giovedì 27 novembre 2014

“1984”, di George Orwell

1984 
di George Orwell. L’ho riletto a distanza di 14 anni perché “gli scritti più vicini alla perfezione, hanno questa proprietà, che ordinariamente alla seconda lettura piacciono più che alla prima.” (G. Leopardi).

1984:1948=futuro (immaginato da Orwell):presente (della stesura del libro).

Siamo all’indomani della Seconda Guerra Mondiale.

Una coltre radioattiva di sangue e disperazione pervade i gangli vitali della società.

Gli eventi storico-politici (totalitarismo, Olocausto nucleare) alimentano di un’inquietudine sorda ogni pensiero appena al di là del contingente. E il positivo delle antiche, confortanti utopie di Bacone, Moro, Campanella, viene seppellito nella proiezione del suo negativo: uno Stato, l’Oceania, in cui campeggia l’inquietante cartello, affisso in ogni luogo reale e immaginario, con la faccia dai baffi neri che ammonisce, minaccioso per pochissimi, rassicurante per la stragrande maggioranza: il Grande Fratello vi guarda.

Un Partito che si prefigge e persegue, con angosciante metodicità, la falsificazione e l’annientamento della memoria storica, la corruzione del linguaggio attraverso la Neolingua.

"Era sottinteso come, una volta che la Neolingua fosse stata definitivamente adottata (…), un pensiero eretico (e cioè un pensiero in contrasto con i principi del Socing) sarebbe stato letteralmente impensabile, per quanto almeno il pensiero dipende dalle parole con cui è suscettibile di essere espresso."

E non è il guardare fisico del controllo, del “fiato sul collo” che può venire, ad esempio, da un pedinamento, a dare contezza dell’accerchiamento. Nossignore. Nel Socing di “1984″ vi è il monitoraggio del teleschermo capace di “leggere” ogni cosa e ogni espressione, persino una sfumatura di cedimento nell’osservanza dei dogmi del Grande Fratello. E quindi, l’Oceania è ed è sempre stata in guerra con l’Eurasia. Dopo un arco di tempo più o meno lungo, l’Oceania è ed è sempre stata in guerra con l’Estasia.

Del mutamento, del cambio nelle sorti della guerra, nessuno è messo in condizione di accorgersene. E questo perché, al Ministero della Verità presso cui lavora Winston (il protagonista del romanzo), ci si impegna febbrilmente, fin nel momento stesso in cui avviene il presunto cambiamento, a neutralizzarlo: si “vaporizzano” i libri che tramandano l’eresia di una guerra dell’Oceania con l’Eurasia, si riscrivono gli articoli veri ora divenuti irrimediabilmente falsi, si ritoccano le fotografie che non riproducono più la sempiterna verità.

Il cambiamento esiste nel momento in cui c’è un qualcosa, un documento che possa attestarlo. Quando però, nel Socing del “1984” ogni fonte viene distrutta, ogni mutamento anestetizzato con la rimozione del precedente che lo certifica, si è in un presente senza fine che non può essere smentito; manca, difatti, ogni traccia di passato. E quindi l’Oceania è ed è sempre stata in guerra con l’Estasia.

Qualora poi, come pure cerca di fare Winston, ci si ostina a conservare il ricordo flebile, dubbioso, di un’altra guerra, di un’altra Londra (“cercava di spremere dal cervello quelle memorie dell’infanzia che gli dicessero se Londra era sempre stata così”), ebbene, in questo stesso momento, interviene la Psicopolizia a ristabilire la Verità.

Inutilmente Winston cercare la salvezza in Julia, una donna capace di ribellarsi al “ventre freddo” delle donne di “1984” che si accoppiano solo per procreare.

Il loro amore, assurdo e rivoluzionario, sarà presto svelato e denunciato. E proprio quando si sentiranno pienamente parte della Fratellanza di Goldstein (il traditore “Nemico del Popolo” che viene fatto oggetto dei più turpi improperi nei catartici Due Minuti d’Odio) perché in possesso del Libro (!), Winston e Julia saranno catturati e condotti nel Ministero dell’Amore (ossimoro, quest’ultimo, in perfetta sintonia con i tre slogan del Partito: la guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza).

Qui Winston viene torturato, affamato, sottoposto a scariche elettriche proprio da O’Brien, l’uomo che egli pensava facesse parte della Fratellanza. E nel momento in cui il protagonista, pur nella sua discesa agli inferi, si rifiuta di ammettere che “2+2=5”, facendo appello a una presunta, incontrovertibile umanità che non può soccombere all’illogicità di quest’asserzione, O’Brien lo fa guardare allo specchio.

Winston si vede e si scopre disumano.

"Tu stai morendo, stai cadendo a pezzi. Che sei? Un sacco d’immondizie (…). La vedi quella cosa che ti sta guardando? Quella è l’ultimo uomo. Se tu sei un uomo, quella è l’umanità. (…)"

Eppure, dall’infima miseria della sua condizione attuale, nonostante abbia confessato tutto quello che gli hanno voluto far confessare, Winston ha conservato un atomo di ribellione: Julia non l’ha ancora tradita, non ha ancora smesso di considerarla una via d’uscita dalla fine.

O’Brien lo sa e capisce che “è venuto il momento di fare l’ultimo passo”.

La mostruosa stanza 101 si staglia, annichilente nel suo carico di simbolismo, alla vista di Winston.

Una paura ancestrale, capace – questa sì - di sprofondarlo nella perdizione, è a un centimetro da lui.

"<Fatelo a Julia! Fatelo a Julia! Non a me! Julia! Non me ne importa niente di quello che le fate. Laceratele la faccia, rodetela all’osso. Non a me. Julia! Non a me!>"

E così Winston, morto irrimediabilmente proprio nel momento in cui viene reinserito nel Socing di “1984”, “era riuscito vincitore su se medesimo.

Amava il Grande Fratello".

lunedì 17 novembre 2014

Vincenzo De Luca: dal Kaos al Crescent

All’origine fu il Kaos.
Poi, dal garofano chiacchierato del sindaco Vincenzo Giordano, per mera riproduzione verginale (lett. “partenogenesi”, come solo si conviene alle divinità dell’empireo), ecco spuntare la falce e il martello dell’altro Vincenzo, questa volta, Vincenzo De Luca

Gli annali registrano, per la discesa nell’agone politico del Nostro, l’anno 1993.

Prima dell’età del disvelamento di De Luca, a partire dal 1944 (ultimo anno in cui la città di Salerno, con la sua nomina a Capitale d’Italia, ha significato qualcosa per la Storia) e fino, per l’appunto, al 1993, niente da segnalare. Poi l’Annunciazione del Verbo, che si è incarnato nel seno della civitas hippocratica e s’è fatto uomo. Ed è proprio con riferimento all’anno del Signore 1993 che i posteri parleranno di Salerno come della città in cui

Si legano le vigne con le salsicce, e avevasi un’oca a denaio e un papero giunta, ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli, e cuocergli in brodo di capponi (…) e ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciol d’acqua…

Ed eccolo, il compagno Vicienz’ degli esordi, con alle spalle la falce e martello della cospirativa sezione, ringhiare contro le magagne del governo cittadino; poi, si sa, la responsabilità imborghesisce, la vis polemica si prende la patente di diplomazia. Da Masaniello (per carità, però, non lo apostrofate mai in maniera da ricordargli l’odiata Napoli… almeno odiata fino a ieri) arravotapopolo, alla carica di vicesindaco.

Che insinuate? Ciucci: la rivoluzione del Sol dell’Avvenire si può portare avanti, oltre che dall’esterno (e parliamo di ribellione) anche dall’interno del Sistema (sovversione).

Da vice a Sindaco, il passo è breve. E con l’acquisizione della carica, di nuovo Salerno si è riagganciata alla Storia: dal 1944, uno zompo, e stiamo al 1993. E già perché, per la ridente Salernum (da salum e Irnum, “il luogo situato tra il mare e l’Irno”) oltre, ovviamente, alla summa divisio “a.C.” (avanti Cristo)” e “d.C.” (dopo Cristo) indefettibile per ogni cronologia, ve n’è un’altra. Per l’esattezza, da circa una ventina di anni, “a.D.L.” (avanti De Luca) e “d.D.L” (dopo De Luca); acronimo, quest’ultimo, da non confondere con il d.d.l. del disegno di legge ma, in questo caso, aiutano le minuscole a distinguere.

Prima di Lui, della nostra Salerno, si negava addirittura l’autonomia territoriale. Riprova ne è il racconto di mio zio, militare ad Albenga (SV) nel lontano 1995, che alla sua fiera dichiarazione di appartenenza (“Sono di Salerno”), si sentiva rispondere: “Ah, sì, vicino a Napoli!”.

Ebbene, dopo il 1993 questi fraintendimenti, siffatte sviste territoriali, non sono più ammissibili: Salerno, dal ’93 “d.D.L”, rifulge a carattere di fuoco nella geografia nazionale e guarda con schifo malcelato (“ancora oltre sopportar non posso / la vostra vicinanza puzzolente”) il pennacchio accentratore della “napolitudine“.

Come? Certo, ehmm…sì, sicuro: ora Napoli è cultura, Napoli è l’ispirazione del mondo… ora, alla vigilia delle regionali!

Forse sarebbe il caso di fare, su questo come su altri argomenti che interessano il Nostro, un poco di chiarezza. Poiché, infatti, la comprensione si annida necessariamente nel passato di avvenimenti e persone, e poiché ogni storia acquista senso solo se intrecciata con la nostra esperienza personale, è opportuno declinare il pubblico nel privato.

All’indomani dell’elezione di Vincenzo De Luca a sindaco con la lista “Progressisti per Salerno“, il mio compagno di classe, “comunista” griffato e dalle buone maniere, mi ferma nel corridoio del Tasso e mi urla contro: “Per colpa di voi komunisti (e già perché, nei primi anni dal suo insediamento, votare De Luca voleva dire professare un comunismo duro e puro (!)) che avete appoggiato quel cafone di Potenza (sempre De Luca, ndr) mio padre, per andare al lavoro, deve parcheggiare l’auto un chilometro distante dal centro: tutte strisce blu!”.

Ora è chiaro che il compagno di cui sopra aveva votato, da quell’arbiter elegantiae qual è, il professor Giuseppe Acocella; così come è altrettanto chiaro, almeno per l’io di allora, che votare De Luca significava esprimere un voto di speranza in una rivoluzione anche urbana, fatta di aree pedonali, parchi cittadini, opere pubbliche, pulizia e decoro nelle strade. E devo dire, e chi afferma il contrario può essere solo in malafede, che effettivamente il ventennio deluchiano ci ha consegnato anche la rinascita urbanistica, ambientale (si pensi alle elevate percentuali di raccolta differenziata raggiunte in città) e di prestigio di Salerno. Soprattutto, ora come ora, un episodio come quello occorso a mio zio nel 1995, non sarebbe più possibile: solo un muflone selvaggio, difatti, potrebbe continuare a qualificare Salerno come “La città vicino a Napoli” (se non addirittura, come pure è successo, “La città vicino a Battipaglia”(!!), per via della mozzarella di bufala).

La riprova, qualora ce ne fosse bisogno, l’ho avuta proprio in questi giorni di Luci d’Artista, allorché mi è capitato di ascoltare una turista che telefonava a qualcuno parlandogli di “Salernò”; pur prestandovi la dovuta attenzione, infatti, non ho scorto disappunto sul sembiante della francese che potesse denotare il fastidio di ripetere il nome della città a un interlocutore che non lo conoscesse o che lo conoscesse solo “in relazionale a”.

Insomma Vincenzo De Luca, comunque la si pensi, ha fatto assurgere Salerno alla ribalta nazionale e, soprattutto per le opere architettoniche, anche a quella almeno europea, se non addirittura internazionale. Ma ogni acqua, anche la più limpida, se lasciata troppo tempo nello stesso catino, s’intorbidisce. Vieppiù nel caso di De Luca.

Già, infatti, nei primi anni novanta, il Nostro aveva dato prova di non sopportare ingerenze nel suo operato. Basti pensare al defenestramento del vice-sindaco Pasquale Stanzione reo, secondo la vulgata comune, di aver avuto l’ardire di prendere decisioni in sua assenza.

Dopo questo precedente Vincenzo De Luca, come tutte le persone intelligenti, ha messo a frutto l’esperienza e ne ha tratto insegnamento: ogniqualvolta un compagno di partito, o comunque un politico a lui vicino, ha anche soltanto osato (per i voti presi, per le iniziative portate avanti) manifestare un barlume di soggettività politica in grado di fargli ombra, il Sindaco l’ha prontamente “vaporizzato” (“1984” di Orwell) o affidato a incarichi di secondaria importanza. Come? Facendo proprio una modus operandi vecchio come il cucco: rintanare a forza ogni sodale non appena il manigoldo in questione si azzardi a innalzarsi alla luce, anche solo con un capello, dalla tana dell’anonimato predisposta dal Nostro.

La verità è cha da un ventennio il Sindaco, a Salerno, fa il bello e il cattivo tempo.

Ama ergersi a deus ex machina dell’intero scenario salernitano, anche al di là del palcoscenico più propriamente politico.

Non c’è campo, infatti, in cui la sua parola non detti legge. Si pensi, ad esempio, alle aziende municipalizzate della città.

Circola, a tal proposito, la voce (sicuramente infondata, beninteso) che De Luca, per salvaguardare la pax sociale di Salerno, abbia rimpinzato le numerose municipalizzate (secondo alcuni, inestimabili serbatoi di voti)  di persone non propriamente raccomandabili.

“Ciru’, ma la domanda in Salerno…, l’hai fatta?”

“E che la faccio a fare? Lo sa pure l’orologio da Prefettura che, per entrarci, mi mancano quattro-cinque precedenti penali, ‘na decina di tatuaggi, e due-tre orecchini”.

Questa è la simpatica, pur nella sua tragicità se solo fosse vera (ma abbiamo già precisato che non lo è e la riportiamo qui unicamente per rendere più sfizioso il nostro scritto), risposta che mi ha fornito un amico alla domanda di cui sopra.

Poi ci sarebbero le fontane del Sindaco (talmente tante, che per buona parte degli anni novanta, De Luca è stato soprannominato Vicienz’ ‘a Funtana), alcune delle quali scomparse sotto il cemento delle rotatorie (ed eccoci a Vicienz’ ‘a rotonda), e altre che versano in uno stato di quasi abbandono; il Faro della Giustizia, realizzato dagli artisti Ben Jakober e Yannich Vu, con le ceramiche presto ingiallitesi (continuiamo con Vicienz’ ‘o cinese), e con una luce (del faro, per l’appunto) che nessun salernitano ha mai visto accesa; ancora le ripetute, cicliche inaugurazioni di pietre diverse della stessa opera; le trasmissioni su Lira Tv del venerdì (rete ben presto definita Tele Kabul come la RAI 3 del P.C.I. della lottizzazione), in cui il nostro Sindaco se l’è presa coi cafoni di ogni risma e grado, spesso con linguaggio a tal punto colorito (frullino sei il mio battito d’ali) da innescare dei veri e propri tormentoni sui social. Ma per saggiare la popolarità da icona pop di De Luca, non c’è manco bisogno di scomodare Facebook e/o Twitter: è sufficiente, infatti, farsi un giro per le vie di Salerno in occasione della processione di San Matteo, il Santo Patrono della città.

Infine ci sarebbero le inchieste giudiziarie, non ultima quella sul mastodontico Crescent di Bofill, che hanno gettato ombre (più o meno lunghe a seconda del grado di stima precedentemente nutrita per De Luca) sulla inattaccabilità della figura del Sindaco; oltreché, ovviamente, dar fuoco alle polveri di chi considera il Nostro alla stregua di Belzebù.

Per le intemperanze e le storture dell’operato di De Luca, comunque, rivolgetevi pure al simpaticissimo gruppo Figli delle Chiancarelle (dal nome di alcune tavole di legno, chiancarelle per l’appunto, che venivano lavorate dalle aziende della vecchia Salerno… quella del Kaos, per intenderci) che non perdono occasione di mettere a nudo il re e la sua corte.

Politicamente, ormai, Vincenzo De Luca si muove sganciato da ogni partito e da ogni padrino politico, come dimostra il repentino (troppo repentino!) passaggio dallo “smacchiatore” Bersani al “pattista” Renzi.

Ora il traguardo è la regione. E la carica di Governatore è talmente succulenta da indurlo, come accennavo all’inizio di questo intervento, anche a riabilitare quella napoletanità sulla cui contrapposizione ha fondato l'”orgoglio salernitano” tanto strombazzato.

Di Vincenzo De Luca ci sarebbe da scriverne per pagine e pagine.

Io, da semplice curioso della realtà circostante, mi sono limitato a portare alla vostra attenzione, un po’ “alla sanfasò” come direbbe il Maestro Camilleri, alcune tinte del ricchissimo e complesso caleidoscopio Vincenzo De Luca.

Chiudo con un apprezzamento sincero della capacità oratoria (al netto di qualche “miracolo” di troppo) di De Luca che, a un compagno della sezione che l’ascoltava estasiato fece esclamare, davanti alle mie orecchie incredule: “Mamma ma’, mi ha fatto arrivare che manco Annamaria!”.

Il potere si assefua alla propria voce. Quando l’assuefazione è completa, la scambia per la voce di Dio. (Alberto Asor Rosa)

martedì 4 novembre 2014

“Dotto’, ‘e cazettin?!”

Un ticchettìo di dita sul finestrino. Ti giri in direzione del rumore perché pensi a lei che finalmente è scesa dal treno e ti ha raggiunto. “Dotto’, – un ghigno da impunito stampato su lineamenti beffardi‘e cazettin?”

Non riesci manco a trovare il tempo di opporti che già la frangia granata (non è che per mezzo che stiamo a Salerno tutti i calzini devono essere di colore granata, no?!) s’insinua nel rettangolino del finestrino lasciato colpevolmente aperto.

“Ma io… – cerchi di accampare ‘na fetente di scusa che ti possa sottrarre all‘invasione del cazettino selvaggio…no….”

Troppe cose aperte e/o sospese: il finestrino, i puntini sospensivi fatti apposta per essere riempiti dal nylon dei calzini, la volontà morbida come il ventre caldo dell’Ubalda.

“Dotto’, ‘e cazettin!”

Imparpagliato, con i calzini granata sopra il cruscotto, metti mano al portafogli e paghi.

La fase due è quella di trovare una giustificazione all’ennesimo paia di calzini granata che regalerai al nonno, magari assieme alle brache rigorosamente nere, per riprodurre i colori sociali della Salernitana. Sempre, ovviamente, sperando che il vecchio in questione non perda la pazienza come il personaggio di Io speriamo che me la cavo (“Oh Maronna mia, nata vot o piecr! Ma che cazz o puort a fa ognj’ anno stu piecr comm a te si nun tien mai o curagg ro scannà?!? Ije te scannas ije a te!”)

E mentre pensi che “È meglio che facciano questo piuttosto che rubare o spacciare”, sopraggiunge la tua ragazza.

Ti appioppa un bacio e scorge i calzini sul cruscotto. Inizia a ridere: “Un’altra volta – osserva mentre si sganascia dalle risate ‘e cazettin?”

E tre: ti sei riempito il cruscotto di nuances granata per aspettare lei, hai “cacciato” tre euro per farti fare fesso e sei passato pure per coglione.

Piglia, impacca e porta a casa!

La settimana dopo, sempre alla stazione di Salerno e sempre ad aspettare lei.

Chiudi i finestrini e continui a spingere sul bottoncino per circa due minuti dopo la chiusura. Non pensi di controllare la venuta di Angela (“Deve cercarmi lei, l’uomo-cazettino è più importante!”) e lasci rigorosamente accesa l’auto.

Ne viene uno a destra con i calzini di spugna (granata). Innesti la prima e ti sposti due metri più in là.

Eccone un altro a sinistra, con una mappata di calzini (granata!) che cerca un varco nel tuo finestrino. Godendo come un criceto in calore, abbandoni di nuovo il cambio in folle, ingrani la marcia, e ti parcheggi, sempre col motore acceso, dall’altra parte della strada.

Viene la tua ragazza. Apre la portiera. Da destra e sinistra arrivano due ondate di stoffe granata pronte a sfruttare l’apertura alare dello sportello.

Ti avvinghi alla sua borsa, e il tirarla dentro l’abitacolo e il dare gas al motore, è tutt’uno.

E tre: ti sei risparmiato l’ennesimo paia di calzini granata sul cruscotto, non hai sborsato manco un cent, hai acquistato il rispetto della tua bella.

Fieramente impettito come il nostro ZON che vende più copie de Il Corriere della Sera, parcheggiata l’auto, te ne vai passeggiando con il tuo amore, decisamente fiero di te.

Arrivi all’altezza del palazzo della Provincia e… a destra: “Dotto’, e cazettin!”; a manca: “Dotto’, ‘nu bell’ cazettin granata, jamm!”.

Li guardi annichilito, a tal punto che la tua ragazza si sente in dovere di venirti in aiuto: “Ma che dobbiamo fare con tutti ‘ste calze e calzini, ‘na rapina?”

“Dottore’ (per normale associazione di genere), ma vi pare che se ci fosse qualcosa da rapinare, nuie stessimo ancora cca a vendere ‘sti maronn e cazettin, per di più granata (visto ca simm tifosi do Napule)?”

Tu e la tua metà vi scambiate uno sguardo di prostrata rassegnazione.

Il tornarsene a casa, tu con cinque paia di calzini lunghi, lei con altrettanti paia di cazettini di spugna (ça van sans dire, tutti di colore granata), ha qualcosa di più deprimente della Waterloo napoleonica.

sabato 1 novembre 2014

"Assassinio al Comitato Centrale", di M. V. Montalbàn

Vi è impazienza per l’arrivo di Fernando Garrido, il segretario generale.

Alla sua venuta, come sempre, i diversi gruppi nel frattempo formatisi s’apriranno “come occhi per contemplare ancora una volta l’eterno miracolo dell’incarnazione dell’avanguardia della classe operaia nella persona di un segretario generale”.

Il discorso introduttivo al Comitato Centrale, per forza di cose destinato a durare poco (“Faremo presto, perché sapete bene che non posso resistere a lungo senza fumare“), può finalmente fuoriuscire dalle labbra di Garrido, parzialmente occupate dalla sigaretta (spenta-accesa, a seconda delle ricostruzioni postume) che tanta importanza avrà, sia pure indiretta, per la risoluzione del caso.

Il black-out elettrico, con la sua oscurità pregna di possibili moventi, per qualche minuto impedisce il prosieguo dei lavori. Torna la luce, che non può fare altro che assistere e propagare l’immagine di un segretario generale morto, ucciso da una pugnalata.

Siamo all’indomani della dittatura franchista. Da poco tempo il Partito Comunista è uscito dalla clandestinità “per dare l’assalto al cielo” (Marx) della democrazia. Gli equilibri sono delicati. C’è una corrente del partito, affascinata dagli incantamenti sovietici, che vede di cattivo occhio l’eurocomunismo di Garrido. C’è chi propugna, invece, un accordo con i socialisti. Chi, infine, ritiene opportuno che il partito faccia proprie le istanze del sindacato, sua naturale cinghia di trasmissione.

Senza contare, ovviamente, il KGB, la CIA, il franchismo internazionale, che avrebbero mille motivi – anche solo per fini destabilizzanti – per volere la morte del segretario generale del partito comunista.

Eppure… porta chiusa dall’interno: l’assassino è membro del Comitato Centrale.

Le indagini vengono affidate “agli occhi acquosi senza palpebre” di Fonseca, un poliziotto che all’epoca di Franco guidava la feroce repressione agli oppositori del regime.

Santos Pacheco, numero due del partito, per il quale la Storia ci ha impedito (ai comunisti, ndr) la normalità, nel bene o nel male siamo sempre stati eccezionali, ottiene dal Governo che venga condotta, parallelamente a quella di Fonseca, un’altra indagine. Affidata questa volta a Pepe Carvalho, detective con alle spalle una militanza nel Partito Comunista clandestino spagnolo.

E lo stesso, raffinato gourmet Carvalho, immalinconito al pensiero di lasciare l’europea Barcellona per Madrid “che ha dato ai beni cultural-gastronomici della nazione soltanto un lesso, una frittata e una trippa”, si sfoga bruciando l’ennesimo libro; pratica insolita, quest’ultima, avviata contestualmente alla fine della sua carriera di compratore-lettore; precisamente, “dal giorno in cui si era sorpreso schiavo di una cultura che lo aveva separato dalla vita, (…) che aveva alterato la sua sentimentalità come gli antibiotici possono distruggere le difese dell’organismo”.

L’ottimo investigatore, tra ricerche spasmodiche di piatti “come Dio comanda”, torture fisiche e psicologiche da parte di agenti difficilmente collocabili, e donne dal fascino conturbante, riuscirà a scoprire l’assassino grazie a un particolare “illuminante”.

L’ambientazione dell’assassinio (la stanza delle riunioni del Comitato Centrale, chiusa dal di dentro, che ospita centoquaranta persone), a differenza di quell’altra celeberrima dell’Orient Express di Agatha Christie (anche in questo caso, difatti, vi è un ambiente, quello del treno, isolato dall’esterno soprattutto per la neve), è ben lontana dal suggerire quelle complicazioni psicologiche dei personaggi mirabilmente create dalla scrittrice inglese.

La trama del libro sembra volutamente mantenersi ai margini di una storia che sarebbe pure interessante per soffermarsi, piuttosto, sui reduci di un partito le cui tensioni ideali non hanno tardato a sciogliersi nella liturgia. Una formazione politica nella quale, come dice Santos nella sua lettera finale, “gli dei sono morti” e sono rimasti solo i sacerdoti, avviluppati nel loro stucchevole cerimoniale di corte.

Abbastanza confuse, poi, appaiono le motivazioni e l’appartenenza degli agenti interessati alla soluzione del caso, che verranno a scontrarsi – più o meno bruscamente – con il nostro investigatore.

Infine, non si può non rilevare un sarcasmo, in alcuni casi del tutto fuori luogo perché esasperato, di Pepe Carvalho anche in situazioni (ad esempio di fronte ai torturatori e a rischio di inasprire le loro pratiche d’interrogatorio) che presupporrebbero maggiore cautela.

Da un punto di vista stilistico, la scelta di non suddividere il romanzo in capitoli mina alquanto l’attenzione del lettore, così come i continui e improvvisi flashback appaiono, per l’appunto, troppo repentini per essere colti immediatamente. Per di più, non vengono opportunamente isolati o comunque differenziati dal normale andamento della storia.

In conclusione, malgrado il nostro Camilleri abbia scelto di chiamare il protagonista dei suoi polizieschi Montalbano, in ossequio, per l’appunto, allo scrittore spagnolo Montalbàn, diciamo che, almeno per questo romanzo… “Troppa grazia, sant’Antonio!”

Il sagace Montalbano di Camilleri, infatti, ci appare ben più accattivante del Pepe Carvalho di Montalbàn, con il quale ci sembra avere in comune esclusivamente la passione per il cibo. E anche sotto l’aspetto culinario, preferiamo grandemente la pasta “Al nivuru di siccia” e gli arancini della cammarera Adelina alle trippe e alle salsicce catalane ben tartufate di Pepe Carvalho.

martedì 28 ottobre 2014

Il Paolo Conte di "Snob"

Il Paolo Conte di “Snob”: forse, mai come questa volta, davvero “Con quella faccia un po’ così/quell’espressione un po’ così…”

E come poteva essere altrimenti? Ti guarda, dallo sfondo nero della copertina del nuovo CD,  come “l’uomo scimmia” che, nonostante tutto, davvero non “capisce il motivo”; come il “camionero sensible” (“peruviano mixto Andaluz”), bisognoso del manuale di conversazione (traccia n. 13) per potersi intendere con la bella africana che, con “intenzion cavalleresca” fa salire sul suo camion.

Già, proprio un manuale di conversazione per permettere al Maestro di farsi intelligere dalla musica, troppe volte stracciona (“Oggi si fanno canzoni con solo 2 -3 accordi, cosa che, ai miei tempi, era inconcepibile”), del nostro presente.

A rompere la classicità della foto di copertina, lo “Snob” amaranto posto in basso a destra. Proprio “snob”, “sine nobilitate“, come gli studenti di Cambridge definivano chi non apparteneva al mondo universitario. E, come volevasi dimostrare, Paolo Conte non può appartenere all’università (musicale) del contemporaneo. A rimarcarlo, qualora ce ne fosse bisogno, basterebbe far riferimento alla presentazione dell’album uscito il 14 ottobre: ai salotti paludati delle emittenti TV, alle frequenze psichedeliche delle radio, il Maestro ha preferito… la cantina. Sì, proprio così: il nuovo cd è stato presentato, al cospetto di una quindicina di giornalisti, nella cantina Rocchetta Tanaro di Asti.

La “vendemmia della cultura“, come qualcuno ha felicemente definito l’evento.

Ed eccoli qui i quindici colori, le quindici “interpretazioni di gusto” del vino (supremo) del Maestro.

1) Si sposa l’Africa: due telefonini stregoni (“io non posseggo il telefonino”) s’incontrano e, dopo essersi parlati due volte, decidono di sposarsi.

Nella prima parte, l’Africa antica, dove gli invitati arrivano tra capre e nuvole. Nella seconda, l’Africa moderna, con la terra rossa dei campi da tennis: son tutti soci di Wimbledon.

Musica etnica (fisarmonica “tambureggiante”) corredata dalla voce “tribale” di Conte che ripete il mantra Kunta Kinte;

2) Donna dal profumo di caffè: un sogno, una donna declinata con le virtù del caffè (bevo un caffè da aviatore/che sta ascoltando un motore…).

Suoni onirici e pianoforte “suggestivo”.

3) Argentina: terra d’immigrazione, dove i bastimenti gridano partiamo.

Ne abbiam frustato scarpe a Buenos Aires.

Pianoforte arrembante di malinconia.

4) Snob: le erre arrotate della propria donna fanno temere una simpatia per qualcuno dai tre cognomi. Il provinciale, però, con le sue cose “sostanziose” (parole, cibo), con le canzoni che van ben per i soldati e i muli, la riconquisterà.

Virtuosismi pianistici al limite della classicità.

5) Tropical: le ultime sambe degli anni cinquanta quando le parole bastavan da sole.

Ritmi swing come pennellate di colore.

6) Fandango: ermetismo poetico della statua di luna su lucidi ghiacci.

Atmosfere musicali dark.

7) Incontro: l’uomo incatenato e perduto al cospetto della luce d’amore (gatto d’estate che vaga e insegue un romanzo suo).

Musica “tanghera”.

8) Tutti a casa: c’è una vita nelle strade d’inverno, come nel cuore del protagonista; la stessa vita non comprensibile alla donna che si scalda le gambe davanti ad un falò.

Ballata cantilenante.

9) L’uomo specchio: un uomo che si fa specchio per esprimere la vera, segreta personalità della sua amata.

Intro: connubio d’autore sax-pianoforte. Scampoli d’elettronica.

10) Maracas: ritmo coinvolgente, tra Genova e le Americhe dove vuoi o non vuoi, hanno sorrisi più larghi di noi.

Samba in dialetto (parte finale) genovese.

11) Gente (csidn): occhi, piedi, mani, vite di Gente Che Stava Innamorandosi Di Noi.

Trionfo di chitarra acustica.

12) Glamour: un condor rosso in lingua tedesca.

Voce calda e roca del Maestro.

13) Manuale di conversazione (v. sopra).

14) Signorina Saponetta: la signorina che valzeggia, volteggia e poi marzuccheggia.

Revival musicale dei primi decenni del Novecento.

15) Ballerina: ballerina sei di legno, ma t’insegno io…

Gioco musicale d’antan.

Chapeau, Maestro.

sabato 18 ottobre 2014

“Il dottor Zivago”, di Boris Pasternak

Mai nessun romanzo come Il dottor Zivago ha avuto, suo malgrado, un’importanza esogena, “esterna” almeno pari a quella più propriamente letteraria.

Brevemente: questo libro è stato scritto da Pasternak immediatamente dopo la Seconda Guerra Mondiale e subito rifiutato dall’Unione degli Scrittori Russi.

Pur bandito dal Governo, miracolosamente Il dottor Zivago riesce a oltrepassare i confini sovietici. Viene pubblicato, allora, dalla nostra Feltrinelli (!) in un’edizione diventata giustamente famosa.

Nel 1958 ecco arrivare il premio Nobel per Pasternak. I retroscena di questa assegnazione, però, sono degni della migliore spy story: vengono coinvolti, infatti, servizi segreti pronti a dirottare aerei e a compiere eclatanti operazioni di contraffazione.

In estrema sintesi: il regolamento dell’Accademia svedese prevede, per l’assegnazione del Nobel per la letteratura, che l’opera sia pubblicata nella lingua madre dell’autore. Ora abbiamo appena scritto che la prima pubblicazione del Dottor Zivago si è avuta in Italia. Ergo, il romanzo difetta di un requisito fondamentale.

Come sopperire alla, in altri casi, insanabile mancanza?

Grazie all’aiuto della CIA e dell’Intelligence britannica (!) che riescono ad intercettare la presenza di un manoscritto in lingua russa a bordo di un aereo. Dopodiché, far deviare l’aereo e impossessarsi dell’opera letteraria, è tutt’uno.

A questo punto, non resta che mettere in atto la messinscena con la stessa abilità con cui il Baudolino di Umberto Eco inventa di sana pianta le missive del Prete Giovanni.

Impossessatisi del manoscritto, infatti, i servizi segreti provvedono a fotografarlo pagina per pagina e a pubblicarlo su carta con intestazione russa. Ma vi è di più: addirittura ci si spinge fino a utilizzare le tecniche tipografiche tipiche delle edizioni sovietiche per rendere più verosimile l’opera di mistificazione.

Dopo tutto ciò c’è l’assegnazione, come dicevamo, del Premio Nobel per la letteratura che Pasternak non ritirerà per le minacce, anche di morte oltre che di espulsione dall’amata patria, del KGB.

Ora la domanda sorge spontanea: perché, da un lato, i servizi segreti occidentali si dannano l’anima per favorire l’assegnazione del Nobel a Pasternak mentre, dall’altro, il KGB minaccia addirittura di morte lo scrittore se si presenterà a ritirare l’ambito premio?

Il marxismo è troppo poco padrone di sé stesso per essere una scienza. Le scienze hanno più equilibrio. Il marxismo e l’obiettività? Non conosco corrente che non sia più chiusa in sé stessa e più lontana dai fatti del marxismo (…) Gli uomini di governo (…) fanno di tutto per voltare le spalle alla verità.

Ecco, proprio un brano come questo ci fornisce la spiegazione del perché: da una parte e dall’altra della Cortina di Ferro, si è interessati dal Nobel a Pasternak; comprensibilmente, gli uni per facilitarne l’assegnazione, gli altri per impedirla. Entrambe la parti della commedia comunque, pronte ad utilizzare qualsiasi mezzo per raggiungere lo scopo.

Eppure è lo stesso scrittore che, per chi volesse guardare al di là degli obnubilamenti ideologici, ci dà la linea interpretativa de Il dottor Zivago.

Qui di seguito, ad esempio, uno dei personaggi ne rimprovera aspramente un altro:

Siete un bambino o ci fate? Da dove venite, dalla luna? Avidi parassiti sfruttavano i lavoratori affamati, li facevano faticare a morte, e doveva durare sempre così? E tutte le altre offese, tutte le altre forme di sopraffazione? Possibile che non comprendiate la legittimità della collera popolare, il desiderio di vivere secondo giustizia, la ricerca della verità? O vi sembra che un capovolgimento radicale possa ottenersi attraverso la Duma, per via parlamentare, e che si potesse fare a meno della dittatura?

Per concludere quindi, trattasi di un romanzo che più che criticare la rivoluzione d’Ottobre e il marxismo, ne condanna le degenerazioni e gli eccessi.

Per intenderci, l’annosa querelle tra comunismo reale e comunismo filosofico.

Dopo questa lunga, doverosa premessa “esterna” al romanzo, passiamo alla sua analisi più propriamente contenutistica.

Diciamo subito che se Il dottor Zivago fosse stato valutato unicamente secondo i parametri letterari, probabilmente non avrebbe ottenuto l’insigne riconoscimento. Anche perché Pasternak ha scritto un solo libro e, almeno per quello che mi sembra di ricordare, è difficile che ad uno scrittore, per quanto capace, venga assegnato il Nobel per una sola opera.

Ma qual è la cifra letteraria di questo manoscritto? È un romanzo che, degno figlio della letteratura russa, richiede una lettura costante, giornaliera, tanto è numeroso l’intreccio di storie e personaggi, anche di secondaria importanza, che fanno capolino tra le sue pagine.

Il protagonista, Jurij Zivago, è ottimamente cesellato nella sua “complessità semplice”. Animo complesso perché “diverso” dagli altri personaggi, un uomo nell’astuccio (Cechov) di una profondità di pensiero fuori dal comune; purtuttavia, però, un animo semplice, capace di stanare le esagerazioni deprecabili e le cervellotiche esasperazioni della Rivoluzione e, successivamente, del N.E.P. (Nuova Politica Economica inaugurata da Lenin nel 1921 con parziale ripristino della proprietà privata e del libero commercio).

Il suo controcanto letterario è Larisa Fedorovna (Lara), una ragazza costretta a crescere troppo in fretta a causa delle attenzioni deprecabili dell’avvocato Komarovskij.

Uno scrigno di equilibrio, misura e femminilità che riesce ad aprirsi solo durante la guerra, al cospetto di Jurij Zivago con il quale collaborerà in veste di infermiera.

Ed è proprio la guerra, con la sua dispersione di uomini (il marito di Lara, Pavel Pavlovic, andrà a combattere come partigiano mentre Tonija, la moglie di Zivago si troverà, per diversi motivi, lontana dal suo compagno per buona parte del romanzo)…; dicevo, proprio la guerra con le sue giornate gelide di corpi straziati, attraversata com’è, nella sua dimensione reale oltreché immaginaria, dallo squittio incessante dei topi, a presentarsi come il palcoscenico, tragico e pur ideale, per l’unione di due anime (Zivago e Lara) del tutto complementari.

E poi, come accennavamo, Pavel Pavlovic che, desideroso di diventare finalmente degno della grandezza di Lara, si dedica anima e corpo, anche sacrificando i suoi affetti più cari, all’ideale della guerra; ancora, l’avvocato Komarovskij, la stereotipata figura dell’uomo arrivista e privo di scrupoli; infine la rassicurante normalità di Tonija e le tante, profonde donne che costellano questo romanzo.

A costo di essere prolissi, non si può esimersi dal riportare un altro (l’ultimo) passo del libro, in cui Zivago, rivolgendosi a Lara, dà una definizione originale e illuminante della gelosia:

È strano, mi sembra di poter essere mortalmente geloso soltanto di una persona ignobile, del tutto estranea a me (…). Se un uomo spiritualmente vicino a me, per il quale avessi dell’affetto, amasse la stessa donna che amo io, proverei un sentimento di dolente fraternità con lui, non di contrasto e di avversione. Certo, non potrei dividere con lui, neppure per un istante l’oggetto della mia adorazione, ma sarebbe una sofferenza completamente diversa dalla gelosia, non così accesa e sanguinosa. Lo stesso mi accadrebbe se mi imbattessi in un artista che mi soggiogasse con la superiorità del suo ingegno in opere similari alle mie. (…). Credo che non ti amerei tanto se in te non ci fosse nulla da lamentare, nulla da rimpiangere. Io non amo la gente perfetta, quelli che non sono mai caduti, non hanno inciampato. La loro è una virtù spenta, di poco valore. A loro non si è svelata la bellezza della vita.

Per ciò che attiene allo stile, Pasternak adotta una scrittura che troppo spesso strizza l’occhio alla poesia (non a caso, alla fine del libro, vi sono proprio alcuni componimenti poetici attribuiti dall’autore a Jurij Zivago), e che, in alcuni frangenti, sembra compiacersi oltremodo di sé stessa.

In conclusione, Il dottor Zivago rimane comunque un’opera di capitale importanza per intercettare lo spirito russo del primo Novecento; un romanzo di spessore, con una introspezione psicologica di molti personaggi davvero notevole.

Detto questo, non pensiamo di peccare di lesa maestà quando diciamo che, al cospetto dei “tumultuosi moti interiori” del Guerra e Pace di Tolstoj o della “sfiancante ricerca della propria dimensione” di Delitto e Castigo di Dostoevskij, quest’opera ne esce inevitabilmente ridimensionata.

Ma forse il paragone non è nemmeno giusto. Parliamo, tra l’altro, di due secoli diversi oltreché, ovviamente, di un confronto (ingrato) con due mostri sacri della letteratura mondiale.

giovedì 2 ottobre 2014

"Senza perdere la tenerezza", di Paco Ignacio Taibo II

Pensieri su ‘Senza perdere la tenerezza’ che stava lì, con le pagine ammiccanti, giocando sporco

E già, come diversamente definire un libro che si presenta con un’immagine del Che depotenziata nelle dimensioni (quasi un terzo della copertina) prima di naufragare in un anonimo bianco, così come nella retorica magniloquente dell’abusato Che con Fidel, o, festival del luogo comune, del Guerrillero Heroico di Alberto Korda?

Stava lì, dicevo, quasi timido, sopra lo scaffale del mio “spacciatore di libri ambulante.

“Oddio, l’ennesimo libro sul Che! No, Vincenzo caro, ormai sei adulto, troppo grande per le reminiscenze ginnasiali. E, soprattutto, troppo inserito (e l’iva arretrata sta lì a ricordartelo) per farti ammaliare dal basco del Comandante!”.
Giro, rigiro nella Sierra Maestra di titoli vari. Me lo ritrovo in mano.
Assolutamente contrariato per un altro libro sicuramente “pompato” sul Che, pago e vado via.

Lo porto allo studio. Inizio col dargli qualche scorsa, tra una messa in mora e un atto di citazione.

Quando partecipa come testimone alle nozze di Fernandez Mell (…), lo fa vestito con un’uniforme da battaglia logora e piena di piccoli buchi. <Com’è che sei venuto con quell’uniforme?> gli domanda qualcuno. <È la mia uniforme estiva.>

Poi gli dedico il tempo prima del lavoro e dopo l’ultima pratica.

Durante una riunione della Direzione rivoluzionaria cubana, il Primo ministro aveva domandato (…) se fosse presente qualche “economista” e il Che, che stava dormicchiando, aveva capito “qualche comunista” e aveva alzato la mano.

Ora il lavoro riempie le parentesi della lettura. A tal punto che, nonostante (uno) la mole (ragguardevole), lo finisco in 20 gg.; nonostante (due) le frenetiche fatiche dell’avvocato, la stanchezza se ne va a ramingo su una delle sue tante, amate, mule.

Biografia finalmente “depurata” di un’icona che prima di rifulgere del suo mito si sofferma sull’uomo Ernesto Guevara. E allora scopro, oltre a tutte le qualità già conosciute e apprezzate (l’ossessione per la scolarità dei suoi uomini, il suo impegno a curare anche i nemici, etc.) , che era un tipo “poco igienico”, che la sua eloquenza non era proprio da urlo. Depotenziamento della sua grandezza? No, finalmente resoconto di piccole intemperanze che lo rendono ancora più apprezzabile proprio perché umanizzanti.

Anche lo stile e la grammatica del romanzo, coerenti con quest’impostazione “piana”, che nulla concede all’autoreferenzialità, vuole essere coinvolgente per il contenuto affrancandosi, così, definitivamente dall’epos celebrativo.

Traspare, soprattutto verso la fine del libro, il credo in un comunismo comunque diverso, “altro” da quello russo (che, tra l’altro, dota Cuba di trebbiatrici e macchine agricole di pessima qualità) e un’accettazione mai rassegnata del proprio destino di morte. E comunque, pur nella corruttibilità di qualsiasi organismo umano Ernesto Guevara, ci rivela l’ottimo autore del libro, continua a imperversare nella sua “maledizione”.

“La maledizione del Che”. In che consiste? Semplicemente nella convinzione, radicata soprattutto in Bolivia e corredata da una casistica a dir poco inquietante per la sua frequenza, che le numerose morti, uccisioni e disgrazie cui sono rimasti vittima i nemici di Che Guevara, siano attribuibili proprio alla colpa di quest’ultimi di essersi messi di traverso al suo messaggio di redenzione (laica, ma pur sempre redenzione).

Che aggiungere, al proposito? Sarebbe opportuno che qualche politico salernitano “piagnone” non definisca più il Che “macellaio”, se vuole evitare  di incappare nella tremenda, annichilente “maledizione del Che”.

Com’è che si dice? Non è vero ma ci credo!

Infine, passando dal faceto al serio, leggendo quest’opera egregia di Paco Ignacio Taibo II, si insinua, anche in noi, il dubbio e la speranza che forse, se le mani di Ernesto Guevara de la Serna non fossero state amputate e fossero sopravvissute alla sua leggenda, la storia universale del comunismo avrebbe potuto seguire dinamiche diverse; uno sviluppo differente, proiezione sì del suo carattere difficile, tremendamente esigente con sé stesso e con gli altri, ma anche di una sconfinata umanità, tenerezza per l’appunto.

Confesso che era da un po’ di tempo che, pur professandomi un buon lettore, non tornavo a casa di sabato sera, alle 3, con la voglia di rinchiudermi in bagno per leggere ancora un’altra pagina. Penso che questo significhi qualcosa. Almeno per me.