lunedì 4 gennaio 2016

Lo spazzino di Santa Teresa e i rioni collinari


A tutti i salernitani sarà capitato, in quest’inverno che sembra finalmente avercela fatta a recuperare i suoi rigori, di farsi una capatina sulla spiaggia di Santa Teresa.
Di che parliamo, per i non salernitani? Col freddo linguaggio dell’occhio egualmente inesperto e incompetente (il mio), nient’altro che di una pedana di legno più o meno ingombrante, inchiavardata (con bulloni conficcati alla comevieneviene) su una sottostruttura di cemento; con il verso sempre torrido di suggestioni della poesia invece, ci riferiamo al Sacro Graal per il cavaliere templare, a La Mecca per i musulmani, all’uva sultanina per la volpe. Insomma, per chi non fosse di Salerno, la spiaggia di Santa Teresa è come lo studio di Barbara D’Urso: o lo frequenti o non conti un cazzo.
Ebbene, su questa lingua lignea consacrata agli allori dello struscio cittadino, ho incontrato la presenza: tra decine e decine di K-Way e Colmar sciorinati al sole, mi si è materializzato lui, lo Spazzino. Poco più alto di un castello di sabbia, se ne stava lì con lo sguardo arguto, il baffo alla tartara e il sorriso istituzionale sempre pronto all’abbisogna.
L’ho visto all’opera (Dio mi fulmini se dovessi esagerare) mentre, nell’ordine, raccoglieva qualche carta, raccattava una decina di mozziconi di sigarette, rastrellava la sabbia (!), setacciava (!!), granello per granello, tutta le panoramicissima rena della spiaggetta di Santa Teresa.  E come se non bastasse (e qua rasentiamo l’ultraterreno), ho visto il maniacale spazzino sorridere indulgente al bambino che gli centrava gli zebedei con un super santos calibrato male.
L’ho visto, dopo trenta secondi di pausa necessari a riaversi e a tergersi il sudore, sdraiarsi sulla spiaggia e, poco dopo, alzarsi, tutto fiero di sé, con un insolente pelo di cane (fulvo, per la precisione) tra le dita. Ha guardato il crine canino con l’occhio dell’ambientalista che scorge una chiazza d’olio nel lago, e lo ha relegato, offeso da tanto ardire, al civico cestino.
Questa è l’immacolata spiaggia di Santa Teresa.
Cambio scena.
Rioni collinari. Salerno anche qui.
In questi giorni di festa, mi è capitato di farmi un giro in bici per Giovi, Rufoli, Ogliara. Volevo stare solo con me stesso, con l’unica presenza dell’aria povera di PM10 che le frazioni alte sanno offrire. Ebbene, mi è bastato percorrere poche centinaia di metri da casa mia, per trovarmi, mio malgrado, in compagnia (Dio mi fulmini se dovessi esagerare) di due ali festanti, da una parte e dall’altra del ciglio della strada, di cartacce, di scheletri di gratta e vinci da cinque e dieci euro (O opulenta Salerno!), di buste dell’immondizia mangiucchiate dai cani, di pezzi di copertone,  di giocattoli, di preservativi e di ammennicoli vari.
Ebbene, cara, carissima (Tares docet) Amministrazione Comunale, domani è la festa dell’Epifania. Ora lo so che i rioni collinari, le periferie dell’Hippocratica Civitas, sono agli antipodi (per visibilità, per lo struscio di K-Way e Colmar di cui sopra, etc.) dalla spiaggia di Santa Teresa. Sono consapevole che le Luci d’Artista (?), manco col cannocchiale possono essere viste da Giovi, ma, come dire? Vorrei, sommessamente, sottovoce, che Tu ci mettessi la buona parola con la Befana, e la convincessi a regalare, a noi abitanti di Giovi, Rufoli, Ogliara Matierno, etc., non dico uno spazzino come quello della spiaggia di Santa Teresa (troppa grazia, Sant’Antonio!), ma almeno un surrogato, finanche claudicante e quasi invalido, dell’irreprensibile spazzino.
Sicuro di un mancato accoglimento in merito,
l’occasione mi è gradita per porgerTi
Distinti Saluti.
Sommessamente tuo, un abitante dei Rioni Collinari.

sabato 17 ottobre 2015

Acquisto di scarpe con le migliori intenzioni


Già dalla porta d’ingresso del megastore, inspiro l’aria contaminata da cuoio pressato, plastica traslucida, gomma avveniristica: è giunto il momento di comprare le scarpe

È già tutto deciso. Imbottito, nell’ordine, dai desiderata con retrogusto ammonitorio della fidanzata (“Le scarpe è opportuno comprarle buone, alte, alla moda…eppoi, per te che ci cammini tanto…resistenti, per carità!”), dalle minacce “defenestratorie” della madre (“Vedi come te lo dico, se ti compri di nuovo quelle scarpe strascinate, mo che vieni a casa, t’è vott’ a copp’abbasc, parola d’onore!”) e dalle lusinghe fricchettone dell’amico (“Con questo modello, che poi è l’unico modello che si porta, fai un’altra figura…altro che cu ‘sti pezze ca “attirano ‘sulamente scuorno”); ebbene, come dicevo, con il libero arbitrio proprio dell’operaio da catena di montaggio, mi accingo a compiere la ferale operazione.

Il tragitto è obbligato. Le prime tre file di scatole, rispettivamente per i nullatenenti, per i tamarri e per gli ancien regime, manco a parlarne. Dalla quarta fila in poi, una persona con la volontà ancora libera (beato lui!), potrebbe (e dico potrebbe) incominciare a gettare l’occhio a qualche modello di scarpe.

Inizio a guardarli, gli acquirenti liberi e leggeri, con qualche punta d’invidia. Ma è solo un momento. Io ho una missione da compiere e, fattomi persuaso una volta per tutte, mi dirigo incorruttibile verso le ultime file. E qui la dirigenza del megastore, evidentemente fan sfegatata delle Nozze di Cana del Vangelo di Giovanni dove il vino buono viene servito solo alla fine, ha pensato bene di far accomodare le stelle della scarperia. Proprio in questa fila, illuminate dal neon che tramuta quelle che dovrebbero essere comunque delle scarpe nel target (l’ennesimo!) che ti dà uno status, le vedo ammiccare lascive, con la giusta dose di snobismo del ce l’ho solo io.

Il commesso solerte, incasellatomi nella nicchia del modaiolo bisognoso di personalità riflessa, mi accoglie con il sorriso più largo che ha in dotazione. Certo, quando inavvertitamente abbassa lo sguardo sulle mie scarpe, smarrisce (per il tipo e per lo stato di avanzata decomposizione delle stesse) per un attimo la trebisonda. Lo smarrimento, però, dura solo una frazione di secondo. Come il navigatore quando l’imbranato autista di turno sbaglia l’uscita dalla rotatoria, ricalcola il percorso in men che non si dica. Ecco, mi ha riclassificato come modaiolo bisognoso di personalità riflessa sì, ma con una spruzzatina di eccentricità che non guasta mai.

“Sono belle. Sono alte. Sono resistenti. Si portano.

<Prego, guardi la tomaia, se le provi e capirà perché una volta indossate il suo piede non ne potrà fare a meno.>

<Le prendo!>

“Con gli stessi soldi avrei comprato i dieci romanzi di Camilleri che mancano alla mia collezione.”

<Ma non se le misura? Deve misurarle.>

<Le prendo.>

“Due paia di scarpe di queste, e mi compro il pianoforte digitale Yamaha p45.

<Ma il numero, il colore…>

<42, grigie.>

“200 euro e i bambini dell’Africa a piedi nudi…muoviti, stronzo di un scarparo!“.

Un altro commesso, relegato nei sobborghi delle prime file, si avvicina al mio:<E queste, dove le metto?>

Come il setter che punta la pernice, tutti i miei nervi sono monopolizzati unicamente dai miei cari sarcofaghi grigi che mi vengono incensati sotto gli occhi.

<Carlo, ma non vedi – perde la pazienza il top del commesso che mi sta vendendo il top delle scarpe – che queste vanno al massimo nella terza fila? Mi dica un po’ lei, ma come si fa – chiede (proprio a me!) tra il disperato e il canzonatorio – a voler piazzare in pole position addirittura le polacchine?>

Le polacchine! Le manifestazioni studentesche tra le cuciture del camoscio, il rosso sulla curva che accarezza il piede, i chilometri alla ricerca di sé tra le rughe della suola.

L’ultima carta: la citazione poetica. Visione, una distanza ci divide.

Niente, non c’è verso.

Polacchine amatissime…perché anche una scheggia di distanza tra noi è esasperante.

Scusa fidanzata, scusa mamma, scusa amico.

Esco dal megastore di scarpe, mi guardo le polacchine che ingentiliscono il piede e…sono felice.



martedì 6 ottobre 2015

Maurizio Sarri e i calli del pianista


Maurizio Sarri…e lo so che mo voi, lettori assidui di questo scribacchino, volete sapere che c’azzecca l’allenatore del Napoli con i calli del pianista, ma se avete soltanto un briciolo di pazienza (cosa non si fa per generare un po’ di suspence!), il busillis “l’è bello” che chiarito.

Procediamo per gradi. La prima volta che sento associare il nome di Sarri al Napoli, è da parte di Pasqualino, napoletano pur residente ad Angri, avvocato nonostante  il suo cursus studiorum si sia incagliato nelle secche delle due procedure.

Ebbene il caustico Pasqualino così sentenzia alla ferale notizia: <Allenatore mediocre, squadra mediocre: chi si assomiglia, si piglia.>

Al mio cervello alternativo, invece, Maurizio Sarri evoca due aneddoti. Il primo, sicuramente vero perché raccontato da lui stesso, quando Samuel Eto’o, al termine della partita Empoli-Sampdoria, si dichiara onorato di conoscere il mister e Sarri, con quel brio toscano contaminato da franchezza tutta napoletana, chiede esterrefatto al giocatore se per caso non lo stia “prendendo per il culo” (“Lui è Samuel Eto’o!”).

Il secondo episodio che si affaccia alla mia memoria, non del tutto accertato ma comunque rivelatore dell’uomo Sarri, è la reazione che pare avesse suscitato in lui la raccomandazione di un giornalista:<Mister, se vuole fare colpo su Berlusconi, si presenti sulla panchina ben rasato (il cavaliere odia i visi trascurati) e in giacca e cravatta.>

Non so cosa abbia risposto Sarri. Mi piace immaginarlo mentre pianta lo sguardo sornione, inutilmente camuffato dalla montatura sgraziata, sulla faccia a culo di gaddrina del Pippo Ragonese di turno.

Com’è e come non è però, sta di fatto che alla partita contro il Milan, mister Sarri si presenta in tuta (cosa che, peraltro, fa sempre) e con una barba così lunga da far impallidire il fosco Barbanera.

E, anche da questo episodio, ecco farsi strada la vulgata dell’allenatore comunista. Diceria, quest’ultima, che troverebbe conferma nelle sue affermazioni oltreché nei suoi comportamenti.

A chi gli chiede, velenoso, se non sembra strano che molti allenatori, nonostante risultati più modesti dei suoi, guadagnino di più, lui risponde secco:

Non scherziamo veramente. Sono figlio di operai, ciò che percepisco basta e avanza. Mi pagano per fare una cosa che avrei fatto la sera, dopo il lavoro e gratis. Sono fortunato.

 Agli allenatori che imparano a menadito la dichiarazione per i momenti difficili, quella per il dì di festa e quella per i periodi sanza infamia e sanza lode stando ben attenti a non scivolare sull’insidia congiuntivo, Maurizio Sarri risponde con la passione per la lettura di autori del calibro, tra gli altri, di Bukowski, Fante e Vargas Llosa.

Ai colleghi che vanno in panca agghindati che manco la star del momento sul red carpet, mister Sarri oppone la tuta da operaio del calcio magari inzaccherata un attimo prima da uno sberleffo di Insigne.

Agli altri mister che diventano tali per naturale cooptazione dal sistema senza, in molti casi, aver mai conosciuto la panchina,  Maurizio Sarri risponde con una gavetta chilometrica partita su una panca di Seconda Categoria del paesello di Stia fino ad arrivare, alla rispettabile età di 56 anni, al Napoli di Higuain e Insigne.

Certo, a completare la disamina del personaggio, ci sarebbe l’intelligenza mostrata nell’abbandonare, dopo appena un paio di partite, lo schema di gioco che tanta fortuna gli ha procurato ad Empoli per sostituirlo con un altro, il 4-3-3, più rispondente al “materiale umano” a sua disposizione (Benitez, tanto per fare un esempio, che pure è una persona intelligente, non ha mai neppure preso in considerazione l’onta di disconoscere il suo credo tattico).

Come non parlare, poi, della personalità di mister Sarri che, al cospetto di un top player come Higuain, addirittura lo stuzzica dicendo che solo impegnandosi di più riuscirà a diventare (e Higuain lo fa!) uno dei migliori attaccanti del mondo.

Qualora tutto questo non fosse sufficiente per apprezzarlo (per me lo è stato fin da subito, checché ne dicesse l’altezzoso Pasqualino), c’è da registrare la risposta che Maurizio Sarri ha dato, non più di qualche settimane fa alle critiche, anche gratuite, di Maradona (“Giocando così, il Napoli non arriverà neanche a metà classifica.”):<Maradona resta il mio idolo, – ha precisato Sarri – può pensare e dire ciò che vuole.”. Una risposta, a ben vedere, figlia dell’intelligenza, della “cultura da libri” e di quell’essere, con tutto il rispetto possibile, figlio ‘e zoccola che solo il popolo napoletano può capire.

Ah, già, dimenticavo: e i calli del pianista?Tu guardi Sarri, le sue spalle strette, la sua tuta a mo’ di seconda pelle, e pensi, sulla falsariga di Pasqualino:”Allenatore perdente.”

Tu guardi una mano tozza, piena di calli, le unghie sporche, e pensi:”Mano da fravcatore.”

In entrambi i casi, sbagli. Il primo è un signor allenatore, il secondo, proprietario di quelle improbabili mani, è un valente pianista.


lunedì 28 settembre 2015

550 euro al mese...escluse le spese, ma però!



<550 euro al mese… – scorge, sul mio volto, un’espressione che ci mette troppo a rintanarsi nel falso di giornata – escluse le spese, – s’affretta a precisare per l’ennesima volta, quasi che quella precisazione servisse prima a sé e poi all’interlocutore di turno – ma però!>

La vedo piccola dall’altra parte del caffè. Fuma nervosamente, proprio come mi diceva Mirko; alla stessa maniera, cioè, di chi ha dovuto imparare a fumare per acquisire il diritto di prendersi una pausa che il dominus, fumatore incallito, potesse capire e approvare.

550 euro al mese: 500 la base, 50 la speranza che prossimamente diventeranno cento, centocinquanta, e via di questo passo, di balzello in balzello; di impegno in impegno; di ricatto in ricatto.

Virginia è qui, davanti a me, dopo che grovigli di situazioni ed esperienze hanno allontanato le nostre vite; vite che, a pensarci bene, non sono mai state troppo vicine.

E come potevano esserlo? Io, il cazzone del liceo che chiamava il suo Sì Piaggio  La Poderosa, lei, la ragazza di buona famiglia che aveva chiamato i suoi due gattini Castore e Polluce. Io, sempre in rivolta innanzitutto con me stesso, che organizzavo gli scioperi durante le giornate “pesanti”, lei che aderiva alle manifestazioni solo quando coincidevano con il giorno d’assemblea ed esclusivamente per ragioni altamente meritorie.


Manco a dirlo, io impegnato fino allo sfinimento ad afferrare lo scalpo dello sfuggente sei, lei che veleggiava indomita verso il Parnaso delle eccellenze.

550 euro al mese, e il tutto con buona pace del De Bello Gallico mandato giù a a memoria, della laurea in giurisprudenza in tempo record e con il massimo dei voti, del brillante dottorato che aspetta ancora un concorso per ricercatore bandito apposta per lei (ma, la mia amica lo sa, c’è prima la figlia del Sindaco, e poi la cugina dell’Onorevole).

<E ti ricordi dei passi di versione arrotolati che ti lanciavo all’ultimo banco?> Riesce finalmente a sorridere, sia pure di un sorriso meno selvatico e più addomesticato ai compromessi della vita.

“550 euro al mese a te, che ti tuffavi nell’oceano degli ottativi, dei periodi ipotetici di vario tipo, che dominavi le riottose correnti delle interpretazioni letterarie e che infine, baldanzosa e fiera, ti ergevi trionfante sul significato finalmente chiaro della versione in classe“. Ecco, questo è quello che sto pensando in questo momento, cara Virginia, ma questo è quello che non potrei dirti mai immaginandoti condannata alla scrivania, dalle 16 alle 20, dopo l’udienza della mattina, a sfornare atti in cui bisogna ricordarsi di cambiare le generalità delle parti (facendo bene attenzione ad adattare l’articolo al genere maschile o femminile), l’accaduto, e a valutare se alla fattispecie in questione si addica più quel pezzo prefabbricato, o quell’altro.

La serata si avvia alla conclusione. E’ il momento di lasciarci, di andare via. Si è a quel punto in cui, se osassimo rimanere un altro minuto soltanto, ci consegneremmo, mani e piedi, al lazzo dei “se avessimo”, dei “ma quanto è passato tutto questo tempo?”, del “ma avresti mai pensato che andasse a finire proprio così?”.

550 euro al mese! Abbiamo capito il momento.

Siamo briciole affastellate sotto il tavolo della grande abbuffata.

Ti saluto. Prima, però, ti abbraccio. Non c’è mai stato niente tra noi, non mi sei mai piaciuta come sicuramente io non sono piaciuto a te, eppure ti voglio un bene dell’anima.

Arriva il conto.

<Aspetta faccio io, quanto…ma no, dai>

Salgo in macchina.

<Cara Virginia, sono 4 euro e 50. – mi trovo a parlare allo specchietto retrovisore – Il caffè era pessimo, il servizio scadente, ma ho rifiutato stizzito i 50 centesimi di resto. Il futuro delle persone non si tiene sospeso al ricatto delle metà!>

550 euro. Escluse le spese. Sì, sì, come no?!

Ma vaffanculo!

mercoledì 23 settembre 2015

La Monsanto ovvero la mela avvelenata della Terra


Solo negli anni Sessanta, a seguito della denuncia di come le grandi praterie americane trattate con l’erbicida 245T della Monsanto diventassero silenti, prive di vita («la primavera silenziosa»), il movimento ecologista si accorge della grave minaccia per l’ecosistema rappresentata proprio dalla «Microsoft del transgenico

L’erbicida 245T, infatti, è altamente tossico. È così potente che l’esercito americano lo impiegherà come defoliante per bruciare le foglie degli alberi vietnamiti; e con esse, i Vietcong, che saranno costretti a uscire allo scoperto e, infine, massacrati.

Composto gemello del 245T, è l’«agente orange»: un preparato altamente cancerogeno, che ha provocato e continua a provocare danni immunitari e all’apparato riproduttivo.

Eppure, fin dalla crisi del ’29, quando la Monsanto inizia a produrre i famigerati policlorobifenili (PCB), i pericoli per la salute e i danni all’ambiente sono evidenti. Ma tant’è: a volte la storia, l’economia, vanno in corto, e le metastasi di un capitalismo radioattivo, aggrediscono gli anticorpi incapaci di reagire.

Negli anni Ottanta la Monsanto scopre il Roundup, pesticida potentissimo anche nel far lievitare i suoi profitti (di circa il 20% all’anno). Da lì a poco, inventa una semente super resistente che s’impegna a diffondere assieme al Roundup stesso.

Il pacchetto doppio (sementi-pesticida) di proprietà esclusiva della venefica multinazionale, è bello e infiocchettato.

Nel 1998, poi, arriva la modifica genetica della pianta che diventa sterile. Eccolo materializzarsi, quindi, il giogo che riduce in schiavitù tantissimi contadini. E sì perché la Monsanto può sterilizzare le piantine e poiché, ormai, molti agricoltori dei Paesi poveri sono costretti ad acquistare le sementi proprio dalla Monsanto, fin dal primo acquisto questi ultimi saranno alla mercé, anno per anno, del loro carnefice.

Certo, la storia della Monsanto potrebbe continuare con la diffusione, tra gli altri,  del Prosilac, ormone capace di gonfiare il bestiame come una zampogna, e con tanti altri prodotti tossici, tutti con il minimo comune denominatore di nuocere gravemente alla salute e all’ambiente. Ma mi fermo qui.

Nella religione, nei miti e nelle favole, la mela raccontata ha spesso proiettato un’ombra sinistra sulle qualità nutrizionali del frutto. Basti pensare alla mela che il serpente fa mangiare a Eva; oppure, alla mela d’oro che, nel giudizio di Paride, scatenerà la guerra di Troia; fino ad arrivare alla mela avvelenata che la strega convince Biancaneve ad addentare, procurandole una morte apparente.

Il servo del principe azzurro, però, inciampa in una radice sporgente e fa cadere la bara giù per il fianco della collina. Durante la caduta, dalla bocca di Biancaneve racchiusa nel sarcofago, fuoriesce il boccone di mela avvelenato. La fanciulla finalmente si sveglia. Ora è salva e libera di godersi l’amore del suo principe

Ecco, in questa storia (parziale) della Monsanto, dove spesso i controllori e controllati sono le stesse persone, dove il profitto tiene al guinzaglio il diritto fondamentale alla salute, per evitare che la mela transgenica della Monsanto azzeri per sempre la biodiversità, dovremmo trasformarci tutti nella radice della fiaba: metterci, cioè, tra i piedi del gigante transgenico, e farlo finalmente inciampare, provocandone la definitiva e rovinosa caduta.

Occorre, in conclusione, vigilare e ribellarsi, singolarmente e come corpo sociale, al dominio pestilenziale della Monsanto.

 

 

 

mercoledì 16 settembre 2015

"Corale alla fine del viaggio", di E.F.Hansen


15.04.1912: il viaggio perfetto, della nave perfetta perché inaffondabile, trova il suo epilogo in un irriverente squarcio nella carena perché la situazione è terribilmente semplice (…): il Titanic può rimanere a galla con i tre compartimenti anteriori allagati e, se il mare è calmo, anche con quattro. Ma non è in grado di farlo quando sono cinque.

E ben presto i compartimenti allagati diventano proprio cinque, e poi sei, e infine sette.

Ed eccolo l’ultimo viaggio di Hansen, quello degli enormi sacrifici e delle indicibili privazioni soprattutto per la terza classe: sacrifici e privazioni prima, nel mettere assieme i cinquanta dollari necessari per sbarcare a New York come prescriveva la legge sull’immigrazione; poi, nel vedersi sbarrati le porte e i portelli da sentinelle ligie fino alla disumanità al mantra di vietato l’accesso alla prima classe (quella stessa prima classe che, durante la cerimonia religiosa della domenica, si è improvvisamente scoperta accessibile a tutti); infine, sacrifici e privazioni per essere stati i primi, gli occupanti della terza classe, e per molto tempo gli unici (troppo lontani, fisicamente e mentalmente, sono i signori innalzati agli altari delle cabine “vista stelle”) ad avere la contezza della tragedia che si sta consumando.

E quelli che la selezione naturale ha deciso dovessero appartenere alla prima classe?

Fin pochi minuti prima dell’inabissamento, sono riluttanti a calarsi nelle scialuppe (occupano 12, 24, 28 posti dei 65 disponibili), pronti a fare rimostranze a chi di dovere perché i giubbotti di salvataggio non fanno pendant con lo smoking.

Questo convincente romanzo di Hansen, però, non è la storia dell’equipaggio del Titanic e della sua manichea distinzione in ricchi e poveri, principi e mendichi. Siffatta opera vuole essere innanzitutto il racconto inventato, eppure tremendamente realistico, di un viaggio: quello ultimo dei musicisti che fino a poco prima del disastro, all’inizio per ordine del commissario di bordo (se durante le operazioni di salvataggio voi suonate, tutto sembrerà più…una specie di esercitazione), di poi per libera scelta, suonano soprattutto per esorcizzare, ancora una volta, i loro demoni.

Sullo sfondo della vicenda del Titanic, infatti, lo scrittore si sofferma sulle biografie dei protagonisti, tutti spinti a quel viaggio finale da fallimenti esistenziali più o meno marcati, quasi a conferma del Siamo impegnati in un gioco che non possiamo vincere. Alcuni fallimenti sono migliori di altri, questo è tutto di Orwell; ognuno dei musicisti quasi in fuga da una vita che li ha visti incompresi, perduti, parti in scena di un copione che non hanno mai avuto la forza e il coraggio di fare proprio. Fino a quando, proprio in quest’ultimo viaggio che avrebbe potuto consacrare un’esistenza trascorsa a vedersi vivere, i musicisti del Titanic non si scoprono finalmente e decisamente uomini.

E qui, quasi come se le note del pianoforte di Spot e del violino di Jason si sobbarcassero il compito di tenere in vita lo spirito della nave, capiscono che non possono abbandonare il Titanic, perché è solo con l’ultimo rantolo dell’Inaffondabile che si apre il varco per il riscatto finale. E solo con la fine – ormai l’orchestra ne è pienamente consapevole – l’estrema nota potrà piantare il suo vessillo despota sulla ritrovata umanità della corale; già, proprio e solo in questo preciso momento, alla fine del viaggio.

La nave e l’oceano erano avvolti da un buio pesto. In quel momento videro il cielo illuminato di stelle. Era insolitamente limpido.

Le ultime ore del disastro, quel buio assoluto e terrorizzante contro l’acqua scura e il cielo nero: nessun film o resoconto l’aveva mai restituito con tanta angosciante realtà (Isabella Bossi Fedigotti, Corriere della Sera)


giovedì 10 settembre 2015

"Saltatempo", di Stefano Benni


Eccolo, Lupetto, che proprio nel corso delle prime pagine si tramuterà in Saltatempo!

Scarpagna, brutto che tutte le volte che sorridevo a una principessa, quella cercava rifugio presso il drago, verso le scuole elementari Bisacconi (un cubo giallo vomito dentro un giardino di erbacce barbare).

Siamo nel pieno degli anni ’50. E mentre il (tra poco) Saltatempo si esalta mangiando un grappolo di zibibbo (l’esplosione che avviene quando il dente lo ferisce è come uno sborramento di gusto (…) e tu tossisci e godi e tossisci e godi e mentre tossisci mandi giù un altro chicco per godere di piùe si estenua addentando il paneterno (pane a tal punto duro che lo potevamo mangiare solo io, il cane Fox che era un bracco grande come un cavallo, e la strega Berega dentidighisa), si imbatte nel dio.

Avete presente l’immagine di Dio che il catechista solerte vi ha inculcato tra uno sbadiglio e l’altro? Ebbene, dimenticatela: il dio di Stefano Benni è

alto come una nuvola, con una barba immensa color letamaio, scortata da mosche, tutto vestito di strati e stracci. (…) Ha un bastone di pero e un cane vecchio, ma vecchio che ha annusato chissà quante pisce di tirannosauro.

Ma se è opportuno scordarsi dell’effige del Padreterno, lo è ancora di più estirpare dalla mente la posa ieratica e solenne in cui lo stesso abitualmente si affaccia sul nostro immaginario. Avete resettato? Bene, solo così potete minimamente sopportare il dio di Saltatempo che si tira giù i tre o quattro tipi di braghe e mutande e comincia a farla, ma farla davvero. Ed è alla fine del trionfo di merda tiepida che a contatto col suolo sprigiona una nube di vapore immensa e odorosa che il dio, alzando al cielo un dito sozzo e magnifico, fa dono al ragazzo (non senza aver prima chiesto in cambio un pezzo di paneterno) dell’orologio dentro che misura un tempo che non va dritto, ma avanti e indietro, fa curve e tornanti, si arrotola, inventa, rimette in scena.

Dopo quest’incontro, Lupetto lascia definitivamente il posto a Saltatempo. E lo vediamo vivere, il nostro eroe eponimo, immerso nel suo tempo, nel paese che pian piano trasforma le stipate cavedagne in claustrofobiche autostrade, che contrappone ai valori semplici e genuini di suo padre, un falegname comunista zoppo di tagliola, il disvalore predatorio e affaristico del sindaco Fefelli.

Guardiamo con simpatia Saltatempo che si arrabatta tra i primi riflussi ormonali, tra le avvisaglie di un ’68 che gli farà capire, in maniera quasi casuale ma non per questo meno convinta, da che parte stare; la stessa parte, cioè, di suo padre, di suo zio Nevio, dei tanti amici incontrati nel suo percorso formativo che si opporranno, più o meno direttamente, alla cementificazione della valle, al dilagare del capitalismo amorale, all’affarismo cialtrone di un’Italia che si condannerà alla perdizione.

Saltatempo però, con l’ironia e la leggerezza che l’ottimo Benni ha insufflato nell’anima del suo protagonista, sarà anche capace, non appena si troverà al cospetto di un ticchettio di una goccia d’acqua o di qualsiasi altro elemento in grado di dare l’idea (fisica) del tempo che passa, di vedere nel futuro, di capire che quello studente che inneggia alla rivoluzione diventerà ben presto un servo sciocco del sistema; così come che quel tratto di valle in cui amava pescare da piccino sarà asfaltato per dare sfogo alla “bulimia da cubatura” della nuova classe politica.

Ed è proprio in uno di questi momenti divinatori, mentre un orologio da quiz  segna i secondi che mancano per rispondere, che il nostro Saltatempo ha l’ennesima visione,

come l’esplosione di un altissimo fungo atomico di cretineria, e le scorie ricadevano su ogni punto del nostro paese (…), e l’effetto era un rincoglionimento totale, cosmico, indescrivibile. Nessuno aveva ancora capito che quell’elettrodomestico lì era il balcone dei Beniti futuri.

Saltatempo lo sa, lo vede grazie all’orologio dentro, e prova un sentimento di paura, proprio mentre uno degli strampalati personaggi della sua combriccola rifletterà sul significato delle marche, delle firme: l’hambuger?

20 lire di pane, 180 di polpetta, 1800 lire di nome americano.

Un romanzo leggero e profondo, ironico e di denuncia, di formazione e di rottura, il Saltatempo di Stefano Benni. Un’ulteriore voce della composita sinfonia dello scrittore, uno degli ultimi artigiani provetti della parola.