giovedì 23 febbraio 2017

Una lingua si aggira per le strade dell'Occidente

Slurp, gnam, yum, crunch, slap, chomp. È la lingua, signori

Beninteso, per essa si vuole qui alludere a ogni singolo muscolo, organo o affine comunque utilizzato per mangiare, sorbire, gustare, succhiare, sgranocchiare, etc..
La lingua: il vero e, a questo punto, unico fantasma rimasto ad aggirarsi per le strade dell'Occidente.
Come dite? Esagero? Alzate lo sguardo dal display, allora, e guardatevi attorno: in qualsiasi crocicchio di strade, a ogni angolo di semaforo, a cavallo di tutte le parallele di marciapiedi, s'invoca, si blandisce, si adesca solo lei, nostra sorella Lingua.
Poco importa che tu sia ricco o povero, magro o grasso, erudito o zoticone. Tutto quello che conta, è quanto la tua lingua sia capace di farsi ingolosire da bizzeffe di ristoranti finto vintagedai mille fast food salmodianti maionese e ketchup, dall'ennesimo bar esotic-trash che rimanda a trasognanti atmosfere cafonal-chic.
La lingua, mesdames et messieurs, l'unico organo dotato di memoria elefantiaca. Chiedi a qualsivoglia, rapsodico omuncolo cavalcante smog e polveri sottili, dove deve andare sferzato da così tanta fretta e cosa debba fare con la boccuccia perennemente atteggiata a "culo di gaddrina".
Ti parlerà di stress che tutto obnubila, di mete che non si ricordano, di affari che annegano nell'ultimo fondo di caffè.
Ebbene, miei cari amici, l'unica cosa di cui, la personcina trafelata di cui sopra non si scorderà mai, la sola ossessione che si pianterà come un chiodo al centro della sua memoria, sarà quello che ha mangiato stamattina.
La lingua, cioè, che una volta evocata, ammantata da succulenti papille gustative riandrà, lucida di un nitore adamantino, al caffè di cinque minuti fa, alla nutella di stamane, alla pasta e fagioli (riposata, ça va sans dire) innaffiata dal vino simil biologico, di ieri sera.
E giù giù, in un sabba infernale di sapori e odori, libagioni e indigestioni, fino alla notte dei tempi quando, dopo la prima guerra tra Homoincazzosus e OminculusKazzimmoso, sorse la primigenia paura di restare senza cibo.
Ebbene, stiamo fermi ancora lì. Inghiottiamo calorie mentre guardiamo carboidrati in televisione, bestemmiando anatemi innervati dall'aroma di caffè per la pagella scarsa del figlio all'Alberghiero.
Una siderale, pantagruelica lingua, che fagocita ogni differenza architettonica (un angolo di Salerno, con i suoi tabernacoli di dolci e salati, è praticamente uguale a uno di Londra), qualsiasi tipicità locale (la sfogliatelle di Shangai guardano di sottecchi 'a sfugliatella 'e Napule).
Ma come il Pelide Achille ha il suo tallone, come l'ossigenato Trump ha il suo vocabolario, così pure l'insaziabile lingua ha il suo punctum dolens: la piazza assolata del paese, arroccato sulle pendici del compassato buonsenso, dove gli unici addensanti della crema sono le uova covate a prati freschi e ruzzolate brinose.
Poco male. Ogni regola ha la sua eccezione.
La lingua guarda con noncuranza il paesello bucolico, e si attorciglia famelica intorno all'ennesimo MangiaeBevi "che si apre madreperlato come ostrica, dove le perle siamo noi, da lisciare, (s)fregare per bene fino a consumarci."

venerdì 17 febbraio 2017

Aristide il Giusto e la pancia degli elettori


Nel 482 a.C., in una primavera appiccicosa di caucciù (gli antichi Greci a copiare Paolo Conte o viceversa?), bello e buono, decisero di ostracizzare Aristide. Ora, la pratica dell'ostracismo, era una cosa simpatica assai: in buona sostanza, chiunque riteneva che un cittadino ateniese potesse danneggiare la polis (fuor di metafora, lo 'nfamone-invidioso di turno), non doveva fare altro che recarsi in piazza e scrivere il nome del nemico su una pietra di ceramica (ostracon). Non appena l'attenzionato raggiungeva le  6000 preferenze (il voto da casa non valeva!), doveva salutare parenti e amici e darsi alla macchia. Insomma, il segnalato, veniva mandato in esilio per un periodo da cinque a dieci anni.
Paese che vai, usanza che trovi, se non fosse che Aristide, il candidato all'ostracismo, già da Erodoto veniva definito "l'uomo migliore e più giusto di Atene"; a tal punto corretto, da essere chiamato Aristide il Giusto. Paro paro, per intenderci, come il Mario Chiesa della Tangentopoli che fu (proprio oggi, 17 febbraio 2017, sono passati giusto 25 anni dall'arresto di Chiesa e, quindi, dall'inizio di Mani Pulite).
Plutarco racconta come un ateniese, probabilmente analfabeta, per scrivere il nome di Aristide sulla pietra di ceramica, si rivolgesse proprio a lui che evidentemente non conosceva.
Aristide il Giusto, allora, tomo tomo, lo guardò dalle vette della sua virtù, e gli chiese:<'O zi', levatemi una curiosità: ma voi lo conoscete 'sto soggetto che vi siete messo in capa di mandare in esilio?>
La leggenda vuole che il povero cristo lo guardasse indispettito (quanti fatti ca vo sapè chisto) e gli rispondesse:<No. Ma 'a verità sapete qual è? Ca m'aggio scucciato di sentire da tutta Atene che Aristide è giusto. Al mercato, "e vir Aristide comm'e giusto!"; nell'agorà, "e io mo n'aggio visto di onesti, ma comme Aristide il Giusto, mai!" Signore mio, non se ne può più. E mo ca ve l'ho detto, aggiat pacienza, fatemi la cortesia di scrivere 'stu sfaccimma 'e nome sulla pietra, e jatevenn.>
Aristide, che era il Giusto, trovò la motivazione "giusta" (e che poteva fare? Era giusto!) e  zitto e muto scrisse il proprio nome sull'ostracon.
Amici miei, tutto 'sto pistolotto per dire che, quando l'elettore vota "di pancia", e quindi sulla base del sospetto e dei like piuttosto che sulla valutazione delle capacità e dell'onestà dei candidati, dalle segrete dell'istinto più becero non può che sgaiattolare fuori il Trump, il Salvini o la Le Pen di turno.

mercoledì 1 febbraio 2017

Punto e virgola: ipotesi di un delitto

Stamattina sono stato al funerale del punto e virgola.
In chiesa, in primissima fila, c'era un impettito punto all'apparenza contrito per la morte del collega. Il pronome relativo però, sempre voglioso di spiegare qualcosa anche quando la decenza suggerirebbe di no, ha spifferato all'avverbio, che prontamente si è confidato con l'accento il quale, a sua volta: <E' proprio così, ti dico: - si è fatto scappare con i due punti - è stato il mammasantissima punto a fare fuori il punto e virgola.>
All'udire ciò, il punto interrogativo:<E perché mai?> ha chiesto dubbioso, aggiustandosi il rabbuffo sopra il cappello.
<Oh, codesta l'è bella! - esclama indispettito da cotanta ingenuità il punto esclamativo - L'è chiaro come il sole: la pausa piccinina del punto e virgola, sebbene non piccinina come quella bischera della virgola, se l'è bella e rubata lui. Maremma maiala, io non lo posso punto vedere quell'assassino del punto!>
puntini sospensivi che già dal primo sguardo hanno capito su quale elemento della compagnia si addensano i sospetti degli altri segni di interpunzione, scuotono la testa.
Col pensiero, perché a loro non è dato prendere apertamente posizione, ognuno è in disaccordo con gli altri componenti del trittico.
Il punto primo è convinto che il vero colpevole della morte del punto e virgola sia la virgola: troppo grande è la voglia di quest'ultima di essere il solo contraltare del punto, per lasciarsi scappare l'occasione di fare fuori il punto e virgola.
Il punto secondo, ritiene sì che è stata la virgola a disfarsi del punto e virgola ma che abbia preferito farlo in combutta con il punto solo per dividersi la fatica di quell'omicidio che, a conti fatti, avvantaggia in pari misura entrambi.
Il punto terzo, che per contratto chiude i puntini sospensivi ma che comunque deve prolungare l'eco di un'indecisione, afferma che è stato senz'ombra di dubbio il punto; oddio, che poi pure la virgola, eh?! Per quanto è anche vero che proprio l'altra sera, i due punti...il punto interrogativo...
Comunque stiano le cose, al momento del requiescat in pace, la santa Grammatica non sa proprio che pesci pigliare.
Chi ha ucciso il punto e virgola?
Ora, per esempio, nell'omelia ci sarebbe bisogno di una pausa, di uno iato più lungo della virgola che rimane indispettita per la sua inadeguatezza; ma anche di una sospensione che non rinvii i tempi della celebrazione alle calende greche come succede col punto che, parimenti alla virgola, si stizza per non poter risolvere il tutto.
Pausa corta, pausa lunga, virgola e punto, null'altro più: povero punto e virgola, ci mancherà il tuo silenzio calibrato!
E se è vero che "la scrittura è un arco e la punteggiatura ne regola la tensione", senza la buonanima del punto e virgola, si rischia di essere precipitosi o, al contrario, di scoccare la freccia quando la selvaggina è già scappata.

mercoledì 25 gennaio 2017

"Alessandro Magno Ieri e Oggi", di A. Cecchi Paone

Alessandro Magno, dopo tredici anni di regno che hanno sconvolto il mondo, si trova nella sua reggia di Babilonia.

L'uomo che, come racconta Plutarco, tiene la testa lievemente piegata a sinistra come se cercasse una prospettiva diversa per osservare le cose, muore ad appena trentatré anni.
Muore, così, l'uomo Alessandro che da piccolo riesce, lui solo, a capire cosa spaventa il per altri versi coraggiosissimo Bucefalo: la sua ombra.
Da questa comprensione, nasce un sodalizio con il suo cavallo che addirittura spingerà il sovrano macedone a dedicargli una città sulle rive dell'Idaspe, Bucefalia.
Resta invece in vita, a distanza di ventitré secoli, l'Alessandro fondatore di una città (Alessandria, per l'appunto) costruita su indicazione onirica di Omero davanti all'isoletta di Faro; la polis che, tra l'altro, ospita nella sua biblioteca tutto il sapere dell'epoca accumulato anche grazie all'obbligo per tutti gli stranieri di passaggio di lasciarvi copia di ogni scritto che portano con loro.
Vive l'Alessandro conquistatore che, partito dalla "barbara" Macedonia (così definita dai civilissimi ateniesi perché abitata da stranieri che balbettavano insicuri nell'idioma di Omero), si spinge fin dove nessuno ha osato mai andare, neanche il dio Dioniso nelle sue farneticanti peregrinazioni: il fiume Idaspe.
Eppure il leone di Pella sa che il mondo non finisce lì. Oltre il fiume, ne è certo, si estende la misteriosa India e dopo, chissà quale altra terra incognita. 
Alessandro il condottiero, però, che ha sempre combattuto in prima linea e non si è mai risparmiato nessuna sofferenza, guarda in faccia i suoi uomini segnati dagli anni e dalle sofferenze, e capisce ogni cosa: il mondo, per loro, finisce lì. Non l'avrebbero seguito oltre.
Mortificato, quindi, nella sua brama di oltrepassare ogni limite che, a ben vedere, lo rende ostaggio di un demone senza nome, acconsente a ricondurre il suo esercito in patria.
Resta in vita l'Alessandro cosmopolita che seguendo l'insegnamento di Aristotele avvia, anche in contrasto con parte dei suoi uomini che non vedono di buon occhio la fusione con i riti e costumi orientali, la globalizzazione c.d. virtuosa alimentata dall'insopprimibile amore per la conoscenza. Lo stesso amore che, se da un lato lo spingerà a dormire, ogni notte, con il capo appoggiato su una copia dell'Iliade e dell'Odissea gelosamente custodite anche sui campi di battaglia, dall'altro, lo invoglierà a ricondurre nel pantheon greco le divinità locali incontrate nelle innumerevoli città conquistate.
Sopravviverà, ancora, l'Alessandro mistico che ammirando qualsiasi indefesso viaggiatore, anche quelli che compiono il viaggio negli anfratti bui della propria anima, non tarderà a spostarsi quando Diogene di Sinope gli dirà che l'unica cosa che desidera da Alessandro Magno, è che se ne stia fuori dalla sua luce; così come sicuramente resta l'Alessandro indomito che, al cospetto della complessità del nodo di Gordio non esita, per preannunciare la prossima conquista dell'Asia, a tranciarlo con un colpo netto di spada, in barba alla sua proverbiale inestricabilità.
Infine sopravviveranno ancora altri cento Alessandro, tutti reali e immaginari, tutti umani e divini. E quando si tratterà di farsi proclamare figlio di Zeus, sarà lo stesso condottiero macedone a sfruttare un errore di pronuncia dell'oracolo che anziché appellarlo paidìon (figlio), lo chiamerà paidiòs (figlio di Zeus), per assurgere al rango che gli spetta, quello di dio.
In questo romanzo ben cesellato di Cecchi Paone, c'è tutto Alessandro, la sua storia, il mito, la grandezza delle sue azioni da cui trasuda un'umanità che ancora oggi affascina il mondo intero. E come in un gioco di specchi che si rimandano luce riflessa da ben ventitré secoli, il Nostro è visto anche dalla prospettiva di oggi, oltre che di ieri: la Storia e la Divinità del re macedone, quasi per soddisfare, entrambe diversamente esigenti, i due colori (chiaro e scuro) che avevano gli occhi dell'inarrivabile Alessandro Magno.

lunedì 16 gennaio 2017

"La casa dei sette cadaveri", di J. Farjeon

Metti un cancello, di quelli cesellati, che cigolano svogliati lasciando intravedere una casa indifesa.

Metti che questa casa sulla costa dell'Essex trasudi ricchezza da ogni mattoncino avvinghiato dall'edera.
Metti, ancora, l'assenza di qualsivoglia movimento intorno alla casa così come di tracce di fumo che escano dal comignolo. Se poi a tutti questi segni di abbandono aggiungi anche la mancanza di cani a difesa della proprietà e, soprattutto, una finestra senza imposte che sembra dirti "vienimi ad aprire", beh, allora lo possiamo ben capire, Ted Lyte. E sì perché quella casa deserta potrebbe significare qualcosa da mettere sotto i denti a digiuno da quasi una settimana oltreché, sia chiaro, una dozzina di posate d'argento da rivendere al miglior offerente.
Un salto sul davanzale della finestra, e Ted Lyte non ci pensa più. Ma ecco la tentazione di una porta chiusa a chiave e lo sciagurato ladruncolo che non riesce a resistervi. Gira la chiave lasciata nella toppa e apre, convinto di trovare un muro di tenebre a inghiottire le pareti di quella stanza.
Nulla di tutto questo: la sua vista viene sferzata da un'abbagliante luce elettrica.
Ted, vattene via, lasciati bruciare le pupille da quel bagliore artificiale e abbandona di corsa la casa.
Troppo tardi: la sua vista e la sua ragione vengono incatenati da sette cadaveri disseminati in quel sudario di morte.
Lo scenario che si squaderna davanti agli occhi del giornalista free lance Hazeldean e dell'ispettore Kendall, nel frattempo accorsi in casa, è di quelli che richiedono un acume investigativo sicuramente non comune. E si badi bene, non ci si riferisce ai malcapitati sette cadaveri, ché quello è un dato la cui gravità può essere, e infatti lo è stata fin da subito, tranquillamente rilevata anche dal povero Ted Lyte. Nossignore, il riferimento è al foglietto stropicciato su cui c'è scritto: "Con le scuse del Club dei Suicidi" e sul retro dello stesso, stavolta aggiunto a matita, "Particolari all'indirizzo 59.16S 4.6E An". Ma ancora, altro elemento che richiede approfondimenti, Hazeldean e Kendall trovano un foro di proiettile proprio al centro del cuore di una bambina, che poi si scoprirà essere Dora Fenner, ritratta nel quadro in fondo alla parete.
Infine, su una mensola anonima della casa, fa bella e inquietante mostra di sé una logora palla da cricket che porta impressi i segni di un accordo violato.
Rigurgito di quale passato è l'insolito oggetto e perché ci si è presi la briga di sfondare un vetro per farlo arrivare fin lì, quasi firma in calce a quelle sette morti?
La casa dei sette cadaveri di Farjeon è un congegno dagli ingranaggi ben incastonati nel corpus narrativo.
Lontano dagli eccessi e dagli stereotipi di troppa letteratura di genere, l'opera riesce a "tenere in tensione" il lettore per gran parte del libro, in un crescendo di (mai banali) colpi di scena.
L'escamotage del diario che incontriamo alla fine del romanzo, poi, sia pure certo non una novità nel filone mistery, ha il merito di riannodare le fila degli eventi che potrebbero sfuggire al lettore.
Non è un caso che, tra gli estimatori dello scrittore, ci fosse Dorothy L. Sayers, uno dei grandi nomi della letteratura gialla, che ne apprezzava le trame ingegnose e i personaggi "intriganti".

lunedì 9 gennaio 2017

"L'oro di Napoli", di Giuseppe Marotta

L'oro, per rilucere, richiede una certa distanza: solo così l'occhio umano potrà saziarsi dei mille bagliori che vi si irradiano.

Già, proprio come accade con l'albero di limoni di Montale: è solo nelle città rumorose e, quindi lontano dalla campagna, che dal malchiuso portone possono scoppiare le trombe d'oro della solarità.
Giuseppe Marotta, da Milano, da una città e da una condizione economica per molti versi opposte a quella di vicoli e stenti di Napoli, riesce a catturare e a capire l'oro di Napoli dell'immediato dopoguerra.
L'oro è il pane con sale e olio a cui si ricorre quando tutto è perduto: finito il denaro, finito il credito, finite le avemarie, infatti, resta soltanto la poesia del pane con sale e olio.
L'oro!
E come non trovarlo pure nelle pizze a giorno a otto che don Rosario Pugliese prepara gonfie di fondente ricotta e non prive di qualche truciolo di prosciutto in Vico Lungo Sant'Agostino? Si mangiano adesso e si pagano solo fra otto giorni, circostanza, questa, che incoraggia, stimola e potenzia il consumatore. E sì perché, a ben vedere, in otto giorni possono accadere tante cose, non ultima la morte, senza eredi, dello stesso pizzaiolo.
E oro è pure il brodo di polipo di don Gennarino Aprile in cui c'è solo un frammento di polipo che sarebbe opportuno sputare prima di andare a letto ma che, all'occorrenza, si può ricominciare a masticare anche l'indomani mattina e per sempre, in saecula saeculorum: insomma, chiosa un divertito Marotta, il frammento di polipo è il verace antenato del chewing-gum americano.
E come, poi, non rivestire d'oro il culto dei napoletani per gli spaghetti? E già, perché, chi entra in paradiso da una porta, non è nato a Napoli dal momento che, il napoletano, il suo ingresso trionfante nel palazzo dei palazzi lo fa solo scostando delicatamente una tendina di spaghetti. Ma...
Ma l'oro di Napoli è anche il guappo che era un criminale e non lo era. Più che mettersi fuori dalla legge egli le opponeva una sua legge; e lo sberleffo di don Pasquale Esposito? D'oro, anch'esso, si capisce, soprattutto nella sua distinzione tra pernacchio (forte o debole, lungo o corto, massiccio o sdutto, aquilino o camuso ma è sempre maschio, ma è costruttivo e solerte, ma insomma lavora) pernacchia che è molle e pigra, tumida, bianca, sdraiata; insomma, come un'odalisca sui tappeti: femmina.
Aurea, di poi, è la nonna dello scrittore che, se le avessero fatto l'autopsia, le avrebbero trovato una spina dorsale fatta di grani di rosario, sette poste e misteri, così come la gobba di don Ignazio Ziviello che si vanta di tenerci, lì dentro, un angelo custode chiuso a chiave.
Ma anche l'amore a Napoli, capace di generare un figlio dalla prima guagliona con cui ci si è fatto l'amore ben tredici anni addietro, è d'oro; così come lo è la verde e accigliata Porta Capuana, palpitante tra i vapori diffusi dalle immense teglie delle friggitorie. E i Quartieri che Dio creò per sentirvisi lodato e offeso il maggior numero di volte nel minore spazio possibile? Certo che son dorati, ci mancherebbe!
L'oro di Napoli, inoltre, non risparmia nemmeno le divinità: la mamma schiavona di Montevergine, dove gli squarcioni, tra una preghiera e un voto, fanno a gara a chi ostenta più lusso; San Giuseppe, che nel mese di giugno,  siede con gli scugnizzi sul marciapiede o sulla stanga di un carretto di cocomeri o su una ringhiera o su niente.
Nella Napoli d'oro di Marotta, raccontata senza stereotipi o stupido folklore, senza pietismo e senza retorica ma solo con sentita partecipazione, è d'oro la stessa Morte perché ogni uomo, a Napoli, dorme con sua moglie e con la morte; in nessun paese del mondo la morte è domestica e affabile come laggiù tra Vesuvio e mare.

martedì 27 dicembre 2016

La Grande Magia de "La Locandina" di Pagani

La grande Magia di Eduardo De Filippo, commedia in 3 atti, per la regia di Alfonso Tortora.

Sono già stato qui, al Teatro La Locandina di Pagani. La prima volta, ho assistito alla messa in scena di Tre pecore viziose di Eduardo Scarpetta.
In quella occasione, sono bastate poche battute recitate con maestria dai funambolici interpreti, per fare degli spettatori l'ideale cassa di risonanza degli equivoci, degli infingimenti rappresentati sul palcoscenico. E la distanza, già strutturalmente esigua tra palco e platea, si è azzerata nell'idem sentire attori-pubblico che è la sola, inconfutabile attestazione di successo.
Buona la prima.
Stasera, però, mi sono accomodato nella poltrona armato della penna già intinta nell'inchiostro della stroncatura; come se non bastasse, poi, ho deposto ai lati della poltrona la faretra di lance acuminate pronte a infilzare la tracotanza, la hybris, della Compagnia.
"Voglio proprio vederli, 'sti saltimbanchi de La Locandina, destreggiarsi lungo l'infido margine realtà-finzione proprio de La grande Magia!"
Una sfida, insomma, da far tremare le vene ai polsi allo stesso Eduardo che, forse consapevole della complessità del tema sviscerato anche nell'Enrico IV di Pirandello, ha rappresentato la commedia solo poche volte.
La recita della vicenda che avrebbe dovuto incubare la mia stroncatura, si dipana lungo il perimetro degli occhi spiritati del prestigiatore Otto Marvuglia (un caleidoscopico Carmine De Pascale) che, "appattatosi" con Mariano D'Albino (Alessandro De Pascale, dizione "da libro stampato"), fa scomparire, in un luciferino gioco di magia, l'amante di quest'ultimo, la signora Marta Di Spelta (una suggestiva Teresa Barbara Oliva), esasperata dalla gelosia parossistica di suo marito, Calogero di Spelta (Tonino De Vivo...profondo!). Nel suo numero, il mago è aiutato dalla sgangherata compagna di vita e di palcoscenico, l'eccessiva Zaira (una sopraffina Valeria De Pascale).
La sparizione, come d'accordo, avrebbe dovuto durare non più di un quarto d'ora. Ma che succede se poi i due amanti, all'inizio solo vogliosi di uno scampolo d'intimità, decidono di tagliare la corda per quattro lunghissimi anni?
La magia si concretizza nella scatola consegnata dall'illusionista al marito abbandonato con la raccomandazione di aprirla solo se e solo quando avrà la fede "certa" dell'onestà della moglie. Unicamente a queste condizioni, quindi, la signora Di Spelta, nel più incredibile giuoco di prestidigitazione in cui mago si sia mai cimentato, potrà finalmente riapparire.
Ma, nelle more (termine giuridico che ben è familiare a Renato Giordano, anche lui "capace"parte in commedia) di questo intricato canovaccio, nel faticoso dosaggio tra il freno della realtà e l'acceleratore dell'impressione che solo può convincere il marito tradito della veridicità dell'assurdosi arriva, poi, allo spiazzante epilogo.
Per dirla con Demostenenulla è più facile che illudersi, perché ciò che ogni uomo desidera, crede anche che sia vero.
La grande Magia, giocando abilmente tra la vista "relativa" e il fantasmagorico terzo occhio, consuma le ultime battute del III Atto.
Sul palcoscenico stanno furoreggiando le intemperanze verbali del cameriere Gennarino (Peppe Di Maio, la maschera plautina della Compagnia), il siciliano ottuso del brigadiere di P.S. (uno scenografico Peppe Tufano); e ancora, le rivendicazioni della cinica cognata di Di Spelta (la deliziosa Rosaria Argentino) accompagnate dalle lacrime quarantennali della di lei suocera Matilde ("vera" Monica Civale). Infine, per ultimi ma non ultimi, ecco i commenti pettegoli della Signora Locascio (una frizzante Rosalba Canfora), della Signora Zampa ("stilosa" Letizia Vicidomini) e il sorriso complice di Gervasio Penna (al secolo, un rassicurante Lello Tortora).
Alla fine della rappresentazione, dopo il sipario ultimo dei saluti, l'inchiostro della mia bic si redime in questo articolo di apprezzamento; la mia faretra, invece, quasi fosse protagonista di una de Le metamorfosi di Ovidio, si muta in una cornucopia di convinti applausi.
La grande Magia portata in scena dalla Compagnia La Locandina di Pagani è artigianato puro in un mondo, quello del teatro, dove troppo spesso è la standardizzazione a farla da padrona.
Chapeau, ragazzi!