domenica 27 luglio 2014

La cultura del sospetto


Un ristorantino in riva al mare da fare impallidire la casa a Marinella di Montalbano.
E' la prima volta che ci vengo.
Ci sono arrivato come piace a me: sbagliando strada, confondendo una traversa con un'altra, confidando sul punto di riferimento a destra che si trova, invece, irrimediabilmente dalla parte opposta.
Tant'è, il posto è assai piacevole e per il momento mi basta.
Ordino uno spaghetto a vongole.
Un cameriere segaligno e severo, dopo aver trafficato per un po' in cucina tra ordinazioni varie e improperi coloriti dello chef, porta sul mio tavolo affamato la pietanza.
Su un trespolo alquanto distante da me, un televisore acceso che si affanna a trasmettere immagini.
Alla mia destra, il mare. Alla mia sinistra, un casermone di cemento e ferro per un immaginifico popolo di vacanzieri dozzinali.
Mentre annuso il piatto, come ancora mi ostino a fare, alla ricerca di una genuinità che dovrebbe pur scaturire da quello che mangio, l'occhio cade sull'odiato apparecchio.
Le immagini che irradia la televisione sono quelle di Vincenzo Nibali che domina i Pirenei.
Dopo aver buttato giù una forchettata di spaghetti, mi scopro a sorridere amaramente.
L'ultima volta ci ero cascato con Pantanì, come lo chiamavano i francesi.
Io a trepidare, a soffrire per il Pirata, e poi venire a conoscenza della brutta faccenda del doping: una delusione che mi fa ancora male al solo pensarci.
E ora un altro italiano che trionfa al Tour. Già, e chi mi dice a me che anche 'sto ragazzo dalla faccia pulita, dal sorriso genuino...genuino un paio di balle! 'ste vongole sembrano di plastica tanto sono gommose. E poi, troppo olio. Carluccio, il mio amico chef, mi ha sempre invitato a diffidare da chi fa uso eccessivo di condimento perché "al novantanovevirgolanovepercentoperiodico, lo fa per dare un tono all'altrimenti anonimo, se non di pessima qualità, piatto."
Che poi, pure l'olio! Proprio ieri i Nas hanno smascherato una mega frode alimentare di oli riciclati  venduti come extravergine.
Alzo la testa dal piatto. Mi è passato l'appetito.
Dietro di me si sono sedute due persone di cui una, per sua espressa ammissione, è il costruttore del casermone di cui sopra. Mi volto a guardarlo: chissà quante tangenti avrà pagato per aggiudicarsi l'appalto!
Mi sta montando la rabbia. Una rabbia sorda, apparentemente senza motivo.
Entra un ragazzo sordomuto. Mi guarda anche con una certa dignità prima di poggiare sul tavolo l'oggettino cinese e il cartellino giallo che attesta il suo handicap.
Mi metto le mani nella tasca posteriore dei jeans. Estraggo il portafoglio...un momento! Lo rimetto di nuovo dentro e decido di guardarmi attorno.
Non si sa mai, tra camerieri troppo secchi per infondere fiducia e imprenditori troppo ricchi per non far sorgere qualche sospetto.
Decido, dopo un'ultima perlustrazione visiva, che l'operazione può essere fatta abbastanza tranquillamente. Apro il portafogli e prendo due euro. Li soppeso in attesa del ragazzo che sta iniziando le operazioni di ritiro.
Ma che fa, sorride? Ma chi ha un handicap non deve necessariamente essere triste?
Mi riguardo intorno. Ripongo il portafogli nella tasca.
Quando finalmente il truffatore sta per giungere al mio tavolo, mi alzo e vado in bagno.
La rabbia, ora, mi provoca un violentissimo mal di testa.
Mi guardo allo specchio, torvo.
Il mal di testa potrebbe anche passarmi (adesso lo so) se acconsentissi a dirmi quello che penso da una vita.
Esco fuori dal bagno. Pago il conto. Entro in macchina e metto in moto: preferisco farmi scoppiare la testa piuttosto che ammettere che anch'io, come tutti, sono figlio della cultura del sospetto che ha generato il mio (anche il mio!) dio: Sua Maestà, il Denaro! 


lunedì 21 luglio 2014

Gambe, stantuffi inesauribili


Un mattina come tante, troppe, nell'ultimo periodo. La noia, quel senso di occasione sprecata ancora una volta, che si sveglia appena un minuto prima della tua stanchezza.
Il solito sbuffare che fischietta il motivo di un ulteriore giorno perso.
Qualcuno, al posto mio, affiderebbe lo spleen di questa mattina a qualche divinità affinché possa squarciarne il velo. Io, semplicemente, mi metto in borsa l'abusato maalox.
Una curva, un manifesto di morte che svogliatamente riconosco diverso. Mi fermo.
Lo stronzo dietro di me mi manda a fanculo e mi sorpassa. Io capisco che teoricamente sarei capace anche di farlo a pezzetti, e il pensiero (orrore!) delle sue membra disseminate per casa, mi fa affiorare un ghigno truce sulle labbra.
Faccio retromarcia. Quel nome e cognome rivestito di caratteri indifferenti appena un attimo prima mi aggredisce alla gola. Il respiro si smorza fino a dare fondo alla riserva di ossigeno.
Mi aggrappo all'omonimia. E nel ritornare in vita, la morte è più cruda: 55 anni. Non avevo mai riflettuto su quanto l'età possa essere "identificativa".
Rimango fermo lì, davanti al palo di cemento su cui si stende la carta gelatinosa troppo piccola per contenere i ricordi che mi legano a lui.
La settimana scorsa l'ho visto, a questo punto, per l'ultima volta.
Da lontano, malgrado avesse il casco protettivo e gli occhiali, l'ho riconosciuto. E come fare a non riconoscere chi è stata la causa del mio abbandono dell'attività agonistica? Troppo forte con quelle gambe che di umano avevano solo la conformazione. Troppo inarrivabile sulle vette più impervie dei sentieri d'alta montagna.
Prima di dargliela definitivamente vinta, comprai una bici ultraleggera. Consapevole di un gap incolmabile a parità di condizione, provai la carta del disperato.
Sulla salita, dopo avermi concesso un leggero vantaggio, diede energia alle gambe, stantuffi inesauribili alimentati da un discendente di Efesto in persona. Non ci fu più storia. Il solito sorriso che si faceva beffe dello sforzo fisico, ed era di nuovo lì, sul cocuzzolo della montagna, a certificare la sua indiscutibile superiorità.
So che era caduto circa un anno fa dalla bici e che si era fatto davvero male. Era stato fermo cinque mesi. A causa di questo riposo forzato (questa era la sua versione a cui solo io potevo credere senza batter ciglio), aveva avuto un ictus. Il suo raffinatissimo motore, insomma, era andato in panne; e non solo quello. Si era separato dalla moglie. Aveva perso il lavoro. Gli era morta la madre, l'unica persona che davvero amava quell'essere (Umano, troppo umano!) impastato di sudore e gambe portate allo spasmo.
Alcuni amici, anche su consiglio del medico, lo avevano esortato ad abbandonare la bici. Io, conoscendolo, mi guardai bene dal proporgli un'eresia del genere.
La settimana scorsa, a detta di Ugo, il Dr. Foscari gli ha fatto la domanda che avrebbe voluto salvargli la vita:"Ma che fai, vuoi morire sulla bicicletta?"
Chi era lì, mi hanno raccontato, ha visto una luce improvvisamente esplosa nei suoi occhi.
Alle sedici del pomeriggio del venti luglio di quest'anno, l'hanno trovato morto in groppa ad una salita.
Dicono che il suo viso era contratto in una smorfia strana, quasi un sorriso.
Le sue mani, tenaci nella risposta postuma al medico curante, non ne volevano sapere di staccarsi dal manubrio della sua malandata Legnano.

mercoledì 16 luglio 2014

Come un rivoluzionario in un collegio di seminaristi


Sto alla finestra e lo guardo rincasare dopo una giornata di duro lavoro, così sporco di calce da sembrare essersi messo d'impegno a non lasciare manco una fibra pulita della sua maglietta. A tal punto che Carmelina, sua moglie, lo sfotte accusandolo di insozzarsi apposta in modo così assorbente, per convincere la famiglia della sua completa dedizione al lavoro. E come sempre, immancabilmente dopo queste dolci accuse, a Luigi scappa da ridere mentre abbraccia Valentina e Luca.
Rientra  a casa. Si sentono le grida divertite dei bambini. Poi l'odore caldo delle patatine, fritte apposta per la ghiotta Valentina. Ancora l'acciottolio delle posate abbandonate ai lati del piatto.
Infine la luce riempie la finestra e il televisore traghetta verso il sonno l'intera ciurma familiare.
La domenica mattina, invece, li puoi incontrare, Luigi, Carmelina e i pargoli, in giro con le bici che furoreggiano per il Parco Mercatello.
Luigi sta lavorando davvero sodo, lo conferma pure Tonino il barbiere, qui all'angolo. Il fatto è che, finalmente, la banca gli ha concesso il mutuo e lui vuole quanto prima comprarsela, questa casetta col giardino. E giù sacrifici, piccole rinunce, pur di raggiungere lo scopo della vita. Che poi, a dirla tutta, tutto 'sto sacrificio non è che gli pesi eccessivamente. A lui, infatti, piace lavorare. Tanto che, nei dì di festa, si sente un po' spento, alquanto perso. Gli manca il "concreto operare", il sudore della fatica.
Non concepisce attività diversa dal faticare e dallo stare con i suoi cari.
Io, da parte mia,  sto qui, come sempre affascinato da questa rassicurante normalità di Luigi e della sua famiglia. Sì, ad esser sincero, dovrei parlare di banalità (almeno questo è il termine che, perfidamente, si affaccia per primo alla mia mente). E sia, banalità! Ma com'è assorbente, com'è rassicurante tutta questa rinfrancante banalità!
La mia intelligenza artata, da intellettuale (quello che fingo di essere e non sono!) schiavo dei mille bisogni del suo cerebro che si trova costretto ad alimentare e ad accudire, la capisce. La brama. La reputa il senso profondo della vita. Ciononostante, però, si sente incapace di sentirsene appagato in maniera totalizzante.
C'è quel libro, quello scritto lì sulla scrivania che attende di essere completato. E poi, l'esercizio di pianoforte per superare finalmente l'esame. Il viaggio tanto atteso che è venuta l'ora di intraprendere.
 
«Oh! Questa vita sterile, di sogno!
Meglio la vita ruvida concreta
del buon mercante inteso alla moneta,
meglio andare sferzati dal bisogno,
ma vivere di vita! Io mi vergogno,
sì, mi vergogno di essere poeta!».

E nonostante siffatta vergogna della mia condizione, malgrado l'inadeguatezza del rivoluzionario barricato in un collegio di seminaristi, amo, in una sorte di perversione masochista , la mia indole sferzata dall'inesauribile curiosità.
Sono ammaliato dallo spirto guerrier ch'entro mi rugge e che non la smette di darmi tregua. Allo stesso modo, sono convinto, in cui amava la sua condizione l'ottimo Gozzano.



mercoledì 9 luglio 2014

In morte della democrazia

 
La democrazia! Pure i politici in carica (!), ormai, conoscono l'etimologia di questo termine: governo del popolo, potere della maggioranza.
"È stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora".
E', questo, il commento del caustico Churchill che dall'alto della sua sagacia politica, ancora una volta, ha colto nel segno. Ebbene sì perché, sia pure tutti siamo in grado di denunciare i limiti di questa forma di governo, nessuno (e parliamo di insigni costituzionalisti, filosofi politici, storici) è stato capace di trovarne un'altra più "etica" e, perché no, maggiormente funzionante e/o più efficace nella selezione della classe dirigente.
L'unica cosa su cui tutti hanno convenuto e continuano a convenire, quindi, è l'esistenza di limiti che depotenziano la democrazia. Limiti, quest'ultimi, che diventano ancora più evidenti in epoche di decadenza culturale, morale, valoriale, in cui sguazzano i nostri rappresentanti che proprio noi, alla fine, eleggiamo.
In altri termini, una cosa è scegliere tra Berlinguer, Moro e Spinelli; tutt'altra, è scervellarsi su chi sia meno peggio tra Salvini, Alfano e Gasparri. Ma vi è di più: la decadenza di cui sopra, ovviamente, non risparmia nemmeno quel corpo elettorale che dovrebbe scegliere i suoi rappresentanti.
Eletti e elettori, quindi, accomunati da un identico destino di mediocrità. E, d'altra parte non si dice, assai opportunamente, che la classe dirigente è fedele specchio del corpo elettorale che l'ha votata? Certo, ma così, a ben vedere, il cortocircuito diventa inevitabile: Renzi al posto di Berlinguer e l'ex partigiano al posto del concorrente di Uomini e donne. Alea iacta est.
E l'uscita di sicurezza (c'è sempre una via di fuga!), il filo d'Arianna capace di farci uscire indenni dal labirinto, se proprio non ci si vuole cimentare nell'improbabile, al netto di esperimenti da Jurassic Park, riesumazione di Garibaldi, Che Guevara, Madre Teresa di Calcutta e via di questo passo? 
La butto lì: la soluzione, ancora una volta, potrebbe essere data da una forma di governo. Sia chiaro: niente esperimenti di ingegneria costituzionale che infiniti lutti addussero ai cittadini. Nossignore. Il rimedio potrebbe essere ricercato nel passato. Precisamente, nell'Antica Grecia.
Signori e signore...l'Aristocrazia ovvero il Governo dei Migliori!
Tadàààààààààààà.
Attenzione, però, Governo dei Migliori sì, ma con i dovuti correttivi. Nell'Antica Grecia, i "migliori", gli aristoi per l'appunto, erano i nobili per nascita e per censo. Oggidì, invece, non ci dovrebb'essere (e ci mancherebbe!) niente di tutto questo. L'essere migliore dovrebbe dipendere da alcuni parametri indefettibili. Quali? La drittura morale, la cultura, la capacità di governo testata, magari, anche sul campo. Si potrebbe, a tal fine, addirittura indire un concorso per titoli ed esami.
Solo quelli che fossero in possesso di queste virtù, comprovate e certificate, potrebbero varcare la soglia dei Palazzi del Potere.
E a chi spetterebbe il compito (da far tremare le vene ai polsi) di far parte della Commissione d'Esame? Personalità al di fuori di ogni sospetto. Sì, sì, i nomi li faccio, non mi sottraggo agli strali sempre venefici della critica: Umberto Eco, Gino Strada, il Papa (questo papa, ovviamente), il contadino che in qualche paese scordato dal mondo offre l'ultimo pezzo di pane a chi glielo chiede, etc..
Insomma, gente così, persone che per cultura, competenza, onestà possano contribuire a selezionare, nei limiti di una discrezionalità minima (si tratta pur sempre di un concorso che si basa soprattutto su titoli e requisiti), la futura, finalmente capace, classe dirigente del Paese.
E a quel punto, non ci resterebbe altro da fare che incrociare le dita.


 
 

giovedì 3 luglio 2014

Il footing "sgarrupato"


Come tutte le sere da un paio di settimane a questa parte, mi accingo a mordere il chilometro e mezzo scarso che depura il mio fegato ingrossato dalla routine quotidiana.
Eccomi qui, con le spalle ridicolizzate da una pettorina troppo gialla e il pantaloncino eccessivamente floscio per essere credibili.
Pronti, via. Il mio sguardo fiero, impettito, si cristallizza sui contorni delle colline morenti di sole. Ed è una ricerca delle magnifiche sorti e progressive che di sicuro staranno acquattate lì, ad una spanna dal cielo. In ogni caso, mi dico tronfio, alla mia portata.
Purtuttavia, però, abbasso lo sguardo ad altezza d'uomo e c'è un nugolo di alberi che mostrano le radici sconfitte dalla porzione di terreno comunque franato; un cane nero che vorrebbe darmi la corsa, come impone il codice deontologico di ogni cane che si trovi nella scia di un tizio che corre, ma che non c'è la fa a muoversi neanche di un millimetro. E come non notare poi, il pallone piatto che invece di assolvere alla gioiosa funzione rotatoria, se ne sta goffamente appiattito sul ciglio di un marciapiede?
M'impongo, per rifuggire a questa impropria sequela di immagini, di riappendere lo sguardo alle grucce delle colline e del loro cielo. Niente da fare: una coltre di oscurità annulla la prospettiva. Mio malgrado, allora, ritorno a guardarmi attorno. E vedo una strada troppo piena di buche per poter essere attraversata dai mezzi. Un bambino troppo grande per poter indossare la maglietta di Peppa Pig. Una moto troppo scassata per poter credere che qualcuno abbia l'ardire di salirvi sopra.
Purtroppo, anche il mio chilometro scarso, questa sera, non riesce ad entrare appieno nei miei muscoli anzitempo sfiniti.
Decido di tornarmene a casa.
Mi precipito sotto la doccia che ora è troppo calda, ora troppo fredda.
Mi asciugo con l'accappatoio eccessivamente inumidito dalle precedenti docce.
Distrattamente, do vita ad un canale televisivo, uno qualsiasi.
Un poeta d'amore-cuore-sudore-malore. Un politico della riforma costituzionale con la maggioranza semplice. Una distesa d'acqua cristallizzata in un mare di plastica.
D'istinto mi viene d'innalzare lo sguardo in su: l'ennesima macchia di umidità che scolora il mio stucco veneziano.
La mia casa è tutta sgarrupata,
i soffitti sgarrupati,
i muri sgarrupati,
il pavimento è tutto sgarrupato,
a volte mi sento sgarrupato anch'io.


venerdì 27 giugno 2014

Melodramma italiano


Il sipario si alza promettente.
La loggia, il loggione, le gallerie, così come i salotti, le piazze, i bar, straripano di spettatori ansimanti per l'emozione; ma pure, non risulta difficile crederlo, per i quaranta gradi all'ombra impreziositi da una umidità da Duello al sole.
Mezzogiorno ( o giù di lì ) di fuoco!
Qui, a Natal ( ironia della sorte! ), l'unica neve che cade, è quella filigranata degli sponsor che impongono di giocare alle tredici perché il fuso, l'incasellamento con le altre gare, gli italiani che si lamentano ( lo dice pure Pif nello, lupus in fabula, spot della Telecom ) delle nottate in bianco.
Sulla scena, ventidue Argonauti alla ricerca spasmodica della Coppa d'Oro. Undici da un lato, undici dall'altro, in perenna e sanguinosa competizione tra di loro.
L'impresa, come da copione, è una di quelle capaci di far tremare le vene ai polsi o gli incisivi nel colletto dentale.
A dirigere il tutto, Lui: il possente Drago immortale, dalle mille spire inchiavardate in un pantaloncino da direttore di gara. Il suo compito è quello di far la guardia alla Coppa d'Oro, deciso a consegnarla in dote solo alla compagine che saprà irretirlo meglio con i suoi incantesimi.
Poco male: noi, nelle nostre fila, abbiamo la Medea Barbuta e, se non bastasse, la Medea Nera, pronte, entrambe, ad ammaliare i nemici e la bestiaccia e a far perdere loro la bisboccia ( chiedo venia, troppo accattivante era la assonanza! ).
Nel canovaccio della storia, però, si inseriscono le variabili indipendenti che nessuna magarìa può mai prevedere.
E così, nell'ordine, ci imbattiamo nella Medea Nera che, fedele alla sua natura che pure aveva promesso di cambiare (almeno per l'occasione), scambia le formule magiche e, anziché far appisolare il Drago, percuote il cartellone pubblicitario che soffriva per un bernoccolo proprio al centro, riportandolo all'antica piattezza.
Poi vi è l'eroe delle fila avverse, anch'esso mago sopraffino, che non riesce a non mordere il freno della sua esuberanza fattucchiera parcheggiata, inavvertitamente, sulle spalle di un nemico che gira in tondo a mostrare orgoglioso il dono dell'avversario.
E ancora il Drago che, a seguito di una congiuntivite monoculare, piglia fischi per fiaschi e guarda ( male, oh quanto male! ) quasi esclusivamente nella nostra parte di campo.
Infine, e come se non bastasse, un avversario che arriva, lancia in testa, per primo a ghermire la Coppa.
Nel nostro campo di battaglia, pianto e stridor di denti.
Colpa del monocolo del Drago, del freno non morso (eppure morso!), del mago esuberante, dell'ingarbugliamento incantesimale della Medea Nera, del partente lancia in testa, e di mille altri annessi e connessi.
Peccato che i nostri, per quella sfida, miravano alla lucentezza dell'oro che in quanto luce, si sa, non fa scorgerne la fonte.
Gli altri, invece, avvezzi alla concretezza, non si lasciano abbagliare la vista e tirano dritto verso la Coppa che, almeno per questa sfida, fanno inevitabilmente propria.
Oh, les italiens!

 

sabato 21 giugno 2014

Giovane? E io metto mano alla pistola


Nell'antica Roma, la vita media era appena di 18 anni; nella Francia del '700, di soli 30.
Oggidì, grazie all'enorme sviluppo della medicina, della scienza, della tecnica, e di una serie molto corposa dei saperi più disparati, siamo arrivati ad un'aspettativa di vita di circa 80 anni.
Sicuramente un bel traguardo, non c'è che dire; eppure, a ben vedere, non sufficientemente "alto" per giustificare la perniciosa abitudine che ha ormai minato dalle fondamenta il funzionamento del nostro orologio biologico (la bussola va impazzita all'avventura): estendere, allargare fino all'inverosimile che non può, per ciò stesso, non sconfinare nel ridicolo, la fascia dell'età "giovane". 
Non molto tempo fa, le "ere anagrafiche" erano all'incirca le seguenti: fino a 10 anni, la fanciullezza; da 10 a 16 anni, si parlava di "ragazzi"; dai 16 e fino, al massimo, ai 20 anni, di adolescenza. Dopodiché, c'era poco da fare: si entrava a pieno titolo nel mondo degli adulti.
Seguendo questo canovaccio, a 30 anni si sarebbero dovuti avere un lavoro, una moglie e dei figli.
Ed infatti, la stragrande maggioranza delle persone di quell'età, possedevano proprio tutto ciò. Anche per questo, probabilmente, a nessuno, se non per celia, sarebbe venuto mai in mente di considerare "ragazzo" un trentenne.
Oggi, invece, c'è stata la rivoluzione copernicana che ha piazzato, al centro della nostra vita, il sole dell'eterna gioventù.
Certo, la precarietà, il tempo sempre maggiore trascorso sui libri, e una serie di altri cento motivi potrebbero spiegare il fenomeno. Non del tutto, però.
Per capire appieno questa deleteria tendenza, difatti, bisogna guardare tra le pieghe della nostra società
E' qui, infatti, che si annida l'inganno, la grande operazione mistificatrice del nostro tempo.
Da piccolo ricordo che la maestra, sul pullman della gita scolastica, mi si fece vicino e m'implorò, a me che ero il più "saggio" di tutti, di contribuire a tenere buoni i miei compagni.
Quando mi sentii definire saggio, quasi mi venne da piangere.
E certo, perché per la mia mente di allora, il saggio era per forza di cose un vegliardo con la barba lunga e i denti gialli che si metteva in riva al fiume a pensare alla morte, armato dell'immancabile bastone nodoso. 
Ecco, la cosa che più mi rendeva ripugnante quell'accostamento, era proprio la vecchiaia. Lo stato, cioè, che più rifugge l'uomo di ogni tempo. E del tempo attuale, più che mai.
Ma perché ho parlato d'inganno e di operazione di mistificazione? E' presto detto.
Il deus ex machina della nostra società è il mercato.
Per potersi alimentare, questo Minotauro mefistofelico, ha bisogno di convincerci della nostra giovinezza, anche a dispetto degli anni che nel frattempo esigerebbero una qualifica diversa. Ed ecco che necessariamente giovane diventa bello, produttivo, funzionale. Già, proprio funzionale è l'aggettivo giusto.
Un tempo si produceva un frigorifero senza pensare alla morte industriale dello stesso, anzi, lo si fabbricava proprio perché lo si voleva pressoché eterno.
Comprate adesso un qualsiasi elettrodomestico, e vedete un po' quanto vi dura. Nella migliore delle ipotesi, una decina d'anni.
Ma vi è di più. La gioventù sbandierata ai quattro venti anche a sprezzo del ridicolo, ha un'altra funzione di primaria importanza: quella di farci sentire continuamente disponibili.
Il giovane, difatti, può aspettare, può pretendere di meno, può accettare compromessi. In una parola, il giovane può e si deve accontentare di ciò che passa il (misero) convento. In altri termini, del transeunte.
E noi? Beh, noi che siamo felicissimi del fatto che ci hanno portato alla fonte dell'eterna giovinezza, beviamo estasiati, in attesa di diventare pretenziosi e di reclamare diritti quando raggiungeremo la maturità. E, infatti, che fretta c'è? Abbiamo appena cinquant'anni!
Per questo, armato dello specchio della mia vera età finalmente liberato dalle paturnie mistificatrici dell'ormai fu (mio) Dorian Gray, ti avverto, amico caro: "Chiamami ancora giovane, e io metto mano alla pistola. Senza pietà alcuna. Lo giuro"

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