lunedì 20 marzo 2017

Ecomostro di Aresta, null'altro che un ricordo

Per avere un'idea della nutrita schiera di mostri che abitano il nostro subconscio, basta chiedere lumi ai bambini lasciati anche solo per un minuto in qualche intercapedine di oscurità.

Ti parleranno, allora, alle nostre latitudini, di MariaLonga che, come i serpenti di Laocoonte, ti avvinghierà coi suoi chilometrici capelli per scaraventarti in fondo al pozzo; dell'Uomo Nero che ti tiene per un anno intero per poi crocifiggerti in un crocicchio di paura; del Munaciello  che quando non porta soldi e non è di indole benigna, ti entra nell'anima e si impossessa della sua veste peggiore.
Agli abitanti di Petina e non solo, da ormai sedici, lunghi anni, il termine "mostro" evoca una sola presenza: l'ecomostro di Aresta, appollaiato con le sue propaggini di cemento e grigiore, proprio di fronte all'Osservatorio del  predetto comune dei Monti Alburni.
C'era una volta, principierà, allora, a raccontare il bambino legato a quei mostri del tempo che fu, la bruttura di Aresta.
Questo mostro fu costruito nel lontano 2001. Sotto la veste apparentemente utile del deposito di attrezzi agricoli (anche la strega di Biancaneve, a ben vedere, si presenta ai sette nani come un'innocua nonnina) si celava, fin dal principio, l'intento speculativo dello chalet all'ultimo grido.
Come? L'ecomostro non poteva essere costruito perché ricadente nel territorio del Parco?
Quando il dito indica la luna, lo stolto guarda il dito.
Cosa fatta, capo ha.
Fu aperto (i buoni, in ogni favola che si rispetti, prima o poi intervengono sempre), nel 2003, un procedimento penale a carico, tra gli altri, del direttore del Parco, architetto Nicoletti, al quale vennero contestati una serie di reati anche paesaggistici.
Il procedimento penale si prescrive (il tempo, a volte, sa essere canaglia) e l'ecomostro di Aresta, dapprima sequestrato, viene poi fatto oggetto di dissequestro e consegnato al comune di Petina che, quasi temendo i sortilegi che le presenze demoniache sanno evocare, si è guardato bene dal riqualificarlo.
Arrivano i nostri.
Il Codacons Campania, per iniziativa indefessa e meritoria dell'Avv. Maria Cristina Rizzo del Foro di Salerno, ha diffidato il Parco nazionale del Cilento ad abbattere la struttura incriminata, trattandosi di un'opera incompiuta che deturpa l'ambiente (si trova, infatti, in un lussureggiante pianoro di una suggestione unica).
Ebbene, il giorno in cui l'ecomostro di Aresta avvertirà la dentellatura della ruspa affondare nel suo substrato di interessi e di illegalità, è stato fissato in mercoledì 22 marzo 2017.
C'era una volta. 
Gli abitanti di Petina, e non solo, potranno confinare, come gli Argonauti riuscirono a fare con le fetenti Arpie nelle grotte, il mostro che ha offuscato per ben sedici anni il loro orizzonte di legalità, nel dimenticatoio di una vecchia storia di speculazione e abusivismo.
Il bellissimo pianoro di fronte all'Osservatorio di Petina gonfia il petto inorgoglito della ritrovata fruibilità. E assieme con esso, l'Avv. Maria Cristina Rizzo, dopo aver ringraziato il Presidente del Parco Tommaso Pellegrino e, ovviamente, il Codacons Campania, declama, con la vista finalmente libera dalla maledizione dell'ecomostro, il "Tra nuvole e terra/d'improvviso/il sole/ depositò il suo uovo sodo" di Pablo Neruda.


mercoledì 15 marzo 2017

Donnavventura in attesa di Poirot su rete 4

Ogni sabato pomeriggio, in attesa di Poirot su rete 4 (canale che per me esiste solo per lo sceneggiato ispirato ai racconti di Agatha Christie), mi sorbisco gli ultimi strascichi di Donnavventura.

No, ja, così sa troppo di matusa intellettualoide. Rettifico: rete 4, "che per me esiste solo per Poirot e per i film di Bud Spencer e Terence Hill."
Ecco, così va meglio. Torniamo a Donnavventura, però.
Per carità, l'idea alla base del programma sarebbe pure interessante: sette ragazze (il sito di Donnavventura ci tiene a precisare che trattasi di giornaliste...sarà!)  alla guida di quattro pick-up rossi (sette diviso quattro fa... poco più di una ragazza e mezzo a bordo di ogni macchina: le polveri sottili, commosse da tanta generosità, ringraziano) scorrazzano per il mondo alla ricerca di luoghi ed esperienze spettacolari.
Ora, a parte il fatto che le giovani pulzelle in questione casualmente sono tutte alte, magre, belle e bone; che altrettanto casualmente sembrano vivere ogni esperienza, anche quella meno entusiasmante, con l'espressione propria dell'Estasi di Santa Teresa d'Avila del BerniniA parte tutto questo, dicevo, quello che proprio non si può sopportare, è la presenza pervasiva, ossessionante, della marche nel programma trasmesso su rete 4.
Innanzitutto e sopratutto, 1A Classe di Alviero Martini: qualsiasi cosa indossino, sfoggino le valchirie di Donnavventura, potete stare certi che ha da qualche parte impresso il "marrone continentale" del celeberrimo brand. A tal proposito c'è da scommettere che, a guardare bene le inquadrature sempre ammiccanti della fortunata trasmissione, sicuramente in qualche angolo della ripresa, come un messaggio subliminale del rocker satanico di grido, compariranno le nuances inconfondibili della 1A Classe.
Non che abbia qualcosa contro i brand in generale e la 1A Classe in particolare, sia chiaro. Solo che sono sempre più convinto che, mentre anni fa la marca, proprio per la difficoltà oggettiva di farsi pubblicità, era davvero, quasi sempre, garanzia di qualità, oggi le cose stiano diversamente. Nella nostra società a uso e consumo della ripresa video, infatti, si pensa prima a farsi pubblicità e poi, se proprio si vuol durare oltre il breve volgere di una stagione, si cerca anche di fare i prodotti come Dio comanda.
Per altri versi, è ciò che accade, ad esempio, per i cantanti: qualche decennio fa, per l'ugola vogliosa di successo, l'apparizione in televisione era il punto di arrivo di una carriera iniziata nelle ruspanti feste di piazze e poi, a colpi di abnegazione e sacrificio, approdata alla ribalta televisiva. Oggi, invece, il discorso si è capovolto: si va prima in tv per marcare la propria esistenza artistica e poi, se proprio si diventa bravi e si ha seguito, si viene insigniti della veste di cantante.
Ritornando alle marche, a ben vedere è giustificata questa logica, vuoi perché se non sei riconoscibile, a prescindere addirittura dalla qualità della tua offerta, sei tagliato fuori vuoi perché il consumatore è talmente anonimo, talmente insicuro, che ha bisogno di un brand che gli dia una identità purchessia e un posto nel mondo che ne legittimi l'esistenza.
Vabbuò, ora ho detto quello che penso di Donnavventura e della dominazione delle marche in questa trasmissione, e non solo. Mo fatemi il piacere, lasciatemi stare in pace qui, sotto le coperte, che dopo l'ennesima pubblicità intenta a veicolare il millesimo brand della giornata, inizia il mio Poirot. Mi devo concentrare: la bellezza è a tal punto complicata da non consentire distrazioni se non si vuole perdere il filo dell'indagine.
(...) hamburger, che sarebbero venti lire di pane, centottanta di polpette e milleottocento lire di nome americano. (Stefano Benni, "Saltatempo").

venerdì 3 marzo 2017

Lorenzo Forte e gli “svaniti in una nebbia o in una tappezzeria”

Lorenzo Forte, l'ho scelto di incontrare io.
"Stavolta, non ci ricasco", mi sono detto, mentre l'attendevo davanti al Bar Verdi di Salerno.
Passati in rassegna i miei 40 anni come brava recluta, ho realizzato che almeno 30 di questi li ho spesi scambiando lucertole per draghi, interessi per ideali, ennesimi Sancho Panza per rarissimi Don Chisciotte della Mancia.
"Stavolta no, caro Lorenzo; stavolta sarò accortissimo nello stanare l'imbroglio, tanto più che anche nel fisico riveli più il castello agognato da Sancho che i mulini a vento combattuti dall'ingenioso hidalgo."
Giusto il tempo di presentarmi, di allestire il più falso sorriso in dotazione, che sparo crudo:<Lorenzo Forte, perché lo fai?>
L'imbarazzo nel mio interlocutore dura una decina di secondi, giusto il tempo di far affiorare il ricordo dai suoi occhi. E mi parla di fantasmi, Lorenzo Forte, del tizio che vestiva sempre un impermeabile bianco quasi per redimersi dal nero bituminoso delle Fonderie Pisano che, di lì a poco, avrebbe corroso le sue viscere.
Mi parla anche della palazzina di via dei Greci, a Fratte, dove in ognuno dei dodici appartamenti, c'è almeno un sudario che gronda cadmio, ferro e disperazione; già, proprio così: almeno uno, per ogni appartamento della palazzina.
Mi racconta, ed è l'unico momento in cui sembri non dare troppa importanza all'argomento, della sua allergia comparsa quando abitava a Fratte (poi, una volta allontanatosene, quasi del tutto andata via); della necessità, ogni mattino che il dio della produzione manda in terra, di liberare le ringhiere e i balconi esterni di casa sua dalla polvere ferrosa appollaiata, come l'upupa nei cimiteri, in attesa di contaminare l'ennesimo organismo.
E poi, Lorenzo Forte, accenna a collusioni politiche combattute da privato cittadino prima, da consigliere comunale poi, a vicende processuali volte a dimostrare una volta per tutte il nesso di causalità tra inquinamento provocato dalle Fonderie Pisano e le troppe morti dei residenti a Fratte e non solo, a permessi ambientali concessi alla fabbrica ormai riconosciuti come illeciti, inefficaci, illegittimi.
Snocciola cifre e dati, Lorenzo, in maniera così analitica e incalzante che la mia penna, intorpidita dal retrogusto della caffeina, non riesce ad annotare.
All'improvviso mi guarda con gli occhi di chi ha stanato la mia diffidenza troppo radicata per darsi già per vinta e, quasi a prevenire l'obiezione che gli sto per muovere, chiosa sornione:<Che poi, se non bastassero i dati, i rilievi, i processi, ci sarebbe pur sempre l'esperienza comune, ovviamente corredata da analisi scientifiche: nei circa sei mesi della chiusura delle Fonderie Pisano, le polvere metalliche e gli inquinanti in genere sono quasi del tutto scomparsi.>
Giunti ormai quasi alla fine del nostro incontro, Lorenzo Forte trova il tempo di illuminarsi in volto. Ciò accade quando parla del suo "straordinario" Comitato "Salute e Vita", delle poche persone che hanno avuto il coraggio, ognuno nel proprio campo e secondo la propria specificità, di fare appieno il proprio dovere (Don Marco Raimondo, il commissario Vasaturo, il procuratore Lembo).
Ci stiamo dando la mano. Per fortuna capisce che, a questo punto, basta davvero poco per farmi ricredere sulla possibilità che ci possa essere qualcuno spinto all'azione da un interesse generale perché superiore:<Hanno detto che cerco la visibilità per mettere all'incasso "politico" il dividendo conseguito con le nostre battaglie. È tanto vero ciò, che non mi sono candidato nelle scorse elezioni comunali.>
Ognuno catapultato nel suo angolo di vita, capisco che Lorenzo Forte si batte per le stesse ragioni per cui si batte anche la maestra Anna Risi, portavoce del Comitato "Salute e Vita": non per un interesse personale (la maestra ha perso già tutto quello che poteva perdere, il marito e la figlia, entrambi stroncati da un tumore) ma "a difesa del Creato", come direbbe l'instancabile don Marco Raimondo.
E io ci credo, forse per la prima volta sicuro di non essere ingannato, soprattutto per loro, i morti delle Fonderie Pisano, "svaniti in una nebbia (inquinamento) o in una tappezzeria (politica connivente)." (Paolo Conte)

giovedì 23 febbraio 2017

Una lingua si aggira per le strade dell'Occidente

Slurp, gnam, yum, crunch, slap, chomp. È la lingua, signori

Beninteso, per essa si vuole qui alludere a ogni singolo muscolo, organo o affine comunque utilizzato per mangiare, sorbire, gustare, succhiare, sgranocchiare, etc..
La lingua: il vero e, a questo punto, unico fantasma rimasto ad aggirarsi per le strade dell'Occidente.
Come dite? Esagero? Alzate lo sguardo dal display, allora, e guardatevi attorno: in qualsiasi crocicchio di strade, a ogni angolo di semaforo, a cavallo di tutte le parallele di marciapiedi, s'invoca, si blandisce, si adesca solo lei, nostra sorella Lingua.
Poco importa che tu sia ricco o povero, magro o grasso, erudito o zoticone. Tutto quello che conta, è quanto la tua lingua sia capace di farsi ingolosire da bizzeffe di ristoranti finto vintagedai mille fast food salmodianti maionese e ketchup, dall'ennesimo bar esotic-trash che rimanda a trasognanti atmosfere cafonal-chic.
La lingua, mesdames et messieurs, l'unico organo dotato di memoria elefantiaca. Chiedi a qualsivoglia, rapsodico omuncolo cavalcante smog e polveri sottili, dove deve andare sferzato da così tanta fretta e cosa debba fare con la boccuccia perennemente atteggiata a "culo di gaddrina".
Ti parlerà di stress che tutto obnubila, di mete che non si ricordano, di affari che annegano nell'ultimo fondo di caffè.
Ebbene, miei cari amici, l'unica cosa di cui, la personcina trafelata di cui sopra non si scorderà mai, la sola ossessione che si pianterà come un chiodo al centro della sua memoria, sarà quello che ha mangiato stamattina.
La lingua, cioè, che una volta evocata, ammantata da succulenti papille gustative riandrà, lucida di un nitore adamantino, al caffè di cinque minuti fa, alla nutella di stamane, alla pasta e fagioli (riposata, ça va sans dire) innaffiata dal vino simil biologico, di ieri sera.
E giù giù, in un sabba infernale di sapori e odori, libagioni e indigestioni, fino alla notte dei tempi quando, dopo la prima guerra tra Homoincazzosus e OminculusKazzimmoso, sorse la primigenia paura di restare senza cibo.
Ebbene, stiamo fermi ancora lì. Inghiottiamo calorie mentre guardiamo carboidrati in televisione, bestemmiando anatemi innervati dall'aroma di caffè per la pagella scarsa del figlio all'Alberghiero.
Una siderale, pantagruelica lingua, che fagocita ogni differenza architettonica (un angolo di Salerno, con i suoi tabernacoli di dolci e salati, è praticamente uguale a uno di Londra), qualsiasi tipicità locale (la sfogliatelle di Shangai guardano di sottecchi 'a sfugliatella 'e Napule).
Ma come il Pelide Achille ha il suo tallone, come l'ossigenato Trump ha il suo vocabolario, così pure l'insaziabile lingua ha il suo punctum dolens: la piazza assolata del paese, arroccato sulle pendici del compassato buonsenso, dove gli unici addensanti della crema sono le uova covate a prati freschi e ruzzolate brinose.
Poco male. Ogni regola ha la sua eccezione.
La lingua guarda con noncuranza il paesello bucolico, e si attorciglia famelica intorno all'ennesimo MangiaeBevi "che si apre madreperlato come ostrica, dove le perle siamo noi, da lisciare, (s)fregare per bene fino a consumarci."

venerdì 17 febbraio 2017

Aristide il Giusto e la pancia degli elettori


Nel 482 a.C., in una primavera appiccicosa di caucciù (gli antichi Greci a copiare Paolo Conte o viceversa?), bello e buono, decisero di ostracizzare Aristide. Ora, la pratica dell'ostracismo, era una cosa simpatica assai: in buona sostanza, chiunque riteneva che un cittadino ateniese potesse danneggiare la polis (fuor di metafora, lo 'nfamone-invidioso di turno), non doveva fare altro che recarsi in piazza e scrivere il nome del nemico su una pietra di ceramica (ostracon). Non appena l'attenzionato raggiungeva le  6000 preferenze (il voto da casa non valeva!), doveva salutare parenti e amici e darsi alla macchia. Insomma, il segnalato, veniva mandato in esilio per un periodo da cinque a dieci anni.
Paese che vai, usanza che trovi, se non fosse che Aristide, il candidato all'ostracismo, già da Erodoto veniva definito "l'uomo migliore e più giusto di Atene"; a tal punto corretto, da essere chiamato Aristide il Giusto. Paro paro, per intenderci, come il Mario Chiesa della Tangentopoli che fu (proprio oggi, 17 febbraio 2017, sono passati giusto 25 anni dall'arresto di Chiesa e, quindi, dall'inizio di Mani Pulite).
Plutarco racconta come un ateniese, probabilmente analfabeta, per scrivere il nome di Aristide sulla pietra di ceramica, si rivolgesse proprio a lui che evidentemente non conosceva.
Aristide il Giusto, allora, tomo tomo, lo guardò dalle vette della sua virtù, e gli chiese:<'O zi', levatemi una curiosità: ma voi lo conoscete 'sto soggetto che vi siete messo in capa di mandare in esilio?>
La leggenda vuole che il povero cristo lo guardasse indispettito (quanti fatti ca vo sapè chisto) e gli rispondesse:<No. Ma 'a verità sapete qual è? Ca m'aggio scucciato di sentire da tutta Atene che Aristide è giusto. Al mercato, "e vir Aristide comm'e giusto!"; nell'agorà, "e io mo n'aggio visto di onesti, ma comme Aristide il Giusto, mai!" Signore mio, non se ne può più. E mo ca ve l'ho detto, aggiat pacienza, fatemi la cortesia di scrivere 'stu sfaccimma 'e nome sulla pietra, e jatevenn.>
Aristide, che era il Giusto, trovò la motivazione "giusta" (e che poteva fare? Era giusto!) e  zitto e muto scrisse il proprio nome sull'ostracon.
Amici miei, tutto 'sto pistolotto per dire che, quando l'elettore vota "di pancia", e quindi sulla base del sospetto e dei like piuttosto che sulla valutazione delle capacità e dell'onestà dei candidati, dalle segrete dell'istinto più becero non può che sgaiattolare fuori il Trump, il Salvini o la Le Pen di turno.

mercoledì 1 febbraio 2017

Punto e virgola: ipotesi di un delitto

Stamattina sono stato al funerale del punto e virgola.
In chiesa, in primissima fila, c'era un impettito punto all'apparenza contrito per la morte del collega. Il pronome relativo però, sempre voglioso di spiegare qualcosa anche quando la decenza suggerirebbe di no, ha spifferato all'avverbio, che prontamente si è confidato con l'accento il quale, a sua volta: <E' proprio così, ti dico: - si è fatto scappare con i due punti - è stato il mammasantissima punto a fare fuori il punto e virgola.>
All'udire ciò, il punto interrogativo:<E perché mai?> ha chiesto dubbioso, aggiustandosi il rabbuffo sopra il cappello.
<Oh, codesta l'è bella! - esclama indispettito da cotanta ingenuità il punto esclamativo - L'è chiaro come il sole: la pausa piccinina del punto e virgola, sebbene non piccinina come quella bischera della virgola, se l'è bella e rubata lui. Maremma maiala, io non lo posso punto vedere quell'assassino del punto!>
puntini sospensivi che già dal primo sguardo hanno capito su quale elemento della compagnia si addensano i sospetti degli altri segni di interpunzione, scuotono la testa.
Col pensiero, perché a loro non è dato prendere apertamente posizione, ognuno è in disaccordo con gli altri componenti del trittico.
Il punto primo è convinto che il vero colpevole della morte del punto e virgola sia la virgola: troppo grande è la voglia di quest'ultima di essere il solo contraltare del punto, per lasciarsi scappare l'occasione di fare fuori il punto e virgola.
Il punto secondo, ritiene sì che è stata la virgola a disfarsi del punto e virgola ma che abbia preferito farlo in combutta con il punto solo per dividersi la fatica di quell'omicidio che, a conti fatti, avvantaggia in pari misura entrambi.
Il punto terzo, che per contratto chiude i puntini sospensivi ma che comunque deve prolungare l'eco di un'indecisione, afferma che è stato senz'ombra di dubbio il punto; oddio, che poi pure la virgola, eh?! Per quanto è anche vero che proprio l'altra sera, i due punti...il punto interrogativo...
Comunque stiano le cose, al momento del requiescat in pace, la santa Grammatica non sa proprio che pesci pigliare.
Chi ha ucciso il punto e virgola?
Ora, per esempio, nell'omelia ci sarebbe bisogno di una pausa, di uno iato più lungo della virgola che rimane indispettita per la sua inadeguatezza; ma anche di una sospensione che non rinvii i tempi della celebrazione alle calende greche come succede col punto che, parimenti alla virgola, si stizza per non poter risolvere il tutto.
Pausa corta, pausa lunga, virgola e punto, null'altro più: povero punto e virgola, ci mancherà il tuo silenzio calibrato!
E se è vero che "la scrittura è un arco e la punteggiatura ne regola la tensione", senza la buonanima del punto e virgola, si rischia di essere precipitosi o, al contrario, di scoccare la freccia quando la selvaggina è già scappata.

mercoledì 25 gennaio 2017

"Alessandro Magno Ieri e Oggi", di A. Cecchi Paone

Alessandro Magno, dopo tredici anni di regno che hanno sconvolto il mondo, si trova nella sua reggia di Babilonia.

L'uomo che, come racconta Plutarco, tiene la testa lievemente piegata a sinistra come se cercasse una prospettiva diversa per osservare le cose, muore ad appena trentatré anni.
Muore, così, l'uomo Alessandro che da piccolo riesce, lui solo, a capire cosa spaventa il per altri versi coraggiosissimo Bucefalo: la sua ombra.
Da questa comprensione, nasce un sodalizio con il suo cavallo che addirittura spingerà il sovrano macedone a dedicargli una città sulle rive dell'Idaspe, Bucefalia.
Resta invece in vita, a distanza di ventitré secoli, l'Alessandro fondatore di una città (Alessandria, per l'appunto) costruita su indicazione onirica di Omero davanti all'isoletta di Faro; la polis che, tra l'altro, ospita nella sua biblioteca tutto il sapere dell'epoca accumulato anche grazie all'obbligo per tutti gli stranieri di passaggio di lasciarvi copia di ogni scritto che portano con loro.
Vive l'Alessandro conquistatore che, partito dalla "barbara" Macedonia (così definita dai civilissimi ateniesi perché abitata da stranieri che balbettavano insicuri nell'idioma di Omero), si spinge fin dove nessuno ha osato mai andare, neanche il dio Dioniso nelle sue farneticanti peregrinazioni: il fiume Idaspe.
Eppure il leone di Pella sa che il mondo non finisce lì. Oltre il fiume, ne è certo, si estende la misteriosa India e dopo, chissà quale altra terra incognita. 
Alessandro il condottiero, però, che ha sempre combattuto in prima linea e non si è mai risparmiato nessuna sofferenza, guarda in faccia i suoi uomini segnati dagli anni e dalle sofferenze, e capisce ogni cosa: il mondo, per loro, finisce lì. Non l'avrebbero seguito oltre.
Mortificato, quindi, nella sua brama di oltrepassare ogni limite che, a ben vedere, lo rende ostaggio di un demone senza nome, acconsente a ricondurre il suo esercito in patria.
Resta in vita l'Alessandro cosmopolita che seguendo l'insegnamento di Aristotele avvia, anche in contrasto con parte dei suoi uomini che non vedono di buon occhio la fusione con i riti e costumi orientali, la globalizzazione c.d. virtuosa alimentata dall'insopprimibile amore per la conoscenza. Lo stesso amore che, se da un lato lo spingerà a dormire, ogni notte, con il capo appoggiato su una copia dell'Iliade e dell'Odissea gelosamente custodite anche sui campi di battaglia, dall'altro, lo invoglierà a ricondurre nel pantheon greco le divinità locali incontrate nelle innumerevoli città conquistate.
Sopravviverà, ancora, l'Alessandro mistico che ammirando qualsiasi indefesso viaggiatore, anche quelli che compiono il viaggio negli anfratti bui della propria anima, non tarderà a spostarsi quando Diogene di Sinope gli dirà che l'unica cosa che desidera da Alessandro Magno, è che se ne stia fuori dalla sua luce; così come sicuramente resta l'Alessandro indomito che, al cospetto della complessità del nodo di Gordio non esita, per preannunciare la prossima conquista dell'Asia, a tranciarlo con un colpo netto di spada, in barba alla sua proverbiale inestricabilità.
Infine sopravviveranno ancora altri cento Alessandro, tutti reali e immaginari, tutti umani e divini. E quando si tratterà di farsi proclamare figlio di Zeus, sarà lo stesso condottiero macedone a sfruttare un errore di pronuncia dell'oracolo che anziché appellarlo paidìon (figlio), lo chiamerà paidiòs (figlio di Zeus), per assurgere al rango che gli spetta, quello di dio.
In questo romanzo ben cesellato di Cecchi Paone, c'è tutto Alessandro, la sua storia, il mito, la grandezza delle sue azioni da cui trasuda un'umanità che ancora oggi affascina il mondo intero. E come in un gioco di specchi che si rimandano luce riflessa da ben ventitré secoli, il Nostro è visto anche dalla prospettiva di oggi, oltre che di ieri: la Storia e la Divinità del re macedone, quasi per soddisfare, entrambe diversamente esigenti, i due colori (chiaro e scuro) che avevano gli occhi dell'inarrivabile Alessandro Magno.