martedì 21 giugno 2016

Sono morto. Dio al pianoforte?



Sono morto. E fin qui, nulla di speciale. Certo, alla tenera età di 39 anni, fa un po' specie morire. Ma tant'è: l'Eguagliatrice che numera le fosse ha chiesto il mio fio, e io sto qua, aspettando Dio. Nulla di più, nulla di meno.

Avete presente le nuvoletteSan Pietro, il cielo blu e le schiere degli angeli? Sì? Resettate tutto. Io, e sto ormai aspettando Dio da più di un'ora, vedo solo una panca, un corridoio scuro che sembra esistere solo per giustificare la presenza della panca di cui sopra, e un tizio col colbacco che mi chiede continuamente:<Ma com'è stato?>
"Cazzi tuoi, niente, eh?"
Che poi, a dirla tutta, fino ad adesso ho risposto a tutte le domande; anche a quelle del ciccione col toscano agli angoli della bocca che fumava e chiedeva, chiedeva e fumava. Dopo avermi sentito inanellare la selva di insuccessi che una vita che si rispetti porta inevitabilmente con sé, mi ha raccomandato di mettermi finalmente seduto lì, in attesa di Dio. Certo, anche lui mi ha chiesto:<Ma com'è stato?> Poi però, evidentemente stanco di far finta di non sapere, ha cominciato a sbellicarsi dalle risate.
Vabbuò, ho capito, ve lo dico. Sono morto, io antiliberista, antimperialista, anticapitalista convinto, a causa di un panino. Cioè, di un particolare tipo di panino. Santo Dio, sì, lo ammetto, era un mcchicken.
Stronza di un'ironia della sorte!
Mica è colpa mia se Amaranta lavorava lì e l'unico modo per vederla era ingozzarmi di panini del Mc Donald's? Tanto tuonò che piovve: l'ultimo morso del mcchicken mi è rimasto qui, piantato da qualche parte in gola, fino a portarmi dritto dritto in questo corridoio, come vi dicevo, ad aspettare Dio.
Si apre una tenda. L'uomo col colbacco mi dice che tocca a me ma mentre sto per entrare mi si avvicina curioso e, per l'ennesima volta, mi chiede:<Ma com'è stato?>
<Ma vaffanculo!>
Una voce, dal timbro di quelle da palcoscenico:<Dio è qui.>
Un teatro di periferia, di quelli raccolti, quasi intimi. Al centro della sala, un pianoforte: nero, a coda, immenso. Tutt'intorno candele, oggetti e suggestioni del Novecento.
Diavolo rosso dimentica la strada...
Bartali con gli occhi allegri da italiano in gita...
Fuori piove un mondo freddo...
È proprio un pianoforte da concerto, dal suono avvolto dal mistero, un pianoforte a coda lunga, nero... 
Il Mocambo e il curatore sembra un buon diavolo...
Un gelato al limon con l'intelligenza degli elettricisti...
Genova e il sole è un lampo giallo al parabris...
Azzurro e neanche un prete per chiacchierar.
All'estremità del suo piano da concerto, quello dal quale ha tolto un piede per vedere meglio il suo pubblico, ci sta lui. Un paio di baffi sornioni, un naso di quelli che hanno esaurito lo spettro delle profumazioni del mondo, gli occhi dell'avvocato che ha scandagliato tutte le memorie che un cuore umano può produrre.
<Dio...tu?>
Mi sorride con quell'aria tra l'allusivo e il timido. Giusto il tempo di insufflare il pneuma divino ai polpastrelli. Le nervature delle sue dita, quasi artritiche per il tormento e l'ironia che la sua maestria esige, tiranneggiano la tastiera, ricavandone moti d'infinito.
E il jazz in cui l'uomo scimmia cammina...
L'ultima carità di un'altra rumba che è soltanto un'allegria del tango...
La fuga che tiene la sua accademia sotto lo sguardo vitreo dei bicchieri di boemia...
Un valzer di vento e di paglia...
Blue tango tra le ombre verdi di un bovindo, gustando un'acqua al tamarindo...
Alle prese con una verde milonga in cui il musicista si diverte e si estenua.
Dal suo angolo di ispirazione, Dio-Conte mi fa un cenno. Si liscia il baffo e serio mi chiede:<Ma com'è successo?>
In quel momento mi vien quasi da piangere pensando che anche lui, il Dio del mio paradiso, mi voglia prendere in giro. Poi mi chiede di spiegarglielo con i tasti del pianoforte. Si siede e mi costringe quasi a prendere il suo posto, lì, sulla panca del protagonista.
Tradurre quella morte assurda con la tastiera? Ci provo, ma ne vien fuori un accordo talmente sguaiato da far provare sdegno al pianoforte di Paolo Conte.
Mi mette una mano sulla spalla. Dalla sua voce ruvida e suggestiva come la terra dei giardini pensili che hanno fatto il loro tempo, mi dice:<Ritorna lì, e vieni dal tuo Dio quando avrai un accordo meno stonato da suonare.>
Un'occhiolino d'intesa e una mano sul pianoforte.
E ricomincerà...come da un rendez-vous...parlando piano tra noi due....
E niente, poi mi sveglio.

martedì 31 maggio 2016

Margaret Cittadino: io non so, non ne ho le prove ma…

L’auto della figlia di Margaret Cittadino ha preso fuoco proprio in una di queste notti incipriate dall’appiccicaticcio dei manifesti elettorali

Questa è la notizia; una notizia come tante altre, da relegare nello spazio più o meno lungo che la sensibilità del direttore assegna alla cura del giornalista. Tutto vero, ma ci sono dei fatti che per la storia personale di chi, suo malgrado, ne è investito, per le condizioni ambientali e per il momento storico in cui si verificano, esigerebbero approfondimenti.
A tal proposito, il Questore di Salerno subito ha rassicurato che sarà fatto ogni sforzo investigativo per chiarire i contorni della vicenda. Eppure, se si guarda alla storia personale di Margaret Cittadino, non si riesce del tutto a zittire quelsospetto che sembra divertirsi a suggerire dietrologie.
Margaret Cittadino è capolista di “Salerno di tutti, la lista che unisce le varie anime della Sinistra salernitana insieme con alcuni movimenti e pezzi della c.d. società civile, con Giampaolo Lambiase candidato sindaco.
La storia di Margaret Cittadino è una storia di battaglie combattute a viso aperto, senza rendite di posizione, sempre a difesa degli ultimi che la fiumana del progresso trascina e porta via con sé. La sua è una vita spesa nella sanità (è infermiera turnista da 36 anni all’Azienda Ospedaliera “San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona” oltreché responsabile provinciale sanità della CGIL) che, in occasione delle prossime elezioni comunali, prova, assieme ai candidati della lista “Salerno di tutti” con Giampaolo Lambiase sindaco, a scardinare il venticinquennio monocolore e, per certi versi, unipersonale del governo cittadino.
La mia curiosità di uomo libero, prima ancora che di sedicente scrittore, mi ha portato, in questi pochi giorni che restano alla chiusura della campagna elettorale, a seguire, tra gli altri, anche i comizi di Margaret Cittadino. Più volte sono rimasto sorpreso dalla pesantezza delle parole che questa donna minuta, dai tratti barricaderi traditi dalla dolcezza dello sguardo (il vero rivoluzionario è guidato da grandi sentimenti d’amore), utilizza durante le sue uscite pubbliche. Mi è capitato di pensare a un’esagerazione quando ho sentito sostantivi come “malaffare”, “ricatto”, “riciclaggio” ma non appena la Cittadino ha costruito una narrazione attorno a questi termini, allora mi si è mostrata la trama e l’ordito di una storia avvincente quanto verosimile.
È un racconto con periodi che parlano di esternalizzazione di servizi essenziali, di sfruttamento di lavoratori assunti e licenziati nelle cooperative delle illusioni, di sacco edilizio della città, di incarichi tramandati da padre in figlio saecula saeculorum, di laureati persi nella merce che vendono al centro commerciale, e via di questo passo.
Ieri, approfittando dell’arrivo a Salerno del segretario di Rifondazione Comunista Paolo Ferrero, ho voluto essere presente anch’io al comitato elettorale di via Balzico. Da sempre allergico alla retorica del “buono sempre e comunque buono”, confesso che avrei voluto scorgere una crepa nell’armatura delle convinzioni rivoluzionarie di Margaret Cittadino. Ma eccola qui, dopo la solidarietà espressa da tutti, prendere la parola e tirare dritta come un treno:<…Perché noi vogliamo una Salerno di tutti e per tutti, e non per i potentati di turno!>
Per concludere, parafrasando Pasoliniio non so non ne ho le prove. Spero soltanto che l’incendio dell’auto della figlia di Margaret Cittadino sia solo il deplorevole gesto di qualche balordo che la stupidità della notte elettorale non è riuscito ad addormentare. Che poi, se proprio così non fosse e le inquietanti supposizioni dovessero trovare cittadinanza, beh, non avrei difficoltà a immaginare Margaret Cittadino commentare con lo sguardo sornione:<Poco male, vorrà dire che ci stiamo muovendo bene…>

mercoledì 11 maggio 2016

Il candidato rampante

Io, indefesso camminatore e convinto assertore del meglio un caffè offerto a te che pagare pure la frazione d'ora, a questo mi sono ridotto: a parcheggiare l'auto a uno sputo dal Tribunale. Sono disposto a tutto, cioè, pur di evitare la iattura del candidato rampante

Il fatto è questo, statemi a sentire. Prima, quando ancora parcheggiavo l'auto al Parco Pinocchio per il Giudice di Pace, e poco dopo Piazza Alario per il Tribunale, mi esponevo all'incontro di almeno sei candidati (alla carica di sindaco o di consigliere comunale) nel lungo tragitto che mi separava dalla giurisdizione di approdo. Certo, con l'approssimarsi delle elezioni amministrative, avevo pure imparato a riconoscere le stimmate del candidato e, per quanto possibile, ad evitarli. Per esempio, se a cento metri vedevi Gigino il meccanico in giacca e cravatta, lui che l'unica volta che l'hanno visto senza la tuta Tamoil è stato il giorno del suo matrimonio, cambiavi marciapiedi e alzavi la testa manco avessi infilzato un amo sotto la gola che ti tirasse su.
Indizio certo di candidatura, a ben vedere, era pure il broncio proverbiale di Tommasone (si narra, al proposito, che in nessuna occasione occhio umano l'abbia visto sorridere), che si scioglieva per magia nel più sguaiato sorriso che un venditore di pentole abbia mai indossato. Anche in questo caso, quindi, se avevi la fortuna di intercettare questi cambiamenti in tempo utile, potevi sempre fingere una telefonata o svicolare in qualche provvidenziale traversa per sottrarti al pericolo.
Indizio certo di presenza di candidato, era pure il cambiamento non dell'abito o del sembiante, come nei due esempi precedenti, ma del comportamento. Per intenderci, se don Ciccillo Scapece, famoso in tutto il quartiere per aver fatto mille battaglie contro i gatti randagi, improvvisamente si faceva vedere con un siamese al guinzaglio, non c'erano dubbi di sorta: don Ciccillo Scapece, sicuro come il fuorigioco non fischiato alla Juventus, si era fatto circuire dalle paillettes della candidatura. In questo caso, per sfuggire agli assalti elettorali del candidato con siamese bastava, non appena lo Scapece si fosse avvicinato per perorare la sua causa, cimentarsi in una serie di starnuti che denunciassero un'allergia acuta al pelo del gatto.
Ora, invece, da quando ho preso l'abitudine, deleteria per la salute e per le tasche, di parcheggiare quanto più vicino possibile al Tribunale o al Giudice di Pace, dimezzo gli incontri con i candidati. Contraltare di ciò, però, è il fatto che la giacca e cravatta, prima valida alleata nel preannunciarmi il possibile candidato, ormai non mi è più di alcun aiuto. Molti colleghi, infatti, sono sempre vestiti così ed è difficile, se non impossibile, distinguere la giacca e cravatta candidata da quella d'ordinanza. Con l'impensabile conseguenza che adesso, spia di possibile presenza di candidati in questo contesto, può essere proprio il contrario della giacca e cravatta: una mise casual, cioè, da parte di colleghi che vogliono far trasparire maggiore vicinanza e meno formalismo nei confronti degli elettori.
Insomma, più si avvicina il fatidico giorno del cinque giugno, più mi verrebbe voglia di murarmi tra le pareti che trasudano fascicoli dell'archivio.
Sono le due di notte: ora ideale per farsi un giro per Salerno senza incappare nelle lusinghe a buon mercato dei candidati. Certo, ci sono pur sempre le pennellate stanche degli attacchini, ma quelle, più che chiedere voti, incollano visi e slogan che insozzano la città con altre promesse.
A un metro da me si ferma un furgoncino, di quelli cabinati. Un ragazzo scende dall'automezzo e si affaccia su un precipizio di umanità. Sotto un manifesto elettorale, un barbone infreddolito nonostante la primavera inoltrata, farfuglia brividi di una qualche nostalgia remota. Il ragazzo si accovaccia, gli dice qualcosa, e poi gli stende la coperta lunga tutto il suo corpo da ultimo.
Dieci centimetri più in alto di quella vita, uno sguardo tronfio chiede maggiori risorse per le imprese perché "arricchirsi è un vanto".

mercoledì 27 aprile 2016

Bamyan-Perdifumo, storie di scuola tra penuria ed eccesso

Siamo a Bamyan, in una regione situata a un centinaio di chilometri da Kabul, Afghanistan.

Dopo una settimana di lavoro alla scuola del distretto, eccolo qui inforcare la sua bicicletta. Non che Saben Hosseini, maestro della scuola elementare di Bamyan, non utilizzi il velocipede anche durante la settimana, nossignore. È solo che proprio nel week end, quella che dovrebbe essere una bicicletta con il manubrio libero dalle fatiche dell'insegnamento, si trasforma in un veicolo zavorrato dalla leggerezza di due portapacchi, uno dietro la sella, l'altro davanti al manubrio.
Sì, d'accordo, l'espressione "zavorrato dalla leggerezza" è un ossimoro, una contraddizione in termini, magari non apprezzata da alcuni di voi col palato fino. Ma ditemi un po', lettori schifiltosi, quale peso può essere più leggero di una montagna di parole, di frasi tra le cui pieghe qualcuno, appena più sensibile e riflessivo di altri, ha nascosto aneliti di libertà e di affrancazione? Ebbene, il maestro Saben Hosseini del distretto di Bamyan, è a tal punto convinto dell'importanza di questo dono pronto a concedersi a chi solo voglia meritarselo, da salire in groppa al suo Ronzinante d'acciaio, con il caldo a 40°C così come con la neve, per assolvere la sua missione: pedalare per svariati chilometri allo scopo di portare, attraverso i libri importati dal vicino Iran (oltre agli autori in lingua, è presente anche qualche scrittore occidentale come Victor Hugo, Jack London e Antoine de Saint Exupery),  la scuola ai bambini troppo distanti per poterla frequentare.
Saben Hosseini di Bamyan, impavido e illuminato dalla grazia del gesto semplice, scende dalla sua bicicletta. Attorniato da un nugolo di ragazzini festanti non foss'altro che per le copertine colorate del Piccolo Principe e di Zanna Bianca, distribuisce libri. Li presta, con tutta la grandezza della gratuità, per poi venirli a ritirare e per poi, ancora una volta, prestarne di altri. Fino a quando i caratteri dei libri non avranno riesumato, nelle mente dei piccoli lettori, il fantasma ingenerato della libertà dalla povertà e dall'ignoranza.
Perdifumo, Italia, Campania,  piccolo comune nel salernitano, a una distanza di oltre cinquemila km da Bamyan.
Un altro mondo, un presente che è già futuro, alimentato com'è dalle comodità di una storia fortunata. Siamo in Occidente, nelle terre del progresso e della conquista. Qui non c'è bisogno di nessun maestro Hosseini di Bamyan. Ci sono scuole e ci sono bambini vicino alle scuole. A Perdifumo, come in tutt'Italia, non abbiamo nemmeno i 40°C e i -30°C dell'Afghanistan; e ciò nonostante la presenza di milioni di auto con, rispettivamente, aria fredda e aria calda, pronte ad immunizzarci contro ogni inclemenza del tempo. Ebbene qui a Perdifumo, Italia, Campania, un assessore, al secolo Stefania De Simone, si trova a lanciare un appello. Si rivolge accorato ai potenziali alunni della prima media del paese affinché non si iscrivano nelle altre scuole, magari in città (ecco perché non ci può essere un maestro di Bamyan a Perdifumo, troppa scelta per pochi candidati), ma che lo facciano proprio qui, a Perdifumo: basterebbe che si iscrivessero anche solo due alunni, per raggiungere il numero minimo che la legge prescrive per la formazione di una classe come Dio comanda e, soprattutto, legittima
Bamyan-Perdifumo: ancora una volta, l'eterna ingiustizia tra mancanza che genera l'eroe e abbondanza che partorisce appelli.

mercoledì 6 aprile 2016

"L'anno della morte di Ricardo Reis", Josè Saramago

 

 

Josè Saramago si avvicina, come racconta egli stesso, alla figura di Fernando Pessoa proprio attraverso l'eteronimo del poeta portoghese, Ricardo Reis.

E infatti, all’età di circa 17 anni, “ignorante com’ero” (è Saramago che parla, ndr), in una delle sue frequenti e fruttuose incursioni nella biblioteca della scuola, “credetti che in Portogallo esistesse o fosse esistito veramente un poeta che si chiamava Ricardo Reis, autore di quelle poesie che mi affascinavano e mi intimorivano”. Invece il Ricardo Reis di Saramago adolescente altri non era che Fernando Pessoa: il grande poeta che, in ossequio al suo convincimento (“il poeta è un fingitore”), scomponeva la sua personalità in uno degli almeno tre “altri da sé”(“eteronimi”, per l’appunto).
"L'origine dei miei eteronimi è il tratto profondo di isteria che esiste in me. [...] L'origine mentale dei miei eteronimi sta nella mia tendenza organica e costante alla spersonalizzazione e alla simulazione. Questi fenomeni (…) non si manifestano nella mia vita pratica, esteriore e di contatto con gli altri; esplodono verso l'interno e io li vivo da solo con me stesso."
Dal momento di quella scoperta, e forse anche per una sorta di risarcimento postumo alla grandezza del poeta portoghese, Josè Saramago avvertì come “un punto d’onore” la necessità di occuparsi del Ricardo Reis di Pessoa; cosa, quest’ultima, resa possibile anche dalla circostanza che proprio Ricardo Reis è l’unico eteronimo di Pessoa che ha solo la data di nascita e non quella di morte. Quale pretesto migliore, quindi, per “ricreare” un Ricardo Reis di un anno più vecchio di Pessoa che torna dal Brasile in Portogallo proprio in occasione della morte del poeta? Ed ecco l’incipit del fortunatissimo L’anno della morte di Ricardo Reis di Josè Saramago.
Siamo nel 1936. In Portogallo è al potere il dittatore Salazar. In Italia trionfa Mussolini. In Germania i tedeschi acclamano Hitler. In Spagna esplode la guerra civile per “ristabilire l’impero della croce e del rosario sull’odioso - e, si badi bene, l'aggettivo è proprio del comunista Saramago megafono, per l'occasione, della vulgata del regime - simbolo della falce e martello”.
Ricardo Reis, medico di quarant’otto anni, ritorna a Lisbona. Spettatore indolente (“saggio è colui che si contenta dello spettacolo del mondo”) delle dinamiche a cui si trova ad assistere, prende alloggio in un hotel in attesa di riprendere in mano le redini del suo futuro (riprenderà a esercitare la professione? Si deciderà a mettere radici in qualche angolo di Lisbona?).
Ricardo Reis è uno straniero in una città che non riconosce più.
Dove?” gli chiede il tassista in attesa di qualche località a cui dirigersi e Reis pensa che “gli hanno fatto una delle due domande fatali, Dove, l’altra, e peggiore, sarebbe, Perché”. Eccolo, per il lettore che ancora non avesse avuto (mal gliene incolse!) la fortuna di farsene ammaliare, lo “stile saramaghiano”, con quelle “domande senza punto interrogativo, con quelle battute senza virgolette, quelle considerazioni che possono essere tanto del narratore come dell’autore…” (Luciana Stegagno Picchio). È la suggestiva "oralità" di Saramago.Leggetemi a voce alta”, si raccomanderà l’autore.
Ma torniamo al romanzo. All’hotel Bragança Ricardo Reis incontra Lidia, una delle muse ispiratrici dei suoi versi che, per ironia della sorte, scende dai Campi Elisi della sua poesia e si fa donna in carne e ossa. Probabilmente, fin troppo in carne e ossa. Lidia, infatti, è una cameriera d’albergo con la quale Ricardo riesce, sia pure nei pochi momenti di vita vissuta insieme e sempre nel rispetto più o meno pieno della differenza di classe, a trovare un’autenticità di vita. Poi c’è l’altra musa Marcenda, anche qui un nome proprio “gerundio” come la Blimunda del Memoriale del convento sempre di Saramago, e pure in questo caso, la presenza di un difetto fisico: del braccio e della mano sinistra di Marcenda, inerti e privi di forza; della mano, sempre sinistra che stavolta è addirittura mancante, del compagno di Blimunda, Baltasar, nel Memoriale.
Con l’eterea Marcenda ci sarà solo un bacio. Con Lidia addirittura Ricardo Reis, sia pure con quella involontarietà che solo può avere un uomo che si lascia vivere, avrebbe pure un figlio.
Proscenio di queste vicende, è un macrocosmo in cui, e qui c’è tutta l’ironia del comunista Saramago, la “rigenerazione” dell’Europa procede a passi da gigante prima in Italia, poi in Portogallo, subito dopo in Germania e in Spagna (“questa è la terra buona, la semente migliore, domani raccoglieremo le messi”).
Dal canto suo, il fu Fernando Pessoa, sotto forma di fantasma, di immagine ora visibile, ora invisibile, e che ha solo nove mesi di supplemento di vita (“tanti quanti ne passiamo nelle pance delle nostre madri, credo sia una questione di equilibrio”), continua a fare visita a Ricardo Reis, prima all’hotel, poi nella casa in cui il medico decide di andare a vivere o forse, più opportunamente, a lasciarsi morire.
I due poeti discutono delle “piccole cause che fanno battere i piccoli cuori” così come, quando se ne presenta l’occasione, dei loro voli poetici sempre appesantiti dal pessimismo di Saramago perché il pessimismo spinge all’azione, mentre l’ottimismo non distoglie dalla contemplazione del mondo."
Alla fine i nove mesi sono agli sgoccioli, Ricardo Reis, pur da monarchico e da conservatore dell’ordine costituito, si trova a soffrire per il fallimento della rivolta contro il ripristino della dittatura in Spagna: anche in questo caso, una sofferenza indotta dalla ribellione altrui, nello specifico di Daniel, il fratello marinaio di Lidia.
Pessoa è pronto per l’ultima visita al suo collega ed eteronimo prima della fine irredimibile. Questa volta però, e il cerchio di Saramago si chiude, “Ricardo Reis si tirò su il nodo della cravatta, indossò la giacca (…). Allora andiamo, disse, Dov’è che vai tu? Vengo con te (…)

martedì 22 marzo 2016

Wake up, sì al referendum del 17 aprile

                                            

Per il referendum del 17 aprile, niente di meglio che far proprio l’invito del rapper salernitano Rocco Hunt (Wake up) e declinarlo in una valanga di sì

Sì contro le solite, stucchevoli manfrine da cerchiobottisti che infiniti lutti addusse all’ambiente. A cosa mi riferisco? Basta pensare al mamma li turchi urlato dagli occhi sgriddati dei piddini (solo dagli occhi, per carità, chè una parola in tal senso avrebbe incorporato del tutto Verdini nel pantheon del partito) al solo timore che alle concessioni pro trivelle potesse essere affibbiato un termine; ma mi riferisco anche al silenzio imbarazzante e imbarazzato dei media sul referendum del 17 aprile.
Ecco, per l’appunto, il referendum. Su cosa e perché siamo chiamati a votare sì?
Il 17 aprile andiamo a votare sì per abrogare la norma, introdotta con la legge di Stabilità 2016 (grazie, Renzi, grazie!), che permette alle piattaforme petrolifere di continuare a trivellare ed estrarre gas o petrolio dal sottosuolo entro le 12 miglia dalla costa nonostante la scadenza dell’autorizzazione.
Per essere più chiari e a scanso di fraintendimenti, la vittoria del sì al referendum non farebbe cessare da subito le trivellazioni in mare entro le 12 miglia (come pure qualcuno, evidentemente in malafede, si ostina a ripetere), ma solo alla scadenza naturale delle concessioni (che attualmente durano 30 anni più eventuali altri 20 di proroga). Basta solo questa precisazione per zittire le cassandre sempre in forma smagliante della perdita dei posti di lavoro perché non si può perdere il lavoro quando già adesso le società petrolifere hanno assunto personale (quando l’hanno fatto e come l’hanno fatto) per quell’orizzonte temporale (come dicevamo, e fin dall’inizio delle trivellazioni, 30+20). Né tantomeno, come pure asseriscono con invidiabile faccia tosta i sostenitori del no al referendum, la vittoria del sì potrebbe pregiudicare i tanto strombazzati “interessi nazionali”. Dovrebbe, infatti, essere noto a tutti che, dopo il rilascio della concessione, quello che viene estratto diviene di “proprietà” di chi lo estrae. La società petrolifera (udite, udite) è tenuta a versare alle casse dello Stato solo il 10% del valore degli idrocarburi estratti, se l’attività riguarda la terraferma; se invece l’attività afferisce, come in questo caso, al mare, solo il 7% del petrolio e il 10% del gas. Facendo il conto della lavandaia, quindi, il 90-93% degli idrocarburi estratti segue i desiderata della società estrattrice che può potarlo seco nei patrii lidi o, addirittura (e la beffa è bella che consumata!) rivenderlo direttamente allo Stato italiano.
Ma i motivi per votare sì al referendum del 17 aprile non finiscono mica qui?! Nossignore: nel nuovo rapporto di Greenpeace Trivelle fuorilegge, per la prima volta vengono pubblicati i dati relativi al funzionamento di oltre trenta trivelle in attività nei nostri mari che mostrano una grave contaminazione da idrocarburi policiclici aromatici e da metalli pesanti, in grado di risalire la catena alimentare. Catena alimentare che sarebbe ancora più minacciata dagli air gun che, qualora il referendum non vedesse la vittoria del sì, sarebbero perpetrati dalle società petrolifere sine die. Il metodo di ispezione dei fondali marini con scoppi ad aria compressa (air gun, per l’appunto), infatti, produce un rumore pari a 100mila volte quello del motore di un jet, capace di provocare lesioni permanenti o letali alla fauna marina.
In conclusione, e prendendo spunto nuovamente dal Wake Up di Rocco Hunt, occorre svegliarci e andare a votare, il 17 aprile, per un sì senza se e senza ma. Bisogna, in sintonia con l’appello firmato da varie personalità del mondo della cultura, tra le quali Dario Fo, Dacia Maraini e Moni Ovadia, e da alcune associazioni come Greenpeace, convincerci che “le trivelle sono il simbolo tecnologico del petrolio: vecchia energia fossile causa di inquinamento, dipendenza economica, conflitti, protagonismo delle grandi lobby”. Un simbolo, in definitiva, del tutto inconciliabile con gli obiettivi di riduzione delle emissioni fissati dalla COP21 nel vertice di Parigi per combattere i cambiamenti climatici, in cui si è sancita la volontà di limitare l’aumento del riscaldamento globale a 1,5°C.
Per tutti questi e anche per altri motivi: “Wake Up, guagliù, abbandoniamo le tastiere e facimm ‘a rivoluzione con un bel sì al referendum”.
 

lunedì 7 marzo 2016

Il mirabil topolino di Gramsci



La recente dichiarazione degli esperti delle Nazioni unite sul riscaldamento globale, è stata fin troppo chiara: ci restano 12 anni prima del disastro. Prima, cioè, che il superamento dei fatidici 1,5 gradi arrechino cambiamenti irreversibili a tutto l’ecosistema. Eppure una strategia per evitare la débâcle ambientale, ci sarebbe.

Siamo nel giugno del  1931. Dal carcere di Turi in cui si trova a scontare la pena inflittagli il 4 giugno del 1928 (20 anni, 4 mesi e 5 giorni di reclusione), Antonio Gramsci scrive alla moglie Giulia. Il cervello che, secondo la requisitoria del PM Isgrò, per vent’anni si doveva assolutamente impedire di far funzionare, vuole raccontare, per il tramite di Giulia, una favola ai suoi due figli, Delio e Giuliano. Si riserva uno spazio nella lettera alla moglie nel quale provvede a scriverla.

C’era una volta un topolino. O meglio, prima del topolino, c’era un bambino che dormiva.

Sulla tavola al centro della storia, un bricco di latte pronto per il risveglio del pargoletto.

Il topolino di Gramsci, spinto dalla fame, se lo beve tutto.

Succede il classico quarantotto: senza latte, il bambino strilla, la mamma si dispera. Il topolino, che al netto dell’ingordigia causata dall’atavica inedia, è un signor topolino, capisce che non serve a nulla battere il capo contro il muro. Occorre reagire.

Nell’ordine, quindi, corre dalla capra per avere il latte ma “la capra gli darà il latte se avrà l’erba da mangiare”; si rivolge alla campagna per l’erba ma quest’ultima, arida come solo le campagne del desolato sud sanno esserlo, reclama acqua; va quindi dalla fontana ma “la fontana è stata rovinata dalla guerra e l’acqua si disperde.”

<Che debbo fare?> chiede allora, angosciato, alla fontana il topolino di Gramsci.

<Vai dal mastro muratore affinché mi ripari, no?>

<Io  ti vorrei pure aiutare, – spiega sinceramente dispiaciuto il mastro muratore – ma per ricostruire la fontana di cui mi parli, mi servono le pietre. E le pietre, me le può fornire solo la montagna.>

L’indomito topolino, allora, si reca dalla montagna che è stata disboscata dagli speculatori e, ferita a morte, gli mostra dappertutto le sue ossa senza terra.

Il roditore, però, non può fermarsi proprio adesso che sta lì lì per riattivare la catena virtuosa e consentire, così, finalmente al bambino della storia di bere il suo latte. Cercando, allora, di far presa sulla montagna, le racconta tutta la storia di come all’inizio della fiera ci fosse un bricco di latte, e poi la fame sua, e il bambino….Insomma, grazie anche alla promessa fatta alla montagna che il piccolino, una volta cresciuto, avrebbe ripiantato pini, querce, castagni, etc., la convince a fornire le pietre.

Le pietre, così, vengono consegnate al muratore che riaggiusta la fontana; la fontana potrà fornire acqua alla campagna. Quest’ultima, dal canto suo, ritornerà a essere fertile, donando l’erba alla capra per produrre il latte.

Il bambino, finalmente, avrà il suo latte dopodiché, una volta cresciuto, non si dimenticherà della sua promessa, sia pure fatta per interposta persona, alla montagna. Pianta quindi gli alberi e tutto muta: spariscono le ossa della montagna sotto nuova vegetazione, le precipitazioni atmosferiche ridiventano regolari perché gli alberi trattengono i vapori e impediscono ai torrenti di devastare la pianura, etc.

E (immancabile!) vissero tutti felici e contenti.

Fuor di metafora, per evitare, in questi 12 anni che ci restano, l’esiziale aumento di 1,5 gradi della temperatura, occorrerebbe comportarci  come il saggio topolino di Antonio Gramsci: mettere in campo e rafforzare, cioè, quelle buone pratiche ambientali, da tutti conosciute ma da pochissimi poste in essere, che sole potranno assicurare un futuro alla nostra derelitta società.