciava, alla schiavitù del praticantato.

In due anni, ho cambiato due avvocati…alla ricerca della libertà? Macché, cercando di sottomettermi a un titolare di studio appena meno schiavista del precedente.

Poi il giuramento e l'esame di avvocato. Eh, qui sono stato proprio bravo. Bravissimo. Eccelso...nel copiare con stile, nell'inserire qualche perifrasi latina ad hoc, nel far fruttare la mia ossessione per la punteggiatura.

Così si supera, addirittura in prima battuta, l’esame di avvocato.

Con il titolo in tasca, finalmente l’emancipazione. Mi si aprivano davanti agli occhi le sterminate praterie della dignità da lavoro. Già, la dignità da lavoro!

Una collaborazione con un avvocato che pagava benissimo. Seicento euro al mese per circa 120 km alla mattina (se andava bene), con la mia punto bianca di 10 e passa anni, per le udienze nei fori più sperduti della Provincia di Salerno. Alle 15, poi, ripresa dell’auto per la stazione bus di Salerno; pullman per Napoli;  metropolitana per lo studio legale. Finalmente, l’arrivo in loco.

Prima cosa, spegnere il cell., perché non si poteva sottrarre tempo alla produzione (da fabbrica cinese) delle comparse e atti vari che occorreva garantire. Infine, dopo una claustrofobica giornata, si aspettava la metropolitana, si riprendeva il pullman per Salerno, ci si rimetteva in macchina e si arrivava, per le 22-22 e 30, a casa.

Vitaccia, ok, ma dopo poco più di cinque mesi sono riuscito ad arrivare, tra lo stupore di molti miei colleghi che non ammetterebbero mai, dall’alto delle loro Cravatte, che non svolgono altro lavoro che “fare le vasche” per il corso con la paghetta di papà, ad arrivare a  1000,00 euro al mese.

Nel frattempo la gloriosa Punto, dopo aver ingollato, negli ultimi cinque mesi di vita, più chilometri che da quando è stata fabbricata, mi ha lasciato a piedi. A nulla è valso il rimedio, altre volte salvifico, della bottiglietta d’acqua da versare nello sfinito radiatore ogni 50/60 km. E allora, che fare?

Compro la fatidica macchina. A 300 euro al mese per 5 anni. ‘Na cazzata, d’accordo, ma tanto ne guadagnavo 1000 e avevo capito che solo di mia volontà sarei potuto uscire da quella fabbri…pardon….da quello studio.

E poi, la colpa imperdonabile. La seconda, nell’ordine:dopo un mese di ricerche su “Subito.it”, compro un pianoforte. Di terza mano. Riverniciato e rimarcato.

Finisce il lavoro. Non si sa come, non si sa perché.

Grazie all’aiuto della mia famiglia, apro uno studio legale in un locale fittato

Nel frattempo, scrivo un libro di narrativa che riesce anche ad avere qualche successo, solo di pubblico, ovviamente, perché le case editrici importanti sono in tutt’altre faccende affaccendate (pubblicare l’ennesimo libro di ricette della starlette di turno o le memorie dell’ultimo politico che si ritira, novello Cincinnato, a vita privata dopo l’ennesima mazzetta intascata). 

Lavoro tanto, guadagno pressocchè nullo. Ma…bisogna farsi conoscere, bisogna fare la gavetta.

Dopo tre anni da “Avvocato con la Cravatta”, ho lasciato versamenti IVA arretrati, bolli auto che non ce l’ho fatta a pagare. Adesso c’ho l’iscrizione alla Cassa che non pagherò. Già, anche la cassa!

Eppure sono cresciuto con la convinzione che le tasse debbano sempre e comunque essere pagate. Quando, però, si è costretti, dopo aver tagliato su tutto (sabati in comitiva perché l’uscita in gruppo costa troppo, acquisto degli agognati libri, partitella a calcetto settimanale “perché 5 euro sono pur sempre 5 euro”!) a scegliere se sopravvivere o pagare le tasse…fate un po’ Voi!

Proprio adesso ho finito di scrivere una lettera su una materia alquanto complessa che mi è costata 2 ore di ricerca. Ho chiesto 60 euro e me ne sono stati dati 30 da un tizio che, con la stessa somma datami, non ce l’avrebbe fatta manco a tagliarsi i capelli dal suo coiffeur dei personaggi da sabato sera

La dignità mi ruggisce nell’animo. Dovrei mandarlo a fanculo. Cazzo, la stima di me stesso m’impone di schiaffargliele in faccia, ‘ste sfaccimme di 30 euro.

Un pensiero estemporaneo mi attraversa il cervello: la pizza con la mia bella, che “avanza” ancora due regali, per onomastico e compleanno, e che già sa, dall’alto della sua sconfinata comprensione, che non riceverà mai.

“Vabbuò, ringrazio il dottore, e…accetto!”. A proposito, ho partecipato, io comunista allergico alla televisione, anche alle selezioni di “Affari Tuoi”….hai visto mai?

E dopo il fatal gesto dell’appropriazione di 30 in luogo di 60, un pezzo della mia dignità, l’ennesimo, mi rimprovererà per la prossima nottata insonne. Già, la dignità!

Che dignità può avere uno che è condannato per il titolo ad essere benestante, ma che fa 1 km in più a piedi per trovare ancora, in quel bar all’angolo, il caffè a 60 centesimi?

Lo so che sarò scomunicato da tutta la genia degli “Avvocati con la Cravatta”.

Ma non ho più nulla da perdere. Non un presente né, e mi auguro fortemente di sbagliare, un futuro.

Sono rimasto da solo, con un pianoforte scordato, un’auto da pagare, un libro pubblicato e uno da pubblicare.

Mi dimetto, mio malgrado,dalla categoria degli “Avvocati con la Cravatta” perché solo adesso, grazie agli affetti che mi ritrovo e al mio io più vero, mi accorgo che la cravatta, per davvero, non l’ho mai portata.  

P.S. Ho 37 anni appena compiuti ma…non Vi azzardate minimamente a considerami giovane. Dietro l’apparente lusinga della gioventù infatti, si cela l’alibi e/o la giustificazione (a seconda dei punti di vista) del nostro destino di fallimenti. Voglio essere quello che sono. Un uomo di 37 anni che appena dieci anni fa avrebbe avuto un lavoro a prescindere dalla Cravatta, una famiglia tutta sua e un pianoforte finalmente accordato. E, chissà, un libro una volta per tutte pubblicato dalla Feltrinelli.

 

 

 

martedì 11 febbraio 2014

Supequacc!


<Guarda, vedi qua! Non si capisce niente:munnezza a destra, munnezza a sinistra…viviamo nell’epoca della munnezza, non ci stanno santi! Tra un poco, accanto ai segnali stradali, dovranno mettere i segnali della spazzatura:obbligo di munnezza a destra, divieto di sosta per la munnezza…>

<Al nord, è tutto un’altra cosa, caro Giacchino. Quando sono stato a Milano, addirittura ho visto le guardie che facevano la multa a quelli che buttavano le carte per terra.>

<Eh, ma voi non sapete niente! Ieri sera, al primo canale…a quel programma dove ci stanno il padre e pure il figlio…>

<…e lo Spirito santo, mastro Giuà! Si chiama Supequacc!>

<Eh, proprio quello lì! In tutti i modi, facevano vedere che a Brescia hanno costruito una specie di inceneritore per la munnezza, come ce l’abbiamo pure noi qua, dalle nostre parti. Però, mentre da noi puzzano e buttano fuori aria sporca e fetente, lì invece, al Nord, addirittura ( non so come fanno! ) ci riscaldano l’acqua delle case e pure gli appartamenti! Eh, eh,eh…date retta a me, che ho fatto la campagna di Russia; i nordisti sono come gli ebrei, c’hanno la mente fina!>

<Avete capito proprio bene, mastro Giua’! Eppoi si lamentano di Bossi, della Lega….sapete che vi dico? Secondo me quello ha ragione…loro sono più cristiani di noi, non ci sta niente da fare!>

<Per me, ci vorrebbe Mussolini…tu sporchi, fai la munnezza? Olio di ricino, e così t’impari!>

<Bravo, don Peppino, avete detto proprio bene!>

Don Peppino ritira la pensione. Esce ciondolante dall’ufficio postale. Si mette una caramella rigorosamente all’anice in bocca.

Naturalmente, butta la carta per terra.