martedì 20 settembre 2016

Facebook e l'incubo del caschetto biondo

Dopo il suicidio della povera Tiziana Cantone, tutti gli italiani, a partire da quelli appena capaci di accordare una pariglia di sostantivi a una decina d’indicativi, hanno risposto alla chiamata di Facebook.

E allora, da un popolo di commissari tecnici, eccoci tramutati tutti, con le nostre tavole della legge a tracolla, a soloni della privacy, a censori del così ci si sta su Facebook.
Illusi!  La verità è che Facebook, questa effe pudica su sfondo color pervinca, conosce ognuno di noi; e di ciascuno di noi, le sue paure. Già, proprio come, in “1984”, il Grande Fratello di Orwell conosceva l’unica paura di Winston Smith in grado di farlo consegnare, armi e bagagli, all'annientamento della spersonalizzazione.
La vulgata comune, a proposito del venerabile Licio Gelli, capo indiscusso della Loggia P2, parla di un archivio praticamente sterminato di cui era in possesso. Di ogni uomo, a prescindere che fosse amico o nemico, quel Gran Visir di Licio conosceva vita, morte e miracoli. E tra la vita, la morte e i miracoli, soprattutto le paure. Già, la paura, l'unico sentimento in grado di sottomettere qualsiasi uomo al ricatto perenne.
Eppure nessuno pensa al fatto che, con l’avvento di Facebook, anche gli incubi inchiavardati nelle segrete della nostra coscienza più profonda, potrebbero essere portati alla luce della condivisione. E, in alcuni casi, rovinare per sempre la reputazione che ci siamo costruiti per tutta una vita.
E sì perché Facebook non conosce selezione, non si lascia ammaliare dalle (a volte) rassicuranti correnti del fiume Lete. Nossignore, il social network più famoso del mondo conosce solo l’accumulo, l’affastellamento di ricordi su ricordi che, una volta in rete, possono essere sempre ripescati dagli abissi della sua elefantiaca memoria.
Pigliate, ad esempio il mio, di incubo. Sono un direttore d'orchestra, di quelli che inaugurano le stagioni teatrali. Frequento persone che danno del tu al potere.
Tutto va ben, madama la marchesa.
Ma ho un amico. Che sta su Facebook. Un amico di quelli scemi. Di quelli che t’affatichi una vita a crearti una reputazione e poi…zac, vengono loro, e ti appioppano lo stigma dell’infamia. E quindi, la bussola va impazzita all’avventura, si sbriciolano i teatri,  gli amici raffinati se la svignano, le tue benemerenze s’involgariscono.
E non pensiate che non mi sia dato da fare per arginare il pericolo. Mi sono sbarazzato, come solo ci si può sbarazzare di un accidente, di tutte le foto su Facebook che richiamano quel periodo della mia esistenza. Sono arrivato addirittura a eliminare dagli amici l’amico di cui sopra. Eppure, il mio incubo non mi dà pace.
Una foto, c’è ancora una foto, testimone muta ma più ciarliera di mille pettegolezzi, che mi toglie il sonno e la ragione. Un’immagine dalle potenzialità devastanti, che io, pur tra mille e succulente blandizie, non sono riuscito a far eliminare dal Facebook di quello scemo del mio amico. Che in quanto scemo, ovviamente, è estremamente imprevedibile.
Teatro Verdi. Poco prima dell’ouverture, per la durata interminabile di un minuto, la mia schiatta di frac distinti e di violini aristocratici, guarda incredula il display del cellulare. Poi, quasi in ossequio a un muto intendimento, mi pianta all'unisono il nero e il mogano in cui è impresso il logo di Facebook direttamente negli occhi.
Passata la paura: è una innocua e deliziosa foto che la mia orchestra fa del proprio Maestro in ambasce!
E io, di rimando, li guardo grato, finalmente in grado di far perdere il pomo d’adamo in qualche binario morto delle interiora; in qualche passaggio segreto lontano mille miglia dalla foto di me adolescente, con un improbabile caschetto biondo platino, nell'inequivocabile omaggio al Nino D’Angelo di Nu jeans e 'na maglietta. 

giovedì 8 settembre 2016

Prendete un corpo...




Prendete un corpo. Sì, un ammasso di ossa e muscoli. Solo il "soma", senza alcuna trascendenza "animata".

Chiudetelo da qualche parte, uno sgabuzzino, un bunker. Un luogo chiuso, insomma.
Per 5 secondi, soltanto per 5 fottutissimi secondi (a tanto, da una ricerca effettuata, ammonta il terrore che la nostra immaginazione può rappresentarsi), raffiguratevi 1, 2, 5 mani.
Non vi chiedo di immaginare l'attività di queste mani intente a rovistare nel e su quel corpo.
Concentratevi sull'atto, non sulla potenza.
5 denti fratturati. E poi 2 scapole, l'omero destro, il polso, le dita delle due mani e dei due piedi con entrambi i peroni ridotti in poltiglia, tutti rotti.
Segni di tagli e bruciature in ogni centimetro del corpo.
Rotazione della testa, fino a procurare la rottura del collo. 
Parliamo sempre dello stesso corpo.
Coup de theatre: "lettere" disegnate sulla regione dorsale, all'altezza dell'occhio destro, a lato del sopracciglio. Infine, una X sulla mano sinistra e sulla fronte.
I cani marcano il territorio.
Il medioevo delle torture ci ha insegnato che il corpo, ogni corpo, raggiunto l'acme del dolore, attiva la valvola di salvezza: diventa insensibile.
Su quel corpo ci sono state sevizie ripetute, fermate appena prima del soccorso di quest'ultima pietà.
<Ho dato un'identità a quel corpo, al corpo di mio figlio Giulio Regeni, solo grazie al riconoscimento della punta del naso.>
A volte, Dio non esiste.

sabato 3 settembre 2016

"Il Mastino dei Baskerville", Sir Arthur Conan Doyle

Si narra che Sir Arthur Conan Doyle, papà letterario del celeberrimo Sherlock Holmes, a un certo punto abbia voluto disfarsi della sua creatura.

E questo perché lo scrittore, sempre secondo la vulgata giunta fino a noi, si aspettava la consacrazione del suo talento soprattutto grazie ai romanzi storici, e non certo per il tramite delle opere imperniati sulla figura dell'infallibile investigatore.
Anche sulla scorta di questo rumor dell'epoca, quindi, è probabile che il buon sir Arthur si decise, una volta per tutte, a far precipitare Sherlock Holmes e la sua leggenda dalla cascata del Reichembach, provando gusto a lasciarlo lì, almeno fino a quando le proteste unanimi dei lettori e degli amici non ebbero la meglio, costringendolo a riesumarne il corpo e le gesta letterarie. E sì perché, come dicevamo, sir Arthur Conan Doyle avrebbe voluto de-mitizzare il personaggio che, ormai fu chiaro fin dalla sua prima apparizione nel romanzo Uno studio in rosso (1887), gli sarebbe sicuramente sopravvissuto.
A ben vedere, proprio alla stessa maniera di come, nell'ultima parte della sua vita, il brillante dottor Arthur Conan Doyle avrebbe voluto de-strutturarsi, pronto ad offrire i suoi elementi vitali alla creazione dell'opposto da sé, a quel sir Arthur cioè che, ormai, aveva deciso di sciacquare i panni della medicina nell'acido corrosivo dello spiritualismo.
Ancora una volta, quindi, l'eterno contrasto tra dionisiaco e apollineo, con un significativo, senile passaggio, per quanto riguarda il Nostro, dall'uno all'altro.
Sulla falsariga di questa stuzzicante prospettiva, mi piace pensare che lo scrittore abbia voluto, proprio nell'opera Il mastino dei Baskerville (1902), far le prove generali dell'annientamento di Sherlock Holmes, del suo abbandono nelle fumisterie dell'aldilà. E infatti sir Arthur, in questo romanzo, cala il campione del metodo deduttivo capace, ad esempio, di risalire dal colore e dalla consistenza delle macchie su un pantalone ai diversi sobborghi di Londra in grado di causarle, nella landa desolata e tenebrosa che fa da sfondo all'intero romanzo, sulle tracce di una leggenda foriera di lutti.
Sir Charles Baskerville viene trovato morto con "una distorsione facciale pressoché inverosimile": una paura folle ha stroncato il suo filantropico cuore.
Il dr. Mortimer, amico del nobile defunto, si reca a Baker Street, convinto che solo il famigerato Sherlock Holmes sia in grado di spiegare quel terrore gridato dagli occhi annichiliti di Sir Charles.
L'affidare l'incarico di far luce su quell'insolita morte e il raccontare al detective la sinistra leggenda che da tempo immemore cade come una mannaia sul capo dei Baskerville, è tutt'uno.
Un cane infernale, una fiera crudele e diversa di proporzioni mastodontiche e fluorescente si aggira per la landa, con l'unica missione di fare strame della genia dei Baskerville.
Cosa potrà la mente, il nous adamantino del detective contro il medioevo della ragione che muove il Mastino dell'anatema?
Sherlock Holmes e il fido dr. Watson (il personaggio, quest'ultimo, a cui Sir Arthur Conan Doyle più somiglia, anche fisicamente), sono ingaggiati, quindi, per un'impresa apparentemente impossibile: impedire che l'ultimo discendente dei Baskerville, il volitivo Sir Henry, venga immolato sull'altare della maledizione di famiglia.
Eppure.... Eppure.
Tra scarpe vecchie misteriosamente scomparse, tra ululati alla luna di ghiaccio della landa spettrale; e ancora, tra parentele di sangue che vengono spacciate per legami acquisiti, tra mire ereditarie nascoste nelle somiglianze dei ritratti esposti al maniero, ecco che il caso apparentemente insolvibile si avvia a una scenografica soluzione.
E sì perché, per quanto fantastica e irrazionale possa sembrare la maledizione dei Baskerville, lo stesso Mastino da Sir Arthur evocato e messo sulle tracce del suo amato-odiato investigatore, dovrà capitolare, e con esso tutto il mistero che porta con sé, al cospetto della implacabile analisi di Sherlock Holmes.
Al termine dell'appassionante lettura del romanzo di Sir Arthur Conan Doyle, non possiamo fare altro che concordare con chi ha affermato che nessun altro eroe letterario ha contribuito come "il segugio di Baker Street" a consolidare l'arte delle detection.
Le illuminazioni dei predecessori anche geniali sono diventate (con Sherlock Holmes, ndr) un agguerrito sistema mentale, una vera e propria teoria che vede nella deduzione e nell'analisi gli strumenti fondamentali: gli indizi più insignificanti, come le unghie di un uomo o le maniche di una giacca, possono condurre alle conclusioni più importanti, alle rivelazioni più inattese e determinanti.

lunedì 22 agosto 2016

"Aceto, arcobaleno", Erri De Luca


Aceto, Arcobaleno. Una casa di pietre antiche, di quelle che biascicano solo consonanti perché "la voce della materia non usa vocali".

Una ragnatela di lampi a secco, "micce di luce" che infilano le terminazioni nervose, percorrendole tutte come un circuito elettrico.
Un uomo, il fantasma di una presenza che testimonia ricordi.
Questi sono gli elementi che tratteggiano l'incipit di Aceto, arcobaleno di Erri De Luca. E da tutto questo, con la solennità propria delle memorie che diventano congedo, la casa prende le mosse per rievocare la vita degli ultimi ospiti.
In Aceto, arcobaleno c'è il compagno che ha "noleggiato il corpo a ore" come operaio in fabbrica, in edilizia, come facchino. Fatica fisica, per intenderci, ma sempre e comunque al riparo dell'etichetta impropria di lavoro manuale; impropria perché "non è nelle mani la fatica" bensì nel dorso: "è lì che si accumula lo sforzo." Ed è proprio un ricordo di fatica, quello che Erri De Luca evoca per primo. Sono le fattezze dell'amico "dall'inflessione meridionale che non aiuta chi la porta in giro, però dà peso alle parole".
Sono frammenti di una storia ossessionata dal rispetto per il lavoro e dalla condanna per ogni piccola astuzia cui  pur si ricorre per sottrarsi alla fatica. Il tutto nell'incrollabile convinzione, incrollabile perché corroborata dall'esperienza, che alcuni ultimi della Terra, "sotto un esilio di stenti, sono dei re".
Alla fine di questa prima storia, l'incontro del protagonista con la dittatura dell'ideale; lo stesso ideale che, nella cornice di una febbre malsana e illogica, lo porta ad impugnare le armi dapprima contro un bersaglio altro, di poi nei confronti dei propri, più prossimi affetti. Quindi, ecco il tempo della fuga, del chiamarsi fuori, dello stagno ghiacciato che preannuncia la fine: una morte epilogo di una vita vissuta nel ricordo di quelle due parole, "aceto" e "arcobaleno" per l'appunto, con cui si apriva il piccolo dizionario di inglese e francese che il babbo sfogliava la sera, dopo le interminabili fatiche del giorno, con il figlio.
La seconda presenza evocata dalla casa squassata dagli elementi della natura in cui, come ne La casa dei doganieri di Montale "uno sciame di pensieri vi sostò inquieto"è quella del compagno prete. Qui però, a differenza di quanto accade nella lirica del Montale, "il calcolo dei dadi torna" e si fa somma. Ed ecco stagliarsi nitida la figura dell'amico portato per la metrica latina che decide di accordare i suoi passi sul rumore dell'acciottolio che conduce a Dio, alla Sua giustizia troppo spesso incomprensibile per edificare una logica della fede.
Pe 'mmare nun ce stanne taverne: "è una frase che andrebbe regalata a chi prende i voti (...). Una frase come questa potrebbe salvare qualcuno, spalancandogli il vuoto sul quale si sta sporgendo".
Quando i morsi della malattia uniti a quelli della disillusione si accaniscono sul corpo e sull'animo del secondo personaggio di Aceto, arcobaleno, vengono in soccorso la polvere e i singhiozzi dello scrittore superstite che trova riparo nella parola tau (ultima lettera dell'alfabeto ebraico) ossia nella stessa parola che l'angelo sterminatore della Bibbia, passando per le vie di Gerusalemme, stampa sulla fronte dei sofferenti per poterli risparmiare.
L'ultima voce che anima la casa di Aceto, arcobaleno prima della rovina, è quella dell'amico amante della crittografia mnemonica che lancia messaggi a uomini e spazi in grado di decifrarli; del compagno che sposa l'ideale nomade, alla continua ricerca di esperienze capaci di riscattare una vita, come i navigatori del XVII secolo che percorrevano indomiti l'emisfero sud pensando di incontrare terre altrettanto vaste di quelle dell'emisfero nord; del puro di cuore che, all'interno di una cella d'isolamento ingiusta, poteva scrivere solo parole definitive, senza possibilità di correzione perché,  se solo fosse ricorso alle correzioni, avrebbe cancellato anche la pellicola di polvere di cui le parole erano formate.
"Le visite, le vite si dileguano, la casa cede, nessun racconto la sorregge più".

mercoledì 27 luglio 2016

Articolo da chiuso per ferie

Il titolo di questo articolo di fine luglio l'ho trovato subito; strampalato, come da un po' di tempo mi sento strampalato io, ché mi pare che tutto sia stato scritto già e che l'unica maniera di essere originali è quella di starsene zitti.

Beninteso, io, per questo mese di agosto prossimo venturo, zitto voglio starmene davvero, ma mi sembra giusto "dare alle stampe" l'ultimo articolo per il giornale che ormai da due anni sopporta le mie intemperanze letterarie.
E allora, pensa che ti ripensa, cerco un saluto nel luogo più opportuno per scrivere l'articolo da chiuso per ferie: la spiaggia.
Con i miei infradito della battigia dell'anno scorso e la mia barba affollata da qualche pelo bianco in più, mi siedo a guardare. D'altronde, conoscete voi un modo migliore che quello di guardare, sentire, sintonizzarsi con il traffico del mondo, per scrivere un articolo da chiuso per ferie? Io - e lo confesso candidamente - no.
Sono venuto a vedere/quest' acqua e la gente che c'è/il sole che splende più forte/il frastuono del mondo cos'è - mi verrebbe da rispondere alla signora che guarda con schifo malcelato i miei cerchi concentrici ed eccentrici di vitiligine (dicesi vitiligine...quella che aveva la buonanima di Michael Jackson, insomma!).
In rapida successione, il mio articolo si nutrirebbe, se solo trovasse in me un autore meno indolente, nell'ordine: 1) del ghigno da Pikachu del frescone di turno che, abbandonate definitivamente le mossette da "tosto ti soddisfo tutto", si aggrappa disperatamente al mostriciattolo color pervinca per tenere il ferro in caldo; 2) dell'epitaffio a carattere cinerino scritto paro paro negli occhi della mamma nel sapere che Giorgetto ha preso alla maturità un voto in più della sua Lycia; 3) della gentilezza affettata della signora Carmela verso il vucumpràpoverocristo corredata dall'immancabile ripugnanza verso l'abbronzatura "sospettosa d'Isis" dello stesso; 4) della tracotanza della 90-60-90 spaparanzata al sole che viene irrimediabilmente picconata dall'indifferenza furba dello studente dirimpettaio; 5) dall'intellettuale da sfoggio che sotto il Corriere della Sera si perde nei flirt estivi delle starlette di Donna Moderna.
Insomma, di almeno uno di questi spunti, dovrebbe nutrirsi il mio articolo da chiuso per ferie.
<Oh, ciao. Senti, siamo in tre, ci manca il quarto elemento. Ti andrebbe di fare coppia con me? Ci giochiamo la consumazione, ci stai?>
"Benedetto pretesto".
Vi giuro, io davvero volevo sviscerare uno di questi argomenti nell'ultimo articolo per Zon. Ma ditemi voi, posso mai perdere l'occasione di mettere in mostra l'abilità nel calcio balilla acquisita grazie agli svariati filoni da terzo liceo?
Cincischio un po', sguinzaglio le pupille alla (finta) ricerca della pallina della riflessione.
<A una condizione: noi i rossi, va bene?>
Serena estate a tutti.

giovedì 14 luglio 2016

Tra gli ulivi, una lamiera nel cervello

Sono le 10,58 di martedì 12 luglio 2016, e passeggio tra gli ulivi.

Mi hanno sempre affascinato questi tronchi centenari che, nella loro nodosità, sembrano piangere tutte le storture del mondo.
Ci vengo spesso, qui. D'altra parte, la mia terra è a un tiro di schioppo dal filare di ulivi che accompagnano, rassicuranti, i viaggiatori lungo la tratta Andria-Corato.
Il campo incanutito dall'afa già alle undici di mattina. Un solo binario che sferraglia al sole di un'estate come le altre.
Certo, rispetto ad appena ieri, c'è di insolito questo frinire di cicale, da una decina di minuti troppo sguaiato perfino per i 33°C di oggi.
Che il buon Dio voglia affidare al loro verso l'ingrato compito di preannunziare la fine del mondo?
Sto qui, tra gli ulivi, gli unici esseri viventi che non sento ostili. Le sole anime del creato, cioè, che sono del tutto indifferenti ai miei fallimenti esistenziali.
Un figlio sempre rimandato e poi non venuto. Una lavoro lontano dalla mia Puglia portato a sperdersi sul binario morto dell'esubero. E poi, lei, i cui capelli d'oro di trent'anni fa hanno impiccato per sempre la mia gioventù.
Sono le undici esatte. Gli ulivi sembrano, per un momento, ribellarsi al chiacchiericcio isterico delle cicale. Le loro fronde paiono covare un rimprovero capace di attenuare il lamento degli insetti.
Le 11,03. Percorro gli ultimi metri prima di tagliare definitivamente per il mio campo. Mi è sempre piaciuto il barrito sordo che preannuncia l'arrivo del treno.
Guardo l'orologio. Sono le 11 e 05. Mi devo voltare indietro per vedere la scheggia di lamiera che, tra poco, assumerà consistenza di treno. Troppo stridulo, infatti, è ancora il frinire delle cicale per avvertire il respiro asmatico della locomotiva senza girarsi a guardarne i tratti anticipatori.
Rassicurato ormai dal passaggio imminente del treno che risucchia nella normalità pure il grido disperato delle cicale, svolto in direzione della mia terra.
11,07. Appoggio una mano sull'ultimo tronco di ulivo.
Un urlo giallo di afa. Un tuono rovente di morte.
Con qualche grumo di cervello ancora non dilaniato dalla lamiera, sorrido all'ultima, sorridente scheggia di ulivo.
Sono Giuseppe. Ho 51 anni. Muoio per caso; come per caso, d'altra parte, si nasce.

martedì 21 giugno 2016

Sono morto. Dio al pianoforte?



Sono morto. E fin qui, nulla di speciale. Certo, alla tenera età di 39 anni, fa un po' specie morire. Ma tant'è: l'Eguagliatrice che numera le fosse ha chiesto il mio fio, e io sto qua, aspettando Dio. Nulla di più, nulla di meno.

Avete presente le nuvoletteSan Pietro, il cielo blu e le schiere degli angeli? Sì? Resettate tutto. Io, e sto ormai aspettando Dio da più di un'ora, vedo solo una panca, un corridoio scuro che sembra esistere solo per giustificare la presenza della panca di cui sopra, e un tizio col colbacco che mi chiede continuamente:<Ma com'è stato?>
"Cazzi tuoi, niente, eh?"
Che poi, a dirla tutta, fino ad adesso ho risposto a tutte le domande; anche a quelle del ciccione col toscano agli angoli della bocca che fumava e chiedeva, chiedeva e fumava. Dopo avermi sentito inanellare la selva di insuccessi che una vita che si rispetti porta inevitabilmente con sé, mi ha raccomandato di mettermi finalmente seduto lì, in attesa di Dio. Certo, anche lui mi ha chiesto:<Ma com'è stato?> Poi però, evidentemente stanco di far finta di non sapere, ha cominciato a sbellicarsi dalle risate.
Vabbuò, ho capito, ve lo dico. Sono morto, io antiliberista, antimperialista, anticapitalista convinto, a causa di un panino. Cioè, di un particolare tipo di panino. Santo Dio, sì, lo ammetto, era un mcchicken.
Stronza di un'ironia della sorte!
Mica è colpa mia se Amaranta lavorava lì e l'unico modo per vederla era ingozzarmi di panini del Mc Donald's? Tanto tuonò che piovve: l'ultimo morso del mcchicken mi è rimasto qui, piantato da qualche parte in gola, fino a portarmi dritto dritto in questo corridoio, come vi dicevo, ad aspettare Dio.
Si apre una tenda. L'uomo col colbacco mi dice che tocca a me ma mentre sto per entrare mi si avvicina curioso e, per l'ennesima volta, mi chiede:<Ma com'è stato?>
<Ma vaffanculo!>
Una voce, dal timbro di quelle da palcoscenico:<Dio è qui.>
Un teatro di periferia, di quelli raccolti, quasi intimi. Al centro della sala, un pianoforte: nero, a coda, immenso. Tutt'intorno candele, oggetti e suggestioni del Novecento.
Diavolo rosso dimentica la strada...
Bartali con gli occhi allegri da italiano in gita...
Fuori piove un mondo freddo...
È proprio un pianoforte da concerto, dal suono avvolto dal mistero, un pianoforte a coda lunga, nero... 
Il Mocambo e il curatore sembra un buon diavolo...
Un gelato al limon con l'intelligenza degli elettricisti...
Genova e il sole è un lampo giallo al parabris...
Azzurro e neanche un prete per chiacchierar.
All'estremità del suo piano da concerto, quello dal quale ha tolto un piede per vedere meglio il suo pubblico, ci sta lui. Un paio di baffi sornioni, un naso di quelli che hanno esaurito lo spettro delle profumazioni del mondo, gli occhi dell'avvocato che ha scandagliato tutte le memorie che un cuore umano può produrre.
<Dio...tu?>
Mi sorride con quell'aria tra l'allusivo e il timido. Giusto il tempo di insufflare il pneuma divino ai polpastrelli. Le nervature delle sue dita, quasi artritiche per il tormento e l'ironia che la sua maestria esige, tiranneggiano la tastiera, ricavandone moti d'infinito.
E il jazz in cui l'uomo scimmia cammina...
L'ultima carità di un'altra rumba che è soltanto un'allegria del tango...
La fuga che tiene la sua accademia sotto lo sguardo vitreo dei bicchieri di boemia...
Un valzer di vento e di paglia...
Blue tango tra le ombre verdi di un bovindo, gustando un'acqua al tamarindo...
Alle prese con una verde milonga in cui il musicista si diverte e si estenua.
Dal suo angolo di ispirazione, Dio-Conte mi fa un cenno. Si liscia il baffo e serio mi chiede:<Ma com'è successo?>
In quel momento mi vien quasi da piangere pensando che anche lui, il Dio del mio paradiso, mi voglia prendere in giro. Poi mi chiede di spiegarglielo con i tasti del pianoforte. Si siede e mi costringe quasi a prendere il suo posto, lì, sulla panca del protagonista.
Tradurre quella morte assurda con la tastiera? Ci provo, ma ne vien fuori un accordo talmente sguaiato da far provare sdegno al pianoforte di Paolo Conte.
Mi mette una mano sulla spalla. Dalla sua voce ruvida e suggestiva come la terra dei giardini pensili che hanno fatto il loro tempo, mi dice:<Ritorna lì, e vieni dal tuo Dio quando avrai un accordo meno stonato da suonare.>
Un'occhiolino d'intesa e una mano sul pianoforte.
E ricomincerà...come da un rendez-vous...parlando piano tra noi due....
E niente, poi mi sveglio.