venerdì 27 giugno 2014

Melodramma italiano


Il sipario si alza promettente.
La loggia, il loggione, le gallerie, così come i salotti, le piazze, i bar, straripano di spettatori ansimanti per l'emozione; ma pure, non risulta difficile crederlo, per i quaranta gradi all'ombra impreziositi da una umidità da Duello al sole.
Mezzogiorno ( o giù di lì ) di fuoco!
Qui, a Natal ( ironia della sorte! ), l'unica neve che cade, è quella filigranata degli sponsor che impongono di giocare alle tredici perché il fuso, l'incasellamento con le altre gare, gli italiani che si lamentano ( lo dice pure Pif nello, lupus in fabula, spot della Telecom ) delle nottate in bianco.
Sulla scena, ventidue Argonauti alla ricerca spasmodica della Coppa d'Oro. Undici da un lato, undici dall'altro, in perenna e sanguinosa competizione tra di loro.
L'impresa, come da copione, è una di quelle capaci di far tremare le vene ai polsi o gli incisivi nel colletto dentale.
A dirigere il tutto, Lui: il possente Drago immortale, dalle mille spire inchiavardate in un pantaloncino da direttore di gara. Il suo compito è quello di far la guardia alla Coppa d'Oro, deciso a consegnarla in dote solo alla compagine che saprà irretirlo meglio con i suoi incantesimi.
Poco male: noi, nelle nostre fila, abbiamo la Medea Barbuta e, se non bastasse, la Medea Nera, pronte, entrambe, ad ammaliare i nemici e la bestiaccia e a far perdere loro la bisboccia ( chiedo venia, troppo accattivante era la assonanza! ).
Nel canovaccio della storia, però, si inseriscono le variabili indipendenti che nessuna magarìa può mai prevedere.
E così, nell'ordine, ci imbattiamo nella Medea Nera che, fedele alla sua natura che pure aveva promesso di cambiare (almeno per l'occasione), scambia le formule magiche e, anziché far appisolare il Drago, percuote il cartellone pubblicitario che soffriva per un bernoccolo proprio al centro, riportandolo all'antica piattezza.
Poi vi è l'eroe delle fila avverse, anch'esso mago sopraffino, che non riesce a non mordere il freno della sua esuberanza fattucchiera parcheggiata, inavvertitamente, sulle spalle di un nemico che gira in tondo a mostrare orgoglioso il dono dell'avversario.
E ancora il Drago che, a seguito di una congiuntivite monoculare, piglia fischi per fiaschi e guarda ( male, oh quanto male! ) quasi esclusivamente nella nostra parte di campo.
Infine, e come se non bastasse, un avversario che arriva, lancia in testa, per primo a ghermire la Coppa.
Nel nostro campo di battaglia, pianto e stridor di denti.
Colpa del monocolo del Drago, del freno non morso (eppure morso!), del mago esuberante, dell'ingarbugliamento incantesimale della Medea Nera, del partente lancia in testa, e di mille altri annessi e connessi.
Peccato che i nostri, per quella sfida, miravano alla lucentezza dell'oro che in quanto luce, si sa, non fa scorgerne la fonte.
Gli altri, invece, avvezzi alla concretezza, non si lasciano abbagliare la vista e tirano dritto verso la Coppa che, almeno per questa sfida, fanno inevitabilmente propria.
Oh, les italiens!

 

sabato 21 giugno 2014

Giovane? E io metto mano alla pistola


Nell'antica Roma, la vita media era appena di 18 anni; nella Francia del '700, di soli 30.
Oggidì, grazie all'enorme sviluppo della medicina, della scienza, della tecnica, e di una serie molto corposa dei saperi più disparati, siamo arrivati ad un'aspettativa di vita di circa 80 anni.
Sicuramente un bel traguardo, non c'è che dire; eppure, a ben vedere, non sufficientemente "alto" per giustificare la perniciosa abitudine che ha ormai minato dalle fondamenta il funzionamento del nostro orologio biologico (la bussola va impazzita all'avventura): estendere, allargare fino all'inverosimile che non può, per ciò stesso, non sconfinare nel ridicolo, la fascia dell'età "giovane". 
Non molto tempo fa, le "ere anagrafiche" erano all'incirca le seguenti: fino a 10 anni, la fanciullezza; da 10 a 16 anni, si parlava di "ragazzi"; dai 16 e fino, al massimo, ai 20 anni, di adolescenza. Dopodiché, c'era poco da fare: si entrava a pieno titolo nel mondo degli adulti.
Seguendo questo canovaccio, a 30 anni si sarebbero dovuti avere un lavoro, una moglie e dei figli.
Ed infatti, la stragrande maggioranza delle persone di quell'età, possedevano proprio tutto ciò. Anche per questo, probabilmente, a nessuno, se non per celia, sarebbe venuto mai in mente di considerare "ragazzo" un trentenne.
Oggi, invece, c'è stata la rivoluzione copernicana che ha piazzato, al centro della nostra vita, il sole dell'eterna gioventù.
Certo, la precarietà, il tempo sempre maggiore trascorso sui libri, e una serie di altri cento motivi potrebbero spiegare il fenomeno. Non del tutto, però.
Per capire appieno questa deleteria tendenza, difatti, bisogna guardare tra le pieghe della nostra società
E' qui, infatti, che si annida l'inganno, la grande operazione mistificatrice del nostro tempo.
Da piccolo ricordo che la maestra, sul pullman della gita scolastica, mi si fece vicino e m'implorò, a me che ero il più "saggio" di tutti, di contribuire a tenere buoni i miei compagni.
Quando mi sentii definire saggio, quasi mi venne da piangere.
E certo, perché per la mia mente di allora, il saggio era per forza di cose un vegliardo con la barba lunga e i denti gialli che si metteva in riva al fiume a pensare alla morte, armato dell'immancabile bastone nodoso. 
Ecco, la cosa che più mi rendeva ripugnante quell'accostamento, era proprio la vecchiaia. Lo stato, cioè, che più rifugge l'uomo di ogni tempo. E del tempo attuale, più che mai.
Ma perché ho parlato d'inganno e di operazione di mistificazione? E' presto detto.
Il deus ex machina della nostra società è il mercato.
Per potersi alimentare, questo Minotauro mefistofelico, ha bisogno di convincerci della nostra giovinezza, anche a dispetto degli anni che nel frattempo esigerebbero una qualifica diversa. Ed ecco che necessariamente giovane diventa bello, produttivo, funzionale. Già, proprio funzionale è l'aggettivo giusto.
Un tempo si produceva un frigorifero senza pensare alla morte industriale dello stesso, anzi, lo si fabbricava proprio perché lo si voleva pressoché eterno.
Comprate adesso un qualsiasi elettrodomestico, e vedete un po' quanto vi dura. Nella migliore delle ipotesi, una decina d'anni.
Ma vi è di più. La gioventù sbandierata ai quattro venti anche a sprezzo del ridicolo, ha un'altra funzione di primaria importanza: quella di farci sentire continuamente disponibili.
Il giovane, difatti, può aspettare, può pretendere di meno, può accettare compromessi. In una parola, il giovane può e si deve accontentare di ciò che passa il (misero) convento. In altri termini, del transeunte.
E noi? Beh, noi che siamo felicissimi del fatto che ci hanno portato alla fonte dell'eterna giovinezza, beviamo estasiati, in attesa di diventare pretenziosi e di reclamare diritti quando raggiungeremo la maturità. E, infatti, che fretta c'è? Abbiamo appena cinquant'anni!
Per questo, armato dello specchio della mia vera età finalmente liberato dalle paturnie mistificatrici dell'ormai fu (mio) Dorian Gray, ti avverto, amico caro: "Chiamami ancora giovane, e io metto mano alla pistola. Senza pietà alcuna. Lo giuro"

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lunedì 16 giugno 2014

La logica del motorino


Sono appena arrivato all'Aci per la visura della targa di un'automobile. Mi dirigo alla dispensatrice d'attesa e mi viene assegnato il numero sette; per la precisione, A7.
Alzo lo sguardo al display piantato come una spada di Damocle sulla testa del nuovo, baffuto impiegato, e leggo A1.
Un minuto. Cinque minuti.
Tre o quattro loschi figuri, con aria cospirativa, fanno capannello davanti allo sportello incriminato.
Presumo un rumore lontano. Adesso riesco pure ad avvertire lo scatarrare inconfondibile della marmitta polini.
Prima di vedermelo tagliare la strada ancora una volta, impotente e fesso, mi alzo e scopro la magagna: quello che mi precede, con la consueta faccia di bronzo tipica di chi è avvezzo a tali pratiche, ha il numero A9.
Lo guardo a tal punto male che pure l'impiegato si sente in dovere di chiedermi, sia pure imparpagliato dalla coscienza sporca, spiegazione di cotanta taliata nivura.
<C'è che io ho il numero A7 e la perso...il tizio - "bravo, altro che persona!" - qui presente, -"girati e ti sputo in faccia, te lo giuro"-  si sta incontrovertibilmente intrufolando.>
Lo sportellista capisce l'antifona e monopolizza la scena per evitare che l'usurpatore dica o faccia qualcosa che mi autorizzi a saltarlo addosso.
Si piglia il mio numero e ristabilisce un minimo di giustizia.
Esco e mi sento parzialmente soddisfatto per avere contrastato, ancora una volta, la "logica del motorino" di cui già subodoravo il puzzo luciferino non appena mi sono guardato attorno lì, nell'ufficio.
Di che si tratta?
Una cosa comune e reale che si può tranquillamente dotare del potere suggestivo della metafora.
Chi di voi, in estate, alla guida dell'auto, non si è visto tagliare la strada dai diabolici motorini? Magari tu ti trovi in colonna di ritorno dal mare, sudante e bestemmiante come un termosifone che impara a declinare i santi del calendario, e ti vedi tagliare la strada dai "mezzi" invadenti, puzzolenti, che a momenti, se non hai i riflessi pronti, ti si portano via pure un braccio.
Ecco, questa è la "logica del motorino" che, per potersi concretizzare nelle fattezze della metafora, ha bisogno di due elementi:1) il rispetto delle regole (dell'automobilista); l'esigenza del motociclista (messa in pratica) di "sorpassare", "imboccare la scorciatoia", "superare con la manovra spericolata" chi verrebbe prima di te o avrebbe diritto più di te a una cosa.
Insomma, la contrapposizione è tra la regola e l'arbitrio, il rispetto e la furbizia, il merito e la raccomandazione.
Ora, per concludere, si sa che i motorini e le sue logiche sono presenti quasi esclusivamente in estate e in primavera. Molto di meno, in autunno. Per nulla (quasi) in inverno
Ebbene, si potrebbe confidare nel legittimo alternarsi delle stagioni.
Oh! Bimbo semplice che fui, dal cuore in mano e dalla fronte alta! 
Il guaio nostro, è che ci troviamo in una estate che non ci pensa minimamente, perché foraggiata fin troppo bene, a lasciare il passo all'inverno. 
Mala tempora currunt!





lunedì 9 giugno 2014

A una processione

Visto dall’alto, l’argento sfavillante della statua di San Matteo sembra un rostro finemente decorato di una nave antica, con la poppa già inghiottita da onde gigantesche di folla in tripudio.
In primissimo piano, subito sotto la prua schiumante calca festante, vi è la classe dirigente ammantata di consenso comunque conquistato. 
Tra solerti benedizioni e sorrisi dispensati a iosa, l’alto prelato serba ancora in bocca il sapore del frutto proibito di Karim. “Sia ringraziato Dio per cotanta goduria del corpo e dello spirito. E poi per le sue labbra, capaci d’elevare l’anima fino alle soglie del Paradiso. Peccato? E perché mai? Le sue cosce, il culo da puledra insaziabile e ancora le zizze sode sono nient’altro che la giusta ricompensa per averla tolta dal marciapiede. Date e vi sarà dato, no?
“Padre, Figlio e… - “guarda chi ci sta, ’sto cornuto del sindaco! Eccolo qui, sorridente come un mongoloide. Ha avuto, ‘sto comunista del cazzo, il coraggio di portare i porci musulmani ad abbeverarsi alle fontane della Curia” - …Spirito Santo.”
“San Matteo mio, lo vuoi fare un vero miracolo invece di startene qui come un…con rispetto parlando… allocco? Ebbene, non appena varchi la soglia del comando della Guardia di Finanza… pure tu eh, che madonna di protetti ti sei scelto!... ebbene, stavo dicendo, appena entri, fammi ‘sta cazzo di cortesia, fai crollare non solo questo ma, contemporaneamente, tutti i comandi in ogni parte d’Italia. ‘Sti bastardi, – saluta calorosamente con la sua mano tozza e corta un manipolo di elettori – per un regalo di cinquantamila euro mi stanno controllando anche quante chiavate mi faccio con quell’altra zoccola di Caterina che continua a spillarmi soldi.”
Munnezza, questo siete! – ciò pensa il Presidente, mentre predica calma ad una selva inferocita di disoccupati che approfittano dei riflettori accesi sulla processione per chiedere un posto di lavoro – Mentre io sgobbavo sui libri, voi che cazzo facevate?Andavate ad ubriacarvi e a mangiare a sbafo nei ristoranti, eh? E quando io passavo i sabato sera a studiare per qualche esame, mi dite voi quante sciammereche vi facevate con quelle puttanelle rimorchiate nei locali? E ancora, voi a fine mese, ciucci di fatica, introiettavate guadagni mentre io invece… sì va bene, mio padre… ma è la stessa cosa, non c’è differenza… dovevo sborsare un bel gruzzoletto per professori sempre più sfondati in corpo.”
A metà processione, la prua della nave è praticamente inghiottita dai marosi. Solo l’erma del povero San Matteo la si vede annaspare disperata, alla ricerca di una sempre più faticosa spiritualità. Al suo capezzale, in posizione defilata, avanza Costantin, il muratore albanese. 
Si porta appresso giornate lavorative di dodici ore alle dipendenze del capofila della processione; una paga di seicento euro al mese; la qualifica di clandestino; quattro fogli di via; cinque figli e una moglie da sfamare. 
Dettaglio del tutto trascurabile: capace, nonostante tutto, di incommensurabili slanci d’amore. 

venerdì 30 maggio 2014

Breve ballata del capitalismo


Piero e Giorgia, sposati poco più che maggiorenni, vanno a vivere in una casupola al limite della abitabilità.
Piero si arrangia raccattando ferro vecchio e vendendolo alle varie fonderie.
Giorgia, scappata da un padre padrone, si dà anima e corpo a quel figlio nato troppo presto per lasciarla veramente libera di scegliere.
Entrambi sognano un bagno finalmente all'interno della casa.
Novembre 1980: la terra trema. Bestemmia rovine, fagocita vite.
Piero e Giorgia ottengono un container dove passeranno otto anni della loro vita.
Il bagno, sia pur piccolo, è all'interno delle pareti di lamiera.
Piero e Giorgia sognano una casa dalle pareti in muratura.
Nell'attesa, mettono al mondo un secondo figlio.
Giugno 1988: finalmente, la casa popolare. Due bagni e un balconcino lilla.
Piero viene assunto da un lontano parente che ha una grande impresa edile.
Piero e Giorgia sognano almeno una casa, un'altra, dove poter sistemare uno dei due figli.
L'unico figlio del datore di lavoro di Piero, muore in un incidente stradale. L'imprenditore decide, allora, di far entrare nella società, al posto dello sfortunato rampollo, proprio Piero.
Il primo figlio di Giorgia e Piero sogna il master in Inghilterra. Arriva la terza casa, per il secondo figlio.
Il secondo figlio sogna il pianoforte. Arriva il terreno, pronto a raccogliere le sicure passioni "senili" di Piero e Giorgia, ma anche quelle ancora acerbe di Roberto e Massimo.
Piero e Giorgia sognano un futuro di case, figli, nipoti, tutti disseminati lungo lo stesso fazzoletto di terreno.
Roberto vince un concorso a mille chilometri di distanza e, dopo una delusione d'amore, decide di prendere i voti.
Massimo si innamora di Ugo e scappa lontano per vivere liberamente la sua passione. 
Piero e Giorgia, circondati da tre case, un terreno, non sognano più niente
Roberto, dalla cella del monastero, sogna il master e Londra. Massimo, invece, di essere portato via dalla cassa armonica del pianoforte che non ha più voglia e pazienza di imparare a suonare.


martedì 13 maggio 2014

La diversità di Chantelle

Ciò che fa paura non è la mostruosità, ma la diversità.

La prima condizione, infatti, è vissuta e metabolizzata come qualcosa di “altro da noi“; essenza spaventevole fino al parossismo cioè, ma pur sempre appartenente a una natura diversa.

Quando, al contrario, ci imbattiamo nel differente, nell’extra-ordinario, allora alla paura si aggiunge un altro sentimento: l’angoscia, il sentirsi disarmato davanti all’eccezionalità che s’incardina pur sempre nella normalità della condizione umana.

Ed è sulla scorta di questa riflessione che c’inquieta, ad esempio, di più un uomo con gli occhi di gatto che un mostro che rispetta tutti i canoni della mostruosità. E ciò perché la diversità s’innesta sulla nostra identica matrice di sangue e carne; appartiene al medesimo genus nel quale trova legittimazione e cittadinanza la nostra sub-stantia.

Si è diversi, insomma, perché si ha un tot di differente (ed è proprio questo particolare a farci provare paura perché, in quanto piccola cosa, potrebbe riguardare anche noi) dal substrato comune.

Ciò premesso, veniamo all’attualità.

Chantelle Harlow. Una bellissima ragazza affetta da una forma aggressiva di vitiligine (malattia che provoca chiazze bianche sulla pelle a causa dell’assenza di pigmentazione).

Sia pure esclusivamente estetica, siffatta patologia ha quasi sempre importanti ripercussioni psicologiche. Esagerato? Provateci voi, magari ragazzine, a convivere con queste dannate macchie bianche che non vi premettono di indossare la minigonna tanto agognata, o di farvi vedere in spiaggia.

Vi scoprireste, così, nel giro di pochissimo tempo, anche voi a maledire l’abbronzatura che accentua ancora di più il deficit cromatico; a sentirvi fuori luogo per la vostra diversità “da capigliatura di Crudelia Demon“.

Ebbene, cosa mai ti combina Chantelle? Non solo, all’età di 19 anni, riesce a convivere con la sua patologia senza chiudersi in sé stessa (che, credetemi, è già una gran prova di forza d’animo), ma addirittura la indossa per continuare a inseguire il suo sogno: fare la modella.

Eresia! Proprio nel mondo delle sfilate, dove la perfezione è il requisito minimo per avvicinarvisi ella, forte della volontà sovrumana (soprattutto in considerazione della giovanissima età) che la anima e della granitica convinzione della sua peculiarità (Dio mi ha voluto originale!), riesce a imporsi nonostante (e speriamo non grazie) ai suoi melanociti capricciosi.

E come spesso succede quando il gesto viene compiuto da un personaggio famoso, vi è da giurarci che, grazie alla dolce Chantelle, qualche altra persona affetta dalla pur diffusa vitiligine, riuscirà a uscire dal suo guscio e a mostrarsi al mondo, una volta per tutte fiera della sua originalità; così come, d’altra parte, ha fatto già il virtuosissimo maestro Peppiniello Scapece che ha metabolizzato (era ora!) la sua diversità fino a esibirla come uno scalpo. 

Il mirabile pianista, infatti, era solito cospargersi le dita con pesante fondotinta coprente, non potendo accettare la commistione di colori sui suoi “strumenti del mestiere”. Poi, dopo aver visto le foto della giovane modella, ha preso il coraggio a quattro mani e si è liberato delle creme e cremine varie che appesantivano la sua musica. Finalmente, quindi, ha capito che anche il tasto nero del diesis e/o del bemolle s’innesta pur sempre sul bianco delle note esenti da alterazioni del suo pianoforte.

Grazie, Chantelle, anche e soprattutto per chi, sebbene più famoso di te, non ha avuto la tua stessa forza: pur di non apparire “effetto dalmata” infatti, il grandissimo (per altri versi) Michael Jackson si è prima spalmato il corpo di creme coloranti e, di poi, come sappiamo, sottoposto a numerosi, mostruosi (questi sì) interventi di sbiancamento. Il tutto, ovviamente, per non trovare il coraggio di erigere la propria diversità a connotazione del proprio essere.

martedì 6 maggio 2014

Nel pieno della "Confederazione delle anime"


Udienza di lavoro.
Eccolo qui: avvocato Giampaolo Quaglia.
Mi si avvicina con il suo ghigno stomachevole che ancora si ostina a credere piacione.
La mano nei capelli (eh, fammele vedere 'ste dita, sì, aprile bene, così che tutti i colleghi possano apprezzare la nuance "topo da fogna" che assumono dopo aver sguazzato nella tintura), l'occhio a "lacryma Christi", la bocca "a culo di gaddrina" (Cazzo, si chiama pur sempre quaglia!) come il Pippo Aragonese di Camilleri.
Fa cenno alla presenza del mio collega, e sfrocolea:<Ah, egregio Avvocato, vedo che, memore del nostro precedente incontro, ti sei portato i rinforzi!>
Si gira verso il collaboratore più viscido dell' Uriah Heep di Dickens, e si fa una risata in faccia al mio grugno infastidito.
 
<Allora, avvocato Quaglia, - chiede il giudice in ambasce perché non sa decidersi se è meglio optare per i gamberi o per il pollo paesano di comare Adelina - cosa eccepisce, lei?>
<Giudice, io penso che prima di redigere un ricorso, occorrerebbe partire dai fondamentali. Per esempio, in questo caso, i conteggi sono sballati. Senza contare il fatto che non si capisce l'inquadramento lavorativo del ricorrente. Insomma, occorrerebbe precisare, essere più chiari perché...>
<Giudice, - riesco a sfruttare la momentanea soddisfazione nata dall'aver, frattanto, definitivamente preferito i gamberi al pollo - solo una domanda: - e mi rivolgo, con gli occhi di brace, alla quaglia spaparanzata sulla mia graticola immaginifica - lei è un consulente del lavoro? No? E allora come fa a pontificare sui conteggi?>
<Ma collega, io non capisco il senso della tua domanda anche...>
<Prego, io le ho dato del lei e preferirei che lei facesse altrettanto. Tornando al motivo della mia domanda, lei potrebbe dire che i conteggi sono, a suo discutibilissimo giudizio (anche estetico, guarda la zoccola che ti sei messo in testa!), inesatti ma non sballati.>
<Ahe, Avvocato, su, - ritorno al presente del giudice - mi sembra una questione di lana caprina.>
<E no, illustre giudicante. L'italiano è importante, direbbe Nanni Moretti. Così come, d'altronde, il latino.>
Il Quaglia accentua l'ampiezza della sua boccuccia:<E che c'entra il latino, mo?>
<Penso che c'entri eccome se mi trovo costretto - alzo la coppa del mondo come Cannavaro (Campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo!!!) - a far vedere al giudice - gli porgo l'atto - che, contrariamente a quanto da lei fatto, il brocardo richiamato si scriverebbe ne bis in idem e non né bis in idem.>
 
Usciamo dall'aula.
<Sei stato grande! - si complimenta Giancarmine - Cazzo, però, e dove l'hai tenuta nascosta, per tutti questi anni, 'sta cazzimma?>
<Il fatto è che sto in piena "Confederazione delle anime".>
<Confe...che?>
<In Sostiene Pereira, l'ottimo Tabucchi parla, per l'appunto, di questa teoria mutuata dai medicins-philosophes. Secondo i suoi dettami, la personalità è data dalla confederazione delle varie anime che si pone sotto il controllo di un io egemone...sì, un ego  mammasantissima, per capirci. Nel caso in cui sorga un altro io, più forte e più potente, quest'ultimo fa le scarpe all'io egemone precedente, prendendone il posto e passando, quindi, a dirigere la coorte delle anime. Almeno fino a quando non viene spodestato ancora da un altro io, per attacco diretto o per erosione. In buona sostanza, contrariamente a quanto abbiamo appreso al catechismo, non esiste una sola anima ma più anime che volta per volta prendono il sopravvento e decidono la nostra personalità.>
<E quindi vuoi dirmi che l'anima paciosa-accomodante del mio amico di una vita si è fatta mettere nel sacco da questa insofferente e battagliera?>
<Già.>
<Si tratta solo di capire - aggiunge dubbioso - se la leadership è stata conquistata per attacco diretto o per erosione.>
<Per attacco diretto, - affermo senza titubanza alcuna dopo aver intravisto per l'ennesima volta il ciuffo tinto del Quaglia - per attacco diretto, amico caro.>