mercoledì 23 settembre 2015

La Monsanto ovvero la mela avvelenata della Terra


Solo negli anni Sessanta, a seguito della denuncia di come le grandi praterie americane trattate con l’erbicida 245T della Monsanto diventassero silenti, prive di vita («la primavera silenziosa»), il movimento ecologista si accorge della grave minaccia per l’ecosistema rappresentata proprio dalla «Microsoft del transgenico

L’erbicida 245T, infatti, è altamente tossico. È così potente che l’esercito americano lo impiegherà come defoliante per bruciare le foglie degli alberi vietnamiti; e con esse, i Vietcong, che saranno costretti a uscire allo scoperto e, infine, massacrati.

Composto gemello del 245T, è l’«agente orange»: un preparato altamente cancerogeno, che ha provocato e continua a provocare danni immunitari e all’apparato riproduttivo.

Eppure, fin dalla crisi del ’29, quando la Monsanto inizia a produrre i famigerati policlorobifenili (PCB), i pericoli per la salute e i danni all’ambiente sono evidenti. Ma tant’è: a volte la storia, l’economia, vanno in corto, e le metastasi di un capitalismo radioattivo, aggrediscono gli anticorpi incapaci di reagire.

Negli anni Ottanta la Monsanto scopre il Roundup, pesticida potentissimo anche nel far lievitare i suoi profitti (di circa il 20% all’anno). Da lì a poco, inventa una semente super resistente che s’impegna a diffondere assieme al Roundup stesso.

Il pacchetto doppio (sementi-pesticida) di proprietà esclusiva della venefica multinazionale, è bello e infiocchettato.

Nel 1998, poi, arriva la modifica genetica della pianta che diventa sterile. Eccolo materializzarsi, quindi, il giogo che riduce in schiavitù tantissimi contadini. E sì perché la Monsanto può sterilizzare le piantine e poiché, ormai, molti agricoltori dei Paesi poveri sono costretti ad acquistare le sementi proprio dalla Monsanto, fin dal primo acquisto questi ultimi saranno alla mercé, anno per anno, del loro carnefice.

Certo, la storia della Monsanto potrebbe continuare con la diffusione, tra gli altri,  del Prosilac, ormone capace di gonfiare il bestiame come una zampogna, e con tanti altri prodotti tossici, tutti con il minimo comune denominatore di nuocere gravemente alla salute e all’ambiente. Ma mi fermo qui.

Nella religione, nei miti e nelle favole, la mela raccontata ha spesso proiettato un’ombra sinistra sulle qualità nutrizionali del frutto. Basti pensare alla mela che il serpente fa mangiare a Eva; oppure, alla mela d’oro che, nel giudizio di Paride, scatenerà la guerra di Troia; fino ad arrivare alla mela avvelenata che la strega convince Biancaneve ad addentare, procurandole una morte apparente.

Il servo del principe azzurro, però, inciampa in una radice sporgente e fa cadere la bara giù per il fianco della collina. Durante la caduta, dalla bocca di Biancaneve racchiusa nel sarcofago, fuoriesce il boccone di mela avvelenato. La fanciulla finalmente si sveglia. Ora è salva e libera di godersi l’amore del suo principe

Ecco, in questa storia (parziale) della Monsanto, dove spesso i controllori e controllati sono le stesse persone, dove il profitto tiene al guinzaglio il diritto fondamentale alla salute, per evitare che la mela transgenica della Monsanto azzeri per sempre la biodiversità, dovremmo trasformarci tutti nella radice della fiaba: metterci, cioè, tra i piedi del gigante transgenico, e farlo finalmente inciampare, provocandone la definitiva e rovinosa caduta.

Occorre, in conclusione, vigilare e ribellarsi, singolarmente e come corpo sociale, al dominio pestilenziale della Monsanto.

 

 

 

mercoledì 16 settembre 2015

"Corale alla fine del viaggio", di E.F.Hansen


15.04.1912: il viaggio perfetto, della nave perfetta perché inaffondabile, trova il suo epilogo in un irriverente squarcio nella carena perché la situazione è terribilmente semplice (…): il Titanic può rimanere a galla con i tre compartimenti anteriori allagati e, se il mare è calmo, anche con quattro. Ma non è in grado di farlo quando sono cinque.

E ben presto i compartimenti allagati diventano proprio cinque, e poi sei, e infine sette.

Ed eccolo l’ultimo viaggio di Hansen, quello degli enormi sacrifici e delle indicibili privazioni soprattutto per la terza classe: sacrifici e privazioni prima, nel mettere assieme i cinquanta dollari necessari per sbarcare a New York come prescriveva la legge sull’immigrazione; poi, nel vedersi sbarrati le porte e i portelli da sentinelle ligie fino alla disumanità al mantra di vietato l’accesso alla prima classe (quella stessa prima classe che, durante la cerimonia religiosa della domenica, si è improvvisamente scoperta accessibile a tutti); infine, sacrifici e privazioni per essere stati i primi, gli occupanti della terza classe, e per molto tempo gli unici (troppo lontani, fisicamente e mentalmente, sono i signori innalzati agli altari delle cabine “vista stelle”) ad avere la contezza della tragedia che si sta consumando.

E quelli che la selezione naturale ha deciso dovessero appartenere alla prima classe?

Fin pochi minuti prima dell’inabissamento, sono riluttanti a calarsi nelle scialuppe (occupano 12, 24, 28 posti dei 65 disponibili), pronti a fare rimostranze a chi di dovere perché i giubbotti di salvataggio non fanno pendant con lo smoking.

Questo convincente romanzo di Hansen, però, non è la storia dell’equipaggio del Titanic e della sua manichea distinzione in ricchi e poveri, principi e mendichi. Siffatta opera vuole essere innanzitutto il racconto inventato, eppure tremendamente realistico, di un viaggio: quello ultimo dei musicisti che fino a poco prima del disastro, all’inizio per ordine del commissario di bordo (se durante le operazioni di salvataggio voi suonate, tutto sembrerà più…una specie di esercitazione), di poi per libera scelta, suonano soprattutto per esorcizzare, ancora una volta, i loro demoni.

Sullo sfondo della vicenda del Titanic, infatti, lo scrittore si sofferma sulle biografie dei protagonisti, tutti spinti a quel viaggio finale da fallimenti esistenziali più o meno marcati, quasi a conferma del Siamo impegnati in un gioco che non possiamo vincere. Alcuni fallimenti sono migliori di altri, questo è tutto di Orwell; ognuno dei musicisti quasi in fuga da una vita che li ha visti incompresi, perduti, parti in scena di un copione che non hanno mai avuto la forza e il coraggio di fare proprio. Fino a quando, proprio in quest’ultimo viaggio che avrebbe potuto consacrare un’esistenza trascorsa a vedersi vivere, i musicisti del Titanic non si scoprono finalmente e decisamente uomini.

E qui, quasi come se le note del pianoforte di Spot e del violino di Jason si sobbarcassero il compito di tenere in vita lo spirito della nave, capiscono che non possono abbandonare il Titanic, perché è solo con l’ultimo rantolo dell’Inaffondabile che si apre il varco per il riscatto finale. E solo con la fine – ormai l’orchestra ne è pienamente consapevole – l’estrema nota potrà piantare il suo vessillo despota sulla ritrovata umanità della corale; già, proprio e solo in questo preciso momento, alla fine del viaggio.

La nave e l’oceano erano avvolti da un buio pesto. In quel momento videro il cielo illuminato di stelle. Era insolitamente limpido.

Le ultime ore del disastro, quel buio assoluto e terrorizzante contro l’acqua scura e il cielo nero: nessun film o resoconto l’aveva mai restituito con tanta angosciante realtà (Isabella Bossi Fedigotti, Corriere della Sera)


giovedì 10 settembre 2015

"Saltatempo", di Stefano Benni


Eccolo, Lupetto, che proprio nel corso delle prime pagine si tramuterà in Saltatempo!

Scarpagna, brutto che tutte le volte che sorridevo a una principessa, quella cercava rifugio presso il drago, verso le scuole elementari Bisacconi (un cubo giallo vomito dentro un giardino di erbacce barbare).

Siamo nel pieno degli anni ’50. E mentre il (tra poco) Saltatempo si esalta mangiando un grappolo di zibibbo (l’esplosione che avviene quando il dente lo ferisce è come uno sborramento di gusto (…) e tu tossisci e godi e tossisci e godi e mentre tossisci mandi giù un altro chicco per godere di piùe si estenua addentando il paneterno (pane a tal punto duro che lo potevamo mangiare solo io, il cane Fox che era un bracco grande come un cavallo, e la strega Berega dentidighisa), si imbatte nel dio.

Avete presente l’immagine di Dio che il catechista solerte vi ha inculcato tra uno sbadiglio e l’altro? Ebbene, dimenticatela: il dio di Stefano Benni è

alto come una nuvola, con una barba immensa color letamaio, scortata da mosche, tutto vestito di strati e stracci. (…) Ha un bastone di pero e un cane vecchio, ma vecchio che ha annusato chissà quante pisce di tirannosauro.

Ma se è opportuno scordarsi dell’effige del Padreterno, lo è ancora di più estirpare dalla mente la posa ieratica e solenne in cui lo stesso abitualmente si affaccia sul nostro immaginario. Avete resettato? Bene, solo così potete minimamente sopportare il dio di Saltatempo che si tira giù i tre o quattro tipi di braghe e mutande e comincia a farla, ma farla davvero. Ed è alla fine del trionfo di merda tiepida che a contatto col suolo sprigiona una nube di vapore immensa e odorosa che il dio, alzando al cielo un dito sozzo e magnifico, fa dono al ragazzo (non senza aver prima chiesto in cambio un pezzo di paneterno) dell’orologio dentro che misura un tempo che non va dritto, ma avanti e indietro, fa curve e tornanti, si arrotola, inventa, rimette in scena.

Dopo quest’incontro, Lupetto lascia definitivamente il posto a Saltatempo. E lo vediamo vivere, il nostro eroe eponimo, immerso nel suo tempo, nel paese che pian piano trasforma le stipate cavedagne in claustrofobiche autostrade, che contrappone ai valori semplici e genuini di suo padre, un falegname comunista zoppo di tagliola, il disvalore predatorio e affaristico del sindaco Fefelli.

Guardiamo con simpatia Saltatempo che si arrabatta tra i primi riflussi ormonali, tra le avvisaglie di un ’68 che gli farà capire, in maniera quasi casuale ma non per questo meno convinta, da che parte stare; la stessa parte, cioè, di suo padre, di suo zio Nevio, dei tanti amici incontrati nel suo percorso formativo che si opporranno, più o meno direttamente, alla cementificazione della valle, al dilagare del capitalismo amorale, all’affarismo cialtrone di un’Italia che si condannerà alla perdizione.

Saltatempo però, con l’ironia e la leggerezza che l’ottimo Benni ha insufflato nell’anima del suo protagonista, sarà anche capace, non appena si troverà al cospetto di un ticchettio di una goccia d’acqua o di qualsiasi altro elemento in grado di dare l’idea (fisica) del tempo che passa, di vedere nel futuro, di capire che quello studente che inneggia alla rivoluzione diventerà ben presto un servo sciocco del sistema; così come che quel tratto di valle in cui amava pescare da piccino sarà asfaltato per dare sfogo alla “bulimia da cubatura” della nuova classe politica.

Ed è proprio in uno di questi momenti divinatori, mentre un orologio da quiz  segna i secondi che mancano per rispondere, che il nostro Saltatempo ha l’ennesima visione,

come l’esplosione di un altissimo fungo atomico di cretineria, e le scorie ricadevano su ogni punto del nostro paese (…), e l’effetto era un rincoglionimento totale, cosmico, indescrivibile. Nessuno aveva ancora capito che quell’elettrodomestico lì era il balcone dei Beniti futuri.

Saltatempo lo sa, lo vede grazie all’orologio dentro, e prova un sentimento di paura, proprio mentre uno degli strampalati personaggi della sua combriccola rifletterà sul significato delle marche, delle firme: l’hambuger?

20 lire di pane, 180 di polpetta, 1800 lire di nome americano.

Un romanzo leggero e profondo, ironico e di denuncia, di formazione e di rottura, il Saltatempo di Stefano Benni. Un’ulteriore voce della composita sinfonia dello scrittore, uno degli ultimi artigiani provetti della parola.

giovedì 3 settembre 2015

Caldo umido a Salerno, nebbia in Val Padana



Italia, Campania, Salerno

L’avverto quando, dando libero sfogo alle insaziabili polacchine, azzanno ancora un tratto di strada; di quelle principali, s’intende: via Roma, piazza Flavio Gioia, piazza Portanova.

Diventa palpabile non appena decido di stufarmi di radiografare l’anatomia del mio piede e alzo lo sguardo ad un’altezza che ben si confà all’animale sociale che è in me. Ed è a questo punto che si manifesta, dando prova plastica della pervasiva presenza, con le targhe che ammiccano sui citofoni istoriati.

Avv. Antistatario, inevitabilmente figlio dell’omonimo assessore comunale.

Medico chirurgo 8giornidiprognosi, incontrovertibilmente nipote del presidente della Camera di Commercio di Salerno.

Ingegnere Direzionedeilavori, fatamente fratello del direttore del museo provinciale.

Eccolo materializzarsi, quindi, il caldo umido di Salerno che inzacchera il merito dei non protetti, invischia le potenzialità dei figli di nessuno, intrippa le sinapsiincartapecorisce l’estro dei privi di natali illustri, nobilissimi e perfetti.

È una cappa filamentosa che cinge in un abbraccio mortale l’intero perimetro della città, da Pastena alle porte di Vietri sul Mare. È un respiro asmatico che fischia e scatarra per coprire il brusio di fondo dell’ennesimo tentativo di affermazione.

Certo, a Salerno ci sono le Luci d’artista, un lungomare meraviglioso; ci sarà un Crescent che si annuncia, almeno nelle intenzioni degli inguaribili ottimisti, un manufatto venuto da cielo in terra a miracol mostrare.

E come non parlare, poi, della movida, dei numerosi eventi che premiano le arti e gli artisti, di una programmazione di spettacoli degna di una grande capitale?

Tutto vero e apprezzabile, ça va sans dire. Eppure…eppure.

È come se ogni evento, ogni manifestazione si trovasse a scontare l’ombra lunga e filamentosa di un ventennio e più di potere monocolore. Un governo cittadino che ha avuto tutto il tempo di diffondere metastasi relazionali in ogni tessuto del corpo cittadino fino a compromettere la vivace salubrità dell’ingegno veramente libero.

C’è una domanda, nascosta in nessun quartiere perché presente in ogni angolo di Salerno, che sembra pendere sul capo di ogni salernitano che vuole spendere i talenti che ha in dotazione o di cui si è riempito la scarsella a prezzo di enormi sacrifici: Sì ma…chi conosci, chi ti ha parlato di noi, chi ti manda?

In un impeto di reflusso egalitario, vorrei poter dire che ogni quisque de populo talentuoso è conoscente mio, che lo sponsorizzo io in questa palude di rinnovamento che a volte Salerno è, salvo poi, con annichilente rammarico, ricordarmi che anch’io faccio parte della plebaglia anonima; per di più, di una massa finanche priva di talento.

Viviamo, nella bellissima Salerno, un’epoca di inondazione conformistica. Ed in ogni inondazione che si rispetti, la prima cosa che manca è l’acqua potabile.

Buona fortuna.

giovedì 27 agosto 2015

"Un rivoluzionario chiamato Pancho", di Paco Ignacio Taibo II


Doroteo Arango, in arte Pancho Villa

Alla fine della lettura di questa monumentale biografia di Paco Ignacio Taibo II, è necessario chiudere gli occhi, prendersi una pausa dalla vita per trovare finalmente requie: di troppi sentimenti, gesta, persone, è difatti ricca la storia del famigerato Pancho Villa.

Già: chiudere gli occhi, si diceva; ma per troppe persone il gesto naturale e vitale di abbassare le palpebre ha significato, negli anni della rivoluzione messicana, il terrore di veder risorgere lui, Pancho Villa, alla guida della leggendaria Division del Norte .

Ma chi era Pancho Villa? Ed ecco che il bardo cieco riacquista la vista del mito, lo scrittore indomito rispolvera la nervatura della leggenda.

1894, stato di Durango, Messico. Il torto subito s’incarna nelle fattezze di un giovane mezzadro che, tornato a casa dal lavoro, vede l’onore di sua sorella minacciato dal potente don Augusto Lopez Negreta.

Doroteo Arango, all’epoca degli eventi troppo insignificante per sostenere il peso del Pancho Villa che diventerà, spara. E lo sparo lo condannerà alla macchia.

Per 17 anni dei 30 vissuti prima di partecipare ad una rivoluzione, era stato un fuorilegge: ricercato dalla giustizia, bandolero, ladro di bestiame, brigante.

Finalmente, poi, l’incontro con Francisco Madero, la Rivoluzione, la Storia; e, soprattutto, la scoperta della sua missione: lotta senza quartieri, massimamente con azioni di guerriglia, alla dittatura che nel corso degli anni si incarnerà in diversi personaggi e presidenti.

Nascerà il Pancho Villa stratega geniale che, pur (troppo spesso) con un equipaggiamento raffazzonato, riuscirà ad elaborare strategie sì raffinate da suscitare l’ammirazione degli osservatori internazionali. Lo stesso comandante irriducibile che, per la prima volta nella storia, violerà il sancta sanctorum del capitalismo americano con l’attacco a Columbus, nel New Messico.

Si formerà, poi, il Pancho Villa uomo: capace di attacchi di collera feroci ma anche (e soprattutto) di slanci di generosità e disinteresse tali da mettere in crisi qualsiasi topos dell’eroe positivo.

Pressoché illetterato, fonda ben 50 scuole in un solo mese da governatore dello stato di Chihuahua, persuaso che gli insegnanti debbano essere pagati di più dei guerriglieri.

Convintamente astemio in anni e ambienti di fegati allevati a sotol (bevanda nazionale di alcuni stati del Messico) che più di una volta ha appannato la lucidità dei suoi uomini.

Amante instancabile, capace di risolvere un matrimonio (uno dei tanti) non più gradito con il semplice strappo del certificato matrimoniale e purtuttavia rispettoso dell’universo femminile.

Pancho Villa, uomo diffidente fino allo stremo che era solito svegliarsi in un luogo quasi sempre diverso da quello scelto per addormentarsi, che prima di uscire di casa esigeva che venissero spente le lampade per non stagliarsi in controluce, che infine prese l’abitudine di nascondere piccoli e grandi tesori, comunque impiegati per l’azione rivoluzionaria, in posti improbabili conosciuti solo da lui.

E poi, quasi come se anche Essa potesse diventare un dettaglio al cospetto di una biografia così illustre e ricca, ecco la Storia esigere il suo tributo di vicende e personaggi: per intenderci, il Pancho Villa che conquista numerosi stati del Messico (Torreon, Ciudad Juárez, Ojinaga, Città del Messico), che si allea con Emiliano Zapata condividendo con lui il progetto di una grande riforma agraria (piano di Ayala, 1911), che lotta contro Diaz, Orozco, Huerta, che viene braccato inutilmente dalla Spedizione punitiva americana con corredo di cospicua taglia.

Nell'età della (parziale) disillusione, ecco il Pancho Villa versione Cincinnato. Caduto Carranza (1920), Villa depone le armi, ottenendo dal presidente de La Huerta, oltre alla garanzia di uno stipendio per i suoi compagni d’arme, l’azienda di Canutillo, ben presto trasformata in un funzionale villaggio dotato di elettricità, scuole, ufficio postale, sempre pronta a dare ricovero e riparo a chiunque, animato dalla volontà di mettersi al servizio della comunità, ne avesse fatto richiesta.

Alla fine della corsa, nel 1923, vi è l’assassinio di Pancho Villa che, intento a lavorare di frizione e di cambio, viene raggiunto dalle raffiche della cospirazione mentre cerca di far uscire la sua Dodge dalla buca in cui si è impantanata.

Gli esecutori che vanno via indisturbati, le truppe della guarnigione di Parral assenti proprio nell'occasione dell’agguato, numerosi indizi sul coinvolgimento del presidente Obregon e dei suoi accoliti, la magistratura che impiega ben 9 giorni per aprire l’inchiesta. Affastellamento di dati, questi, che denunciano una congiura per un personaggio che, pur ritirato a vita privata, è comunque un ostacolo alla politica dell’interesse e del sotterfugio.

Così, tanto per aggiungere una nota di colore, c’è una testa, quella del generale Pancho Villa, che viene spiccata dal corpo e viene trovata in giro per il Messico, ora qui ora là, pronta ad alimentare l’ennesima leggenda.

Basta chiudere gli occhi: ed ecco il generale Villa, magari decollato, che al grido di Viva Villa della Division del Norte, attacca indomito la canaglia intenta all'ennesimo sopruso; pronto, il nostro Pancho, a ridersela sotto i baffi anche del Villa morirà di morte naturale a 90 anni…ha una fortuna sfacciata e le pallottole non lo raggiungono profetizzato dal compagno Felipe Angeles.

Paco Ignacio Taibo II è un vulcano portatile, una pentola a pressione senza la sicura, la viva immagine di ciò che i nonni pensavano fosse un libero pensatore. I suoi romanzi sono urbani, secchi duri. La sua scrittura, come un gancio alla mandibola.

martedì 18 agosto 2015

Mi chiamo Maruzziello e amo gli extracomunitari


Mi chiamo Maruzziello. Sono un nassarius mutabilis; per intenderci, una lumaca di mare. Sì, proprio uno di quei molluschi in cui vi piace infilzare lo stuzzicadenti per estrarne la intrigante e sfuggente polpa.


Sono originario di Salerno. Nello specifico, del porticciolo di Pastena.

In Campania tutti noi ci chiamiamo maruzzielli ma qui, in questo lontano lembo di mare in cui sono emigrato per cercare fortuna, di Maruzziello ci sono solo io. E quando ho dovuto scegliere un nome per darmi un’identità oltreché un tono, ecco l’idea: Maruzziello, per l’appunto, chè tanto di campano, in questa frangia di mare lampedusano, c’è solo la mia bella conchiglia.

Avremmo sì dovuto essere in due ad emigrare ma poi, all'ultimo minuto, non ti viene il maruzziello di turno (cacasotto!) a farti la sola? Certo che sì, ovviamente. Il fatto è che ci sono dei maruzzielli, come il mio compaesano Tortiglione, che pur fiutando l’occasione per ingrassarsi come un budda, non ce la fanno proprio a lasciare il fazzoletto di mare in cui sono nati; e che pur di non abbandonare la propria mattonella d’acqua, sono capaci di accontentarsi del corpo di qualche camorrista incaprettato e buttato a mare e/o del suicida una tantum che ha la compiacenza di scegliere il tuo tratto di pertinenza per farla finita.

Quisquilie, pinzillacchere.

Io invece, da quando ho deciso di emigrare, ho trovato il mio Eldorado: non passano trenta carrette del mare che almeno una, in tutto o in parte, non decida di far felice il palato del suo Maruzziello con il tributo (liberamente offerto, per carità!) di carne umana ruspante e succulenta. Percentuale questa, ovviamente, che si arricchisce ancora di più nei giorni di mare tempestoso.

Io, da parte mia, prima di mettermi all’opera, mi limito a godermi lo spettacolo; certo, un po’ monotono, ma comunque vario pur nel suo canovaccio pressoché identico. E sì perché una cosa è vedere annegare un uomo vigoroso, in piena salute, che prima di affogare si agita come un ossesso nello strenuo tentativo di ribellarsi all'elemento estraneo che tenta di sopraffarlo; tutt'altra cosa, invece, è assistere alla flebile resistenza all'acqua delle donne incinte e dei piccoli denutriti.

Tempo un minuto che la superficie del mare, di questi ultimi ospiti, non serberà nemmeno il ricordo, archiviando la pratica con l’affidamento quasi immediato al fondale.

Io, maruzziello sempre più panciuto e libidinoso da quando sto qui, aspetto la porzione di carne che puntualmente si offrirà indolente alla mia opera distruttrice.

Inizio con col mangiucchiare gli occhi, così molli e “callosi”. Attenzione, però: il mio lavoro non è dozzinale come quello dei pesci e degli altri molluschi che accorrono ad ogni nuovo annegamento, nossignore. Io, modestamente, sono mastro d’opira fina. Ad esempio, con riferimento al mio piatto preferito (gli occhi, come confessavo poc’anzi), prima succhio la patina gelatinosa che ricopre le pupille, poi raschio ogni singolo velo che ricopre il bulbo oculare. Infine, dopo un lavoro meticoloso di cesello e sagomatura, provvedo a scarnificare le orbite ormai vuote e silenti.

Si badi bene, però: la mia felicità non è dovuta solo alla frequenza dei pasti esponenzialmente maggiore rispetto a qualsiasi altro mare. La soddisfazione più grande, l’appagamento maggiore che Maruzziello vostro possa provare, sta proprio nel fatto che non da semplici esseri umani il cibo è costituito, ma proprio da extracomunitari. Qual è la differenza? Incommensurabile. Per intenderci, la stessa che passa tra un pollo allevato in gabbia (flaccido, indolente, contaminato dai compromessi con la farmaceutica) e uno ruspante, cresciuto allo stato brado (energico, “nervoso”, forgiato dalla selezione naturale che pretende una reazione al destino di vittima sacrificale). Non è chiara ancora la differenza? E allora, il sempre vostro Maruzziello, v’invita a pensare agli occhi succitati.

Gli occhi dei disperati dei barconi hanno, incastonato nella loro pupilla zuccherina, il miele del sogno. Quelli degli esseri umani comuni invece, il retrogusto acido dell’indifferenza.

Buon appetito!


mercoledì 5 agosto 2015

Tornate al Sud e facciamo la rivoluzione



Sud. Parliamo un linguaggio di verità: un problema come la “questione meridionale” che da 154 anni sta ancora lì, è un problema che non si vuole risolvere. A maggior ragione adesso che di politici di spessore analogo a quello di Gramsci, Salvemini, Croce, Fortunato, non solo non se ne vede manco l’ummira ma addirittura se n’è smarrito il lascito

E a nulla vale, in questo contesto, richiamare il saccheggio operato dall'Italia Unita ai danni di un Sud incredibilmente ricco e prospero appena prima del 1861 (testimonial di questa ricchezza che si voleva proteggere, sono i troppi combattenti assai presto diventati briganti per l’esercito unitario).

Ciò che vorrei proporre qui, in questo articolo, al di là della denuncia sacrosanta di Saviano e della risposta “da cliché” di Renzi, è una soluzione. Già, proprio così: sommessamente, umilmente, sottovoce (alla Marzullo) una soluzione che si risolve, nella fattispecie concreta, in un invito a tutte le intelligenze che hanno dovuto, voluto abbandonare il Mezzogiorno per spendere i loro talenti in una realtà più ricca e dinamica.

Ebbene, compagni “inseriti” del Nord, se non ne potete più di sentire bistrattare il Sud, il vostro Sud; se ne avete le palle piene dei ricchi industriali che “scendono giù” il tempo necessario per impiantare i loro scheletri maleodoranti, vendere un po’ di fumo, e ritornare al Nord a grandeggiare con il profitto grondante sangue di chi si è fidato; se ancora vi rode il fegato al solo avvertire il puzzo rancido del razzismo strisciante di chi riesuma un giorno sì e l’altro pure la macchietta del meridionale piagnone e parassita; e se, infine, nonostante la rabbia verso una realtà che non vi ha capito, che ha irriso la vostra preparazione e che ha soffocato nella culla ogni sia pur lieve gemito di affermazione…; se, dicevo, malgrado tutti questi legittimi motivi di astio verso il Mezzogiorno, provate ancora amore per il nostro irriverente Sud, ebbene, in questo caso, ascoltate la mia preghiera accorata: Tornate al Sud e facciamo la rivoluzione.

<Come come (obietterete giustamente)? Bella testa ingegnosa che sei: lasciamo il nostro lavoro al Nord, torniamo al Sud e così, invece di risolvere la questione meridionale, la rimpolpiamo con la nostra disoccupazione!>

No, non è così, vi prego di darmi un minimo di credito. Fiducia accordata? Bene, vengo e mi spiego. In che consiste ‘sta trovata cheguevariana? E’ presto detto: voi che occupate ruoli strategici al Nord, in massa (è la somma che fa il totale!) così, tra il lusco e il brusco, ve ne scendete tutt’assieme al Sud.

Ora, ditemi voi, come si fa a licenziare (perché lo capisco, ci mancherebbe altro, che questa è la preoccupazione fondamentale per tutti voi) milioni di lavoratori che occupano posti di responsabilità al Nord? Non si può, né tanto meno (ho pensato pure a questo) il vostro lavoro vi potrà essere rubato dagli extracomunitari che, per loro sfortuna, non hanno una preparazione tale che gli possa consentire di sostituirvi in ruoli dirigenziali.

A questo punto, non senza un minimo di soddisfazione per aver meritato un briciolo di considerazione non foss’altro che per la consequenzialità del mio ragionamento (ve lo leggo negli occhi, compagni “realizzati”), non resterebbe che completare l’opera: fare, cioè, massa critica e starsene in panciolle (altro che rivoluzione armata, spargimento di sangue, etc.), magari davanti ai Palazzi del potere così, tanto per attestare e far stimare la nostra ingombrante presenza.

Tempo un mese (solo un mese, non un giorno di più) senza che i servizi di alta professionalità vengano prestati al Nord, che il Governo dovrà per forza venire a miti consigli. E via, dunque, ad una legislazione di urgenza “pro Sud” non tanto per risolvere la questione meridionale (troppa grazia, Sant’Antonio!), quanto per evitare l’inceppamento del sempre caro Settentrione.

Risultato? Noi del Sud che non vogliamo o non possiamo spostarci al Nord, avremmo l’occasione per saggiare la nostra bravura e preparazione in una realtà lavorativa finalmente dinamica.

Ora però, siccome sono ben consapevole che ogni accordo debba pur prevedere vantaggi per tutti i contraenti vengo, amici del Nord, al vostro utile.

Ebbene, la ricompensa (duplice, addirittura) per la vostra partecipazione alla rivoluzione più pacifica che genere umano abbia mai conosciuto, è la seguente: da un lato, contribuirete all'arricchimento del Sud nonostante tutto amato e vagheggiato (anche per lasciarvi aperta la porta per un eventuale ritorno oltreché per rendere la vita migliore ai vostri cari rimasti quaggiù); dall'altro, darete prova una volta per tutte dell’importanza che l’intelligenza proveniente dal Sud ha (anche) per far muovere l’economia del Settentrione. E poiché nel nostro mondo ridotto assai male tutto soccombe all'economia, silenzierete per sempre, forti della vostra ritrovata essenzialità (agli occhi della popolazione nordica), le sirene più o meno spiegate del razzismo sempre presente.

In conclusione, che resta altro da dirvi? Per l’ennesima volta, v’invito: Tornate al Sud, e facciamo la rivoluzione! Conviene anche a voi.