martedì 19 maggio 2015

L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro


Guardando la fiumana di laureati in coda per l’ennesimo concorso da poco più di mille euro al mese, ho ripensato a quell'impressione di ormai ventiquattro anni fa al cospetto dell’art. 1 della Costituzione: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”

Ricordo il colore del libro di educazione civica, il banco scalcagnato su cui Piero non mancava mai di marcare la sua presenza “gommosa”; e tra tante spoglie di chewingum esauste, ricordo quella di colore rosa, probabilmente una big babol, su cui si piantai il mio disappunto: “ma come, ci sono tanti principi, tanti valori in grado di far vibrare i cuori, di giustificare pure il sacrificio di una vita, e i Padri Costituenti mi fondano il Paese sul lavoro?”

Poi succede che la vita, al di fuori dello Sbarco dei Mille di cui avevi condiviso anche il mal di mare, al di là della Presa della Bastiglia della quale percepivi ancora il fremito rivoluzionario, richiede la tua parte nel copione.

Ed ecco che finalmente riesci a capire appieno il significato del termine “lavoro”.

<Come ti chiami?> Ovviamente, prima domanda.

<Che lavoro fai?> Inevitabile, ineludibile seconda domanda che nasce nel momento stesso in cui si conosce qualcuno.

lavoro

E sia che si parta dall'assunto “materialista” per cui, ormai, la società è mercato e che quindi, per stare in società, devi necessariamente consumare (con il provento del lavoro); sia che si prediliga quello maggiormente “umanistico”, sulla scorta del quale la società è espressione della dignità di ogni suo membro e giocoforza, per dare il tuo contributo, devi poter “testimoniare” almeno un briciolo di dignità sociale che solo il lavoro ti può dare, ecco, in entrambi i casi, si capisce la lungimiranza dei Padri Costituenti nell'aver eletto il lavoro a primo respiro della nostra Carta costituzionale.

E allora rivivo con avvilimento e frustrazione la messe di persone, giovani e meno giovani, che lottano per superare un concorso o per affermarsi in quel che resta della tanto decantata libera professione. Per che cosa, poi? Per un principio, semplice e rivoluzionario ad un tempo: manifestare il proprio diritto alla vita, per non essere costretti a rispondere “passo” alla chiamata della Storia che richiederebbe, non foss’altro che per evitare un racconto dimidiato o partigiano, la loro versione dei fatti.

Rivivo i loro tormenti con angoscia perché consapevole, distante eppur in un certo senso vicinissimo a quel ragazzetto che appuntava su spoglie di gomme di colore via via diverso il suo disappunto, dell’importanza sociale, umana ed esistenziale della parola “lavoro”.

martedì 5 maggio 2015

Dall'alto dei cieli, la lingua di Dio



Ebbene sì, me ne sto convincendo sempre di più: secondo me la lingua di Dio, il suo idioma, è la musica.

Ragionatene con me. Il libro della Genesi ci narra la vicenda della Torre di Babele costruita dagli uomini per “raggiungere” Dio. Ora la divinità, per punire la superbia (la hybris della tragedia greca) dei suoi fedeli, ingarbuglia le lingue in maniera tale che le persone non si possono più comprendere e, non intendendosi, non possano più continuare la costruzione della torre. Ecco nata, quindi, la diversità linguistica tra i vari popoli della Terra.

A partire da questo momento, la difformità tra una lingua ed un’altra non solo ha creato problemi alle persone, ma è stata foriera di guai anche per il messaggio stesso che Dio ha voluto veicolare agli uomini di buona volontà. E non parlo soltanto del passato (si pensi, per un attimo, alle eresie nate e perseguitate per la diversa definizione data, ad esempio, allo Spirito Santo – basta leggere, all'uopo e senza scomodare i testi religiosi, il Nome della Rosa di Eco per farsene un’idea), ma anche del presente, come nel caso della querelle infinita tra gli assertori della interpretazione letterale (ad es. i Testimoni di Geova) e quelli dell’interpretazione più “libera” e “mediata” delle Scritture; oppure, per allargare il campo delle incomprensioni, si pensi ancora alle dispute interminabili, sempre causate da sottigliezze terminologiche, sul corretto significato da attribuire alla parola jihad.

Stando così le cose, io ritengo che al buon Dio sarebbe convenuto molto di più parlare attraverso la musica, non foss’altro che per evitare i fraintendimenti linguistici che hanno causato, e continuano a causare, una messe di morti per un accento o un apostrofo.

Con la musica, invece, si risolverebbe ogni problema. Il do, infatti, in qualsiasi latitudine del mondo, è sempre scritto allo stesso modo sul pentagramma. Una semibreve si chiamerà diversamente a seconda del Paese in cui la partitura viene eseguita, ma la sua raffigurazione e, quindi, il suo valore, saranno sempre la stesse, dal Manzanarre al Reno.

Quali sono le fonti capaci di accreditare questa mia (strampalata) teoria? Nessuna, ovviamente, ma mi piace pensare che a questa conclusione sul linguaggio di Dio si siano avvicinati, sia pure sempre nel solco dell’ortodossia cattolica, anche personaggi illustri come San Bernardo

I tre monaci] incontanente che furono dentro [alla porta d’esso Paradiso], udirono lo suono della rota del cielo che si volgeva; lo quale suono era di tanta dolcezza e suavitate e di tanto diletto, che quasi non sapevano lo sito dove erano, anzi si posono a sedere dentro della porta, tanto erano allegri e dilettosi di quello suono della rota del cielo! (Leggenda del Paradiso Terrestre, ne Le sette opere di penitenza di San Bernardo)

 e il Sommo Poeta Dante Alighieri, con la sua armonia delle sfere…

 Quando la rota, che tu sempiterni Desiderato, a sé mi fece atteso, Con l’armonia che temperi e discerni, Parvemi tanto, allor, del cielo acceso De la fiamma del sol, che pioggia o fiume Lago non fece mai tanto disteso. (Par I, 76-81)

 Sì, lo so che sia San Bernardo che Dante erano ben lontani dall'equazione “lingua di Dio=musica”, ma mi intriga l’idea che la mancata affermazione di una cosa del genere fosse solo dovuta a, diciamo così, prudenza teologica. Che poi, qualsiasi sia la vostra opinione al proposito, una cosa è certa: la stretta interdipendenza tra lingua e musica nella sfera religiosa è un dato di fatto che si evince, non in ultimo, anche dal nome stesso dato alle note musicali. Infatti, com'è noto, i suoni attualmente in uso nel nostro sistema musicale derivano dalle sillabe iniziali dei primi sei versi di un inno in onore di S. Giovanni attribuito a Paolo diacono:

UT queant laxis/REsonare fibris/ MIra gestorum/ FAmuli tuorum/ SOLve pollutis/ LAbiis reatum/ Sancte Jhoannes

Certo, obietterete voi, qui si parla di causa (latino, e quindi lingua) ed effetto (la musica). Ma voi stessi sapete fin troppo bene che il confine tra causa ed effetto, a volte, è molto sottile e, altrettante volte, di non chiara antecedenza logico-semantica.

In conclusione, a Dio piacendo, e nella speranza di non essere tacciato di eresia, credo proprio che la voce di Dio sia una musica celestiale.

martedì 28 aprile 2015

Machiavelli sul barcone, Vitiello sullo yacht



E se facessimo un gioco? Prendiamo Machiavelli, portiamolo nel tempo nostro, facciamolo nascere in Africa e mettiamolo a confronto con Gennaro Vitiello, eh?

Facciamo un gioco dunque che, come ogni gioco che si rispetti, ha le sue regole che prontamente elenchiamo.

Regola I: prendiamo due persone, una contemporanea, tale Vitiello Gennarino, figlio di camorristi, e l’altra storica, il Nobilis Homo Niccolò Machiavelli, di professione storico per l’appunto, ma anche filosofo, scrittore, politico e drammaturgo.

Regola II: trasportiamo l’autore de Il Principe dal Cinquecento ai giorni nostri.

Regola III: facciamo nascere l’Eccelso Machiavelli in Libia o in un altro Paese africano martoriato dalla guerra e/o dalla fame.

Regola IV: (consequenziale alla III): nato in Africa, il nostro Niccolò lo dobbiamo dipingere di nero disperazione, di ebano privazione.

Regola V: dotiamo Gennarino Vitiello di una ottusità congenita; di contro, riconosciamo l’intelligenza nota al Machiavelli africano.

Ebbene, dopo aver fatto le dovute premesse (regole), lasciamo i nostri due personaggi, Vitiello e Machiavelli, vivere la loro vita rispettivamente a Napoli, rione Forcella, e in Africa, in qualche anfratto di povertà e di miseria qualsiasi.

Gennarino nasce in una famiglia ricca perché camorrista, camorrista perché ricca. Pur essendo praticamente scemo (a Forcella, prima che la sua natura malavitosa lo vietasse, lo chiamavano Gennarino ‘A ‘gnuranza), fin da piccolo viene sommerso dalle opportunità che gli cadono addosso e che restano, causa il suo encefalogramma piatto, intonse.

Abbandona la scuola dopo essere stato bocciato due volte in seconda media, poi decide di diventare grande. Scippi, rapine, omicidi. Soldi, donne, droga, appalti. A trent’anni, è proprietario di una quarantina di appartamenti, di una decina di ferrari, della vita di un migliaio di persone.

Il Vitiello, comunque, sarebbe sempre scemo, ma nessuno oserebbe neppure lontanamente insinuarlo, adesso.

Machiavelli continua ad avere un’intelligenza fuori del comune. Ha frequentato qualche anno di scuola, giusto il tempo di imparare a leggere, a scrivere e a far di conto. Morto infine il babbo, a malincuore ha dovuto abbandonare gli studi per cercare, da primogenito, di sfamare la sua numerosa famiglia. Eppure, quando le pause della guerra e un po’ di cibo nello stomaco glielo concedono, Machiavelli si sente incompleto. E non tanto per le privazioni materiali quanto, piuttosto, per il bisogno di domare quell’anelito, grezzo e pur doloroso, di conoscenza che sente infuocargli l’anima.

Un giorno, dopo l’ennesimo tramonto africano, decide di partire. Mette a frutto la sua intelligenza. Non avendo ambiti in cui incanalare il suo considerevole talento, prova almeno ad imbarcarsi da protagonista. Tanto si dà da fare che diventa scafista. Uno scafista, sia chiaro, molto più coscienzioso di quelli che abbandonano i barconi con il carico umano alla deriva, ma pur sempre uno scafista.

A trent’anni Machiavelli sbarca a Lampedusa. È proprietario della sua intelligenza, di una maglietta dell’Italia sdrucita, di una vita in qualche C.I.E che ce la metterà tutta per mortificare la sua dignità di essere pensante.

Poco prima di approdare in Sicilia, quando era ancora sul barcone rimasuglio, anche lui, di carne indigesta vomitata dall’Occidente, il nostro Machiavelli ha visto lì, all’orizzonte, uno yacht di una lussuosa arroganza. Se ne stava a beccheggiare indifferente, tra l’ignoranza annaffiata di champagne dei suoi occupanti.

A distanza di qualche anno Machiavelli, in procinto di partire per la Francia dopo estenuanti stagioni di raccolta di pomodori, vede di nuovo lo yacht.

Si ferma a guardarlo più del dovuto.

Gennarino Vitiello in persona, allora, dall’alto dell’intelligenza dell’uomo che c’ha saputo fare, esce fuori dalla cabina e gli sbraita contro:<Strunz, che cazzo tien a guardà? Si nun te ne vai, t’ sparo miezz ‘e pall. – e poi, tornando alle cosce calde di Amaranta – Ma tu vir ‘nu poco – non si capacita Vitiello – ‘sti nir ‘e merd: ‘o meglio e ll’or, nun è capace e fa “o” cu o bicchiere…razza ‘e sciemi!>

Il gioco è terminato. Dopo averlo ringraziato per la sua disponibilità, riportiamo l’ottimo Machiavelli nel Cinquecento non prima, ovviamente, di avergli restituito la carnagione rinascimentale. E teniamoci (non possiamo fare diversamente) i moltissimi Vitiello che popolano la nostra piccola Italia.

A ciascuno (purtroppo) il suo.

martedì 21 aprile 2015

Le fabbriche di sigaro e il capitalismo


In Meraviglie lontane, di Chantel Acevedo, e/o edizioni, mi imbatto nel racconto della protagonista, tale María Serena, che narra la sua esperienza di lectora in una fabbrica di sigari a Cuba.


Chi sono i c.d. lectores? Persone con una bella voce e un’apprezzabile dizione che, nelle fabbriche di sigari cubane, cercano di alleggerire le giornate lente e faticose degli arrotolatori di foglie di tabacco: in che modo? Semplicemente leggendo, su un palco allestito allo scopo, le notizie del Gramna, il giornale ufficiale del Partito Comunista Cubano, e vari libri e romanzi scelti di comune accordo con gli operai.

Ogni lavoratore della fabbrica di sigari, poi, partecipa con il suo contributo alla paga del lettore di libri e giornali.

I lectores, come tutte le persone di cultura a Cuba, vengono considerati uomini influenti, capaci di illuminare, con il vivido chiarore della loro erudizione, anche gli aspetti all’apparenza più oscuri e insolubili di una vicenda. E per questa loro riconosciuta qualità, vengono spesso consultati sui temi più disparati dagli operai.

I romanzi preferiti dai lavoratori delle fabbriche di sigari sono innanzitutto i grandi classici della letteratura. Ciò spiega perché, ad esempio, due tra i migliori marchi di sigari cubani si chiamino Montecristos e Romeo y Julieta.

Ora, mentre mi meraviglia relativamente l’artigianalità “lenta” nella lavorazione dei sigari cubani e la presenza dei lectores descritta nel romanzo di Chantel Acevedo (il libro è ambientato nella Cuba degli anni ’60 del secolo scorso), mi sorprendo a restare letteralmente basito nello scoprire che ancora oggi è rimasto tutto immutato nelle varie fabbriche di sigari disseminate per l’isola. Ancora oggi, cioè, ogni lavoratore impiega un’infinità di tempo per arrotolare, rigorosamente a mano, le foglie di tabacco, una per una, facendo ricorso solamente alla sua maestria e rifuggendo da ogni scorciatoia chimico-additiva che possa rendere più appetibile il frutto della sua fatica; finanche nel III millennio, quindi, gli operai delle fabbriche di sigari scelgono e pagano un lettore che renda meno faticoso il loro lavoro con il balsamo rigenerante della cultura.

Premesso ciò, è ormai notizia nota il disgelo tra U.S.A. e Cuba che porterà, previo voto favorevole del Congresso americano, alla fine dell’embargo contro Cuba.

Ora, una volta affacciatasi l’isola sulle sponde del capitalismo, credete voi che le fabbriche di sigari potranno continuare a funzionare nel modo appena descritto?

Pensate davvero che il singolo lavoratore potrà persistere nel voler arrotolare a mano ogni singola foglia di tabacco, nel caldo umido (l’aria condizionata potrebbe asciugare le preziose foglie di tabacco) che deve regnare necessariamente in fabbrica? Date per certo che l’operaio potrà ancora impiegare ore per “assemblare” poche unità di sigari? E infine, siete proprio convinti che i lavoratori potranno permettersi il lusso di perdere tempo ad ascoltare quei nullafacenti dei tre moschettieri mentre i mercati reclamano sigari, sigari e ancora sigari?

Orazio, dopo la conquista della Grecia ad opera dei Romani, ebbe a scrivere: Graecia capta ferum victorem cepit (la Grecia, conquistata [dai Romani] conquistò i selvaggi).

Ebbene spero vivamente, almeno per quanto riguarda l’amore per la cultura e la sacralità del lavoro, che i lavoratori di sigari cubani conquistino, all’indomani della fine dell’embargo, le selvagge multinazionali d’Occidente.

martedì 14 aprile 2015

"Nell'Anno Mille", di E. Pognon



“Nell’Anno mille” di Edmond Pognon appartiene alla stirpe di quei libri che, fin dall’aspetto, non fanno nulla per incuriosire il lettore: copertina grigio antracite (eccezion fatta per un piccolo occhiello variopinto), dimensioni tozze, pagine claustrofobiche, titolo dimesso.

Insomma, “Nell’Anno mille” si meriterebbe appieno di essere relegato nei confini infami della bancarella del “tutto a un euro”. E invece, fin dalle prime pagine, si rivela un libro accattivante e, per alcune tematiche trattate, illuminante. Aggettivi questi (accattivante e illuminante) che ben si possono estendere a tutta la collana de “La vita quotidiana” – Fabbri editori – di cui anche quest’opera fa parte.

Si parte dall’affermazione (potenza delle parole!) di Michelet che, appena formulata, assume una forza devastante, a tal punto corrosiva da sciogliere l’attendibilità di studi, documenti che pur la confuterebbero in toto. Ma tant’è. A Michelet è bastato scrivere che “era credenza universalmente diffusa nel Medioevo che il mondo dovesse avere termine con l’anno mille dall’Incarnazione“, per foraggiare la credenza del “Mille e non più mille”.

Eppure già solo limitandoci agli argomenti affrontati in questo libro, possiamo vedere come, pur nella inevitabile stagnazione dovuta a una società profondamente arretrata e ferma, gli elementi vitali che sconfessino la c.d. “fine del mondo” da sempre (e a torto) associata all’Anno Mille, ci sono tutti. Basti pensare alla tenace applicazione della regola di Benedetto da Norcia (“riconfortare il povero, vestire l’ignudo, soccorrere chi si trova nella tribolazione, consolare l’afflitto“) da parte del movimento cluniacense che ha avviato un serio processo rigeneratore nella Chiesa del tempo. E come tralasciare di occuparci come prova, per l’appunto, della vivacità dell’Anno Mille, delle penitenze irrogate dal Penitenziale di Burcardo, vescovo di Worms? Con riferimento a queste ultime, poi, degne di nota sono le penitenze comminate per i “reati” sessuali, alcuni dei quali, a dire il vero, ci sorprendono perfino oggi per la loro perversità:

SE LUI ABBIA OFFERTO A TAVOLA UN PESCE, CHE POI LEI HA INTRODOTTO VIVO NELLE SUE PARTI INTIME, ESTRAENDOLO SOLO DOPO GLI ULTIMI SPASIMI DI AGONIA (…), SONO PREVISTI SETTE ANNI DI PENITENZA.

Restando in tema, la pena per la masturbazione prevista da Burcardo nel suo Penitenziale, è di venti giorni. Praticata in solitudine, costa dieci giorni di penitenza a meno che al posto della mano non si sostituisca un “legno forato” (circostanza, quest’ultima – si affretta a precisa il solerte vescovo – che “raddoppia la pena”).

A riprova della ricchezza di contenuti dell’opera non manca, ad esempio, la chicca linguistica: a chi voglia conoscere l’etimologia dell’aggettivo “banale”, infatti, basta sguinzagliare l’occhio proprio nelle pagine di “Nell’Anno Mille” per scoprirlo.

“Nell’Anno Mille” vuole essere un’analisi del Medioevo in tutte le sue sfaccettature, partendo dalla vita quotidiana dei potenti così come degli umili. E proprio questo voler dare cittadinanza all’aulico senza tralasciare il prosaico, invoglia il libro a toccare diversi registri, da quello didascalico (come quando l’autore si intrattiene a spiegare la denominazione delle diverse ore del giorno: “l’ora Prima al levar del sole; l’ora Terza intorno a metà mattina; l’ora Sesta a Mezzogiorno; l’ora Nona verso la metà del pomeriggio; Vesperi al calar del sole”), al registro “suggestivo” delle pratiche magiche grazie al quale, ad esempio, veniamo a sapere che per rendere impotente il marito, una sposa non ha da fare altro che questo: completamente nuda, si deve cospargere di miele, rotolandosi su uno strato di chicchi di grano; deve raccogliere poi tutti i chicchi rimasti attaccati al suo corpo e li deve macinare, facendo girare la mola nel senso opposto a quello della rotazione del sole. Fatto tutto questo, non resta alla sposa che confezionare un pane con quella farina e offrirlo al malcapitato.

In conclusione, “Nell’Anno Mille” di Pognon ha il grande merito, con la sua narrazione mai banale, di rivestire il Medioevo di rigore scientifico senza tuttavia tralasciare quegli aspetti, secondari ma altrettanto ortodossi, che servono a scongiurare il rischio di un’analisi troppo “pesante”.

martedì 7 aprile 2015

"Expo"sto alla Procura del Buon Senso



L’Expo di Milano.

L’ardimentoso e irredento Suolo Italico, nei giorni della Madunina che vanno dal 01 maggio al 31 ottobre 2015, ospiterà l’evento dopo il quale niente potrà e/o dovrà restare come prima, quando la terra, “orba di cotanto” cipiglio organizzativo, “percossa e attonita al nunzio sta(va)”.

Eccolo il filmato Luce che potrebbe annunciare l’Expo di Milano. E d’altra parte, i numeri ci sono tutti per eccitare la libidine italiota: un’area espositiva di 1,1 milioni di metri quadri, più di 140 Paesi e organizzazioni internazionali coinvolte, oltre 20 milioni di visitatori attesi.

Cannele, cannelotte e sei lumini.


I preparativi fervono. I cantieri sono madidi di fatica a ogni ora del giorno e della notte, per non farci trovare impreparati all’evento. Che poi, se proprio non si riuscisse a fare tutto tutto, c’è sempre il salvifico maquillage. E difatti, come testimonia il bando di gara, Expo è pronta a ricorrere a un trucco, o camouflage, da oltre 2 milioni di euro per coprire i suoi ritardi con paratie, trompe-l’oeil, prefabbricati e teli.

E per forza, aggiungerei io: noi, “Paese dell’Arte e dell’Inventiva“, c’eravamo portati avanti col lavoro, avevamo già completato l’assemblaggio della componentistica (pezzi di ricambio, maestranze, oli di tutte le viscosità – dal più grasso per gli Incalza di turno, al più delicato per lo sguardo altrove del consigliere – movimento terra, capace da solo di evocare l’apriti sesamo di Alì Baba e i quaranta ladroni).

Riversato nell’Expo tutto ‘sto popò di ingredienti, non ti viene la magistratura a fare la protagonista e a indagare su Cristo e la Madonna Vergine?

E via con il sempiterno clamore che assale l’opinione pubblica: tutti a starnazzare che è uno schifo, che ci vuole una legge seria sugli appalti per scongiurare i fenomeni corruttivi, e cicì e cicià.

Ma se dietro ogni pietra spostata in un cantiere (mi verrebbe da dire alla massa che si costerna, s’indigna, s’impegna) c’è sempre stato, in Italia, il caravanserraglio di speculazione, tangenti e corruzione varia, di che minchia ci sorprendiamo? Che poi, forse le Grandi Opere non si sono costruite lo stesso? Magari con una decina d’anni di ritardo sulla tabella di marcia, a volte con qualche crolletto qua e là, certe altre con un po’ di sabbia invece del cemento armato, ma comunque i lavori si sono realizzati, altro che ciance. Anzi, direi di più: con il nostro sistema, non solo abbiamo dotato le città di tutte le infrastrutture che ci hanno commissionato, ma abbiamo movimentato pure l’economia col distribuire un po’ di soldi a destra e a manca. Cosa che i tedeschi con la puzza sotto il naso dovrebbero venire a scuola da noi, piuttosto che uscire fuori di melone (ecco, mo ci vuole) e far morire 150 passeggeri in un aereo lanciato contro una parete rocciosa del sud della Francia. Certo, pure Schettino ha provocato un bel po’ di sfaceli lì sul Giglio, ma almeno l’ha fatto con la simpatia del comandante che si “terzèa” la hostess moldava, vuoi mettere?

expo2

Ah, l’Expo! Nutrire il pianeta. Che fine nobile, che bella missione!

Dal 01 maggio al 31 ottobre, convoglieremo milioni di persone a Milano, sui terreni espropriati a prezzi irrisori ai contadini che li coltivavano, in molti casi, con colture biologiche. Li accoglieremo nei padiglioni allestiti, ognuno diverso e più ricco dell’altro, su quegli stessi campi che si vedranno irrimediabilmente invasi da cemento e paillettes. Il tutto per parlare di nutrizione equa e sostenibile.

E fosse solo questo! Per discutere del cibo a chilometro zero, all’Expo abbiamo fatto venire da ogni angolo del globo terracqueo persone e sementi variopinte, con spostamenti siderali di persone e alimenti.

Come dici? “Come se si affrontasse il problema dell’inquinamento da idrocarburi su chiatte petrolifere ammassate nel Mediterraneo mentre sono intente a lavare le cisterne?”

Cosa ancora? “Che basterebbe organizzare una mega chat su Skype per evitare che Milano venga intrappolata nella morsa dello smog, del caos e della claustrofobia da sold out“?

Il solito comunista disfattista, gufo, nemico del progresso. E io, mentre sulla stronzata di Skype non ti rispondo neppure, alla prima provocazione sai cosa rispondo? Quando il dito indica la luna, lo stolto guarda il dito!

Con l’Expo come con la TAV, sempre la solita, stucchevole storia: mentre tu guardi pateticamente all’inquinamento, alla cementificazione dell’evento di Milano; nel frattempo che fissi il tuo sguardo poetico sull’anonima Val di Susa; ebbene, mentre tu ti limiti a questo, noi guardiamo al prestigio dell’Expo così come al progresso che dovrà sventrare la tua montagnetta.

E se proprio l’opera dovesse rivelarsi inutile, poco male: avremmo sempre messo le ali all’economia… domestica.

Insomma, per intenderci, “Per le grandi opere non serve che ci sia traffico: si fanno e poi il traffico arriverà”.

Non riesci a rassegnarti allo Spirito del Tempo? Presenta pure un “Expo”sto alla Procura del Buon Senso, che io me ne sto fermo qui a scompisciarmi dalle risate.

martedì 31 marzo 2015

Paolo Conte, mannaggia a te!

Paolo Conte, mannaggia a te! A te che te ne stai lì, col baffo sornione e lo sberleffo ringalluzzito di chi ha capito che la fuga dalla vita è la quintessenza.

A te, Conte Paolo, che ti diverti e ti estenui, rannicchiato nell’ombra dei tuoi diesis e bemolle capaci di strapparmi un sorriso di tregua ad ogni accordo. Eppure non ci sarebbe nulla da sorridere, mannaggia a te… e mannaggia pure a me che continuo a sorridere come uno scimunito, sprofondato in fondo ad una città.

Prima di quella sera, prima che l’orchestra illusa a Napoli del San Carlo mi ribadisse che sì, Max, la tua facilità non semplifica, Max, sciorinando lamine di luce lungo il mio angusto universo musicale, avevo una vita “ganza”. Poi (che Atahualpa o qualche altro dio ti fulmini), con l’aggettivo giovane (“ganza”, per l’appunto), è scomparsa dalla mia vita pure Marisa.

Meschina! Mi amava, in estate mi portava (sempre) a far due passi in riva al mar. Ma come sopravvivere, poveretta, al ventiquattresimo rewind  per capire se il termine masnaia di Ludmilla fosse proprio masnaia? Salvo poi (mannaggia a te, mannaggia!) precipitarmi raggiante a casa di Marisa e rivelarle che il mistero era bell’e svelato: la parola masnaia del Paolo Conte “Del tempo fatto di attimi e settimane enigmistiche” era stata inventata (non sense) di sana pianta. Insomma, uno dei suoi tuoi tanti, ingarbugliati giochi linguistici… mannaggia a te, mannaggia!

Ricordo che oscillava misterioso il lampadario. Ma questo è secondario. Primario fu il tuo: <<A me è sempre piaciuta la disco. Il tuo Paolo Conte è out>>.

E siam rimasti lì, chiusi in noi, sempre di più.…

Mannaggia a te, avvocato di Asti!

Ora, mentre sto pestando l’uva nel tinello marron, mi squilla il cellulare. È Jimmy che m’invita al concerto di Tiziano Ferro. Mi dice che c’è folla, che con lui ci stanno pure due tipe che conosco per la loro insulsaggine. Io ci rifletto un po’ su. E poi gli dico: <<Jimmy – ridendo e scherzando – non vorrei dire, però… ci meritiamo, di più, di più!>>

Paolo Conte, mannaggia a te, mannaggia! Prima di te avevo sempre l’ultimo modello di cellulare e ora non so resistere alla tentazione del telefono con la rotella che fa da sottofondo alla sigla di Carosello. Suonavo il pianoforte digitale che ho barattato con uno verticale con i tasti ingialliti dai night del secolo scorso. Mi lavavo con profumi ed essenze, ora il mio corpo conosce e reclama solo il suggestivo pulito della saponetta. Ballavo l’ultimo hip-hop e ora nessun grammofono di frontiera mi dà l’incendio di un’habanera.

Mannaggia a te, Conte Paolo!

Sono invitato al matrimonio di Ettore. Si è sposato a novembre perché, da pianista di piano bar, mi dice che non si guadagna con le note “blue”.

Ora mi annoio più di allora. Fuori il locale piove un mondo freddo. Io, sotto lo sguardo vitreo dei bicchieri di boemia, vengo assalito da un delirio agguato di nostalgia.

C’è un pianoforte a coda lunga, nero che ingentilisce la sala. “Non mi fido, – penso tra me e me – in certi casi un pianoforte è un grido, ci sono gambe che si sfiorano e tentazioni che si parlano”. E infatti una bionda (esasperante il suo languor) confabula con la sposa fino a quando quest’ultima, ammiccante, mi chiede: <<La vuoi conoscere Madeleine? È austriaca!>>


È bella quanto il sole. Ma d’istinto rispondo: <<Io parlo male il tedesco, scusa, pardon!>> Poi, per cercare di giustificarmi, spiego: <<Non vedo tra parentesi nessuno, venuto da lontano per esistere con me>>.

Mannaggia a te, Paolo Conte!

Grut-grut-grut, pot-pot-pot, cling-cling-cling… è un traffico africano che mi avviluppa non appena esco dal locale.

Torno a casa tardi. Accendo la luce. Va via la corrente.

Mi sorprendo a sorridere. (Mi) offro l’intelligenza degli elettricisti, così almeno un po’ di luce (la stanza) avrà.

Mi metto al pianoforte, con la finestra aperta nonostante la notte gelida. C’è un po’ di vento, abbaia la campagna e c’è una luna in fondo al blu.

Le intemperanze luminose del Mandingo, un sexy shop di recente apertura, come un lampo giallo al parabrise, mi rimandano al Mocambo che fu tutto in fior.

Torna la corrente. Improvvisamente, però, i miei occhi si ribellano alla luce da neon della plafoniera. Accendo, allora, la pallida lampada araba, sognando ‘na scudisciata turcomanna a mezza luna.

Suono rievocando la giarrettiera rosa di tutte le Madeleine che mi sono perso e batte, batte forte il cuor sul territorio dell’amor.

Tra una pausa e un’acciaccatura s’infilano le bestemmie dell’ing. Piastretta del piano di sopra. E nonostante ribadisca il concetto (mannaggia a te, Paolo Conte!), mi sento fradicio di magia.