mercoledì 17 maggio 2017

Lontano dalla civiltà, vicino a Mazinga Zeta


Lontano lontano/molto lontano/oltre l'acqua corrente/e l'elettricità...


Ho fatto il colpo gobbo, classico e addirittura banale nelle modalità, ma sconvolgente quanto alle conseguenze.
"Piero, dammi un gratta e vinci qualsiasi, di quelli da cinque euro, tanto uno vale l'altro."
Eccola la mano unta del tabaccaio che avresti detto più a suo agio tra i pistoni e le valvole di una 1100 che a rovistare, svogliata, tra i cartoncini colorati.
Con un sorriso che già si atteggia a consolazione per un'altra sconfitta, mi fa scivolare un gratta e vinci sulla cinque euro di resto abbandonata sul bancone.
Mi guardo intorno quasi con circospezione. Il far inghiottire il tagliando dalle pagine dell'agenda e il precipitarmi fuori dal tabacchino, è tutt'uno.
Lontano da occhi indiscreti, per quella colpa contadina che ti fa maledire ogni euro speso a coltivare illusioni, mi siedo su una panchina, di spalle alla strada.
Cinquanta centesimi. Gratto, come sempre, prima due miei numeri, e poi ne cerco conferma tra i numeri vincenti. E ancora altri due, e l'ennesima discrepanza mi fa riprendere a grattare.
La cinquanta centesimi, ormai, scarrozza disillusa su macerie argento-sconfitta.
Un numero. Quattro. Due numeri. Entrambi quattro.
Al di sotto del quattro, una strusciata decisa come l'azzardo o lenta come un'agonia?
Basta. Imprimo forza alla circonferenza della moneta, e gratto via deciso.
Cinquecentomila euro. La somma giusta per giustificare un mancamento.
Ok, mi riprendo, tenendo sempre stretto in mano, quasi una seconda pelle, il gratta e vinci del riscatto.
Cinquecentomila euro. La somma giusta per mandare a fanculo le pratiche stitiche, i colleghi spocchiosi, i clienti ingrati: gli ingranaggi della mia snervante "produzione".
Lontano. È una vita che ci voglio andare. Sì, proprio lì, lontano.
Lontano/Lontano/oltre Milano/oltre i gasometri/oltre i manometri/oltre i chilometri/e i binari del tram...
Sono sul "mare" più esteso del pianeta. Navigo sull'Oceano Pacifico, a bordo dell'Esmeralda, lungo la rotta di Vasco Nùnez de Balboa. Soprattutto, sono lontano da tutto quello che ha a che fare con la civiltà, con le convenzioni sociali, con l'eterna efficienza.
Siamo io, mia moglie e i miei due figli, nudi e in contatto diretto con lo spirito del mondo.
Niente costumi, niente scarpe, niente diaframmi tra noi e la natura (a parte la "coperta" preziosa dell'Esmeralda).
Sulle acque, a mo' di vessillo del consumismo, spunta il Mazinga Zeta dell'infanzia che fu.
Sotto di esso, un continente immenso di lampi e bagliori plastici bianchi, rossi e blu.
Tutto intorno, per chilometri e chilometri, il continente di plastica.
La luna la luna/degli ululati/lascia ai poeti/la classicità/ Là voglio arrendermi/in braccio a una musica/che chiude il discorso/dell'urbanità...

venerdì 7 aprile 2017

Fenomenologia di Dries Mertens.

Dries Mertens e la sua fenomenologia.

Come fenomenologia era stata, nel lontano 1961, quella di Mike Bongiorno scritta dall'inarrivabile Umberto Eco. Con l'unica, sostanziale differenza però, che del presentatore che furoreggiava sugli schermi televisivi, si esaltava la mediocrità, a tal punto che "egli rappresenta - chiosava Eco - un ideale che nessuno deve sforzarsi di raggiungere perché chiunque si trova già al suo livello."
La fenomenologia di Mertens, invece, è di tutt'altro genere e può essere racchiusa nel secondo goal del Napoli contro la Juventus, nel precedente turno di Coppa Italia.
Siamo al 60° minuto. Dries Mertens entra al posto di un Arkadiusz Milik da ritrovare.
Napoli contro Juve, una squadra di calcio contro un'altra sì, ma anche i Borboni contro i SabaudiMasaniello contro Camillo Benso Conte di Cavour, la catena di montaggio contro l'amministratore delegatol'espediente contro il rigore (nella doppia accezione di intransigenza e di penalty spesso concesso ai bianconeri), l'insurrezione contro il potere.
Dries Mertens, dicevamo.
Entra in una qualificazione praticamente impossibile da riagguantare per il Napoli. Il risultato della partita di ritorno infatti, unito a quanto successo all'andata, è traditore come solo sa esserlo il comportamento di chi fino a ieri era il tuo Mosè pronto a liberarti dalla schiavitù e che invece oggi, proprio lui, ha deciso di abbandonarti alle stesse piaghe d'Egitto prima inflitte ai nemici.
Ma eccolo, Dries Mertens.
Il tempo di varcare la linea del fallo laterale oltre il quale c'è finalmente la partita, la trepidazione di un popolo esagerato in ogni esternazione, che il folletto belga si fionda verso l'area avversaria.
Il difensore juventino passa la palla al suo portiere. Nel novantanove per cento dei casi, quel pallone sarò stoppato dall'estremo difensore e rinviato alla bell'e meglio senza conseguenza alcuna.
Nelle scuole di calcio, insegnano all'attaccante sì di pressare il portiere, ma anche di farlo con la convinzione che il suo pressing potrà solo innervosire l'estremo difensore e quindi, magari, fargli sbagliare il rinvio.
Nulla più di questo.
E invece...Mertens si butta su quel pallone necessariamente innocuo. Mentre corre c'è in lui, che napoletano non è, la fame atavica di Totò nell'agguantare gli spaghetti di Miseria e Nobiltà, il furore cieco del pazzariello de L'Oro di Napoli che ha finalmente saputo della malattia di Don Carmine, il boss del Rione Sanità, la dignità degli scugnizzi Pasquale e Giuseppe nel lustrare le scarpe ai signori di Sciuscià.
Mertens sfida la logica e la logica, per una volta sola, si va a prendere un caffè al Gambrinus.
Neto, il portiere della Juventus, vorrebbe stoppare il pallone passatogli dal compagno di squadra ma se lo fa scivolare oltre. E in quell'oltre lontano dal concetto di appartenenza e molto vicino, invece, a quello di conquista, si è appostato Dries Mertens, epigono del popolo cencioso che rovescia finalmente il tiranno.
Manco il tempo di esultare per la rete appena segnata che il calciatore riporta, instancabile come se ancora ci fosse qualche possibilità di superare il turno, il pallone a centrocampo.
La logica del potere però, rientra. C'ha ancora in bocca il gusto vellutato del caffè.
Estasiata per il retrogusto avvolgente, concede un altro poco di ammuina al Napoli; poi, ritorna in sé e decide di rimettere le cose al proprio posto.
La partita la vince il Napoli, ma la qualificazione è della Juventus.
Mertens esce tra gli applausi di un universo, quello napoletano, che sa accontentarsi anche del sogno. In attesa, ovviamente, del prossimo miracolo, di un altro Diego Armando Maradona che lo liberi da ogni male.
Amen.

lunedì 3 aprile 2017

Gli imperatori di Montanelli, apogeo e caduta

Gli imperatori romani di Indro Montanelli raccontati nella Storia d'Italia, vol.III, toccano l'acme del potere imperiale per poi sprofondare nei miasmi dell'irrilevanza storica.

E si parte, dopo una breve parentesi sulla città di Pompei e su Gesù e il cristianesimo, con la prima dinastia illustre, quella de I Flavi (30 a. C.-96 d. C.).
Vespasiano, allora, si staglia all'orizzonte con la sua concretezza di uomo di provincia.
Racconta Montanelli come l'imperatore di Rieti, nell'intento di riorganizzare il fisco, intraprese una via spicciola ma oltremodo efficace: lo affidò ai funzionari più rapaci e dissanguatori sguinzagliandoli, con pieni poteri, in tutte le province dell'Impero.
A rapina consumata (e qui sta il colpo di genio), Vespasiano richiamò a Roma i funzionari ingordi e, dopo averli elogiati per il loro operato, gli confiscò tutti i personali guadagni; soldi, quest'ultimi, che furono utilizzati dal callido imperatore per pareggiare il bilancio e per risarcire le vittime delle ladronerie.
Indro Montanelli, poi, sottolinea la filantropia dell'imperatore Tito che si trovò, nei sue due anni di regno, a fronteggiare catastrofi su catastrofi: l'incendio di Roma, la distruzione di Pompei ad opera del Vesuvio, la tremenda epidemia che devastò l'Italia.
Messo, suo malgrado, di fronte a questo scenario di guerra e disperazione, Tito rispose nel modo più bello e caritatevole possibile, sia pure meno funzionale per le sorti dell'Impero: esaurì il Tesoro per riparare i danni e, per assistere i malati, si contagiò egli stesso, perdendo la vita a soli quarantadue anni.
Domiziano a questo punto pensò bene, quando Tito si ammalò, di affrettarne la morte coprendone il corpo di neve.
Quando si dice "l'amore fraterno"!
Ed eccoci giunti (96-192 d.C.) all'età dei cc.dd. imperatori adottivi.
Nerva, "omaccione alto e grosso", a cui bastarono solo due anni per porre riparo ai torti del suo predecessore; Traiano che passò alla storia come uomo colto solo perché era solito portarsi, sul carro di generale, Dione Crisostomo, celebre retore del tempo, che si prodigava a parlargli ininterrottamente di filosofia. Alla domanda su cosa avesse mai capito delle spiegazioni di Dione, Traiano candidamente confessò che, in realtà, non aveva mai inteso una sola parola delle tante pronunciate dal retore ma che vi si lasciava semplicemente cullare dal loro "suono d'argento", pensando a tutt'altro.
E poi via via, lungo questo itinerario fantastico di grandi imprese e sfiziosi aneddoti, Indro Montanelli ci racconta di Adriano con la sua bella barba bionda, in realtà fatta crescere unicamente per nascondere certe sgradevoli chiazze bluastre che l'imperatore aveva sulle gote; di Antonino Pio, uomo senza nemici eccezion fatta per il nemico che si annidava tra le pareti domestiche: sua moglie Faustina, bella e a dir poco vivace; di Marc'Aurelio, infermiere ante litteram, che non abbandonava nemmeno per un secondo le corsie degli ospedali.
Ora, la narrazione va avanti ancora per molto, dai Severi fino a Costantino e oltre, per poi impaludarsi negli ultimi, insignificanti imperatori di Roma, sempre più estranei alla grandezza dell'Urbe.
Nelle fruttuose scorribande all'interno di questo, come di tutti gli alti volumi della Storia d'ItaliaIndro Montanelli riesce a puntellare la necessaria aridità delle vicende storiche con la curiosità, il "fattariello", che ci rendono più accattivante, più immediatamente fruibile, una narrazione "alta" per il solo fatto di essersi prestata alla penna del grande scrittore-giornalista. E ciò anche quando, per una diversa visione storico-politica, i suoi giudizi non sono pienamente condivisibili con i nostri.
Forse uno dei guai dell'Italia è proprio questo, di avere per capitale una città sproporzionata per nome e per storia, alla modestia di un Popolo che quando grida "forza Roma" allude solo ad una squadra di calcio.


lunedì 20 marzo 2017

Ecomostro di Aresta, null'altro che un ricordo

Per avere un'idea della nutrita schiera di mostri che abitano il nostro subconscio, basta chiedere lumi ai bambini lasciati anche solo per un minuto in qualche intercapedine di oscurità.

Ti parleranno, allora, alle nostre latitudini, di MariaLonga che, come i serpenti di Laocoonte, ti avvinghierà coi suoi chilometrici capelli per scaraventarti in fondo al pozzo; dell'Uomo Nero che ti tiene per un anno intero per poi crocifiggerti in un crocicchio di paura; del Munaciello  che quando non porta soldi e non è di indole benigna, ti entra nell'anima e si impossessa della sua veste peggiore.
Agli abitanti di Petina e non solo, da ormai sedici, lunghi anni, il termine "mostro" evoca una sola presenza: l'ecomostro di Aresta, appollaiato con le sue propaggini di cemento e grigiore, proprio di fronte all'Osservatorio del  predetto comune dei Monti Alburni.
C'era una volta, principierà, allora, a raccontare il bambino legato a quei mostri del tempo che fu, la bruttura di Aresta.
Questo mostro fu costruito nel lontano 2001. Sotto la veste apparentemente utile del deposito di attrezzi agricoli (anche la strega di Biancaneve, a ben vedere, si presenta ai sette nani come un'innocua nonnina) si celava, fin dal principio, l'intento speculativo dello chalet all'ultimo grido.
Come? L'ecomostro non poteva essere costruito perché ricadente nel territorio del Parco?
Quando il dito indica la luna, lo stolto guarda il dito.
Cosa fatta, capo ha.
Fu aperto (i buoni, in ogni favola che si rispetti, prima o poi intervengono sempre), nel 2003, un procedimento penale a carico, tra gli altri, del direttore del Parco, architetto Nicoletti, al quale vennero contestati una serie di reati anche paesaggistici.
Il procedimento penale si prescrive (il tempo, a volte, sa essere canaglia) e l'ecomostro di Aresta, dapprima sequestrato, viene poi fatto oggetto di dissequestro e consegnato al comune di Petina che, quasi temendo i sortilegi che le presenze demoniache sanno evocare, si è guardato bene dal riqualificarlo.
Arrivano i nostri.
Il Codacons Campania, per iniziativa indefessa e meritoria dell'Avv. Maria Cristina Rizzo del Foro di Salerno, ha diffidato il Parco nazionale del Cilento ad abbattere la struttura incriminata, trattandosi di un'opera incompiuta che deturpa l'ambiente (si trova, infatti, in un lussureggiante pianoro di una suggestione unica).
Ebbene, il giorno in cui l'ecomostro di Aresta avvertirà la dentellatura della ruspa affondare nel suo substrato di interessi e di illegalità, è stato fissato in mercoledì 22 marzo 2017.
C'era una volta. 
Gli abitanti di Petina, e non solo, potranno confinare, come gli Argonauti riuscirono a fare con le fetenti Arpie nelle grotte, il mostro che ha offuscato per ben sedici anni il loro orizzonte di legalità, nel dimenticatoio di una vecchia storia di speculazione e abusivismo.
Il bellissimo pianoro di fronte all'Osservatorio di Petina gonfia il petto inorgoglito della ritrovata fruibilità. E assieme con esso, l'Avv. Maria Cristina Rizzo, dopo aver ringraziato il Presidente del Parco Tommaso Pellegrino e, ovviamente, il Codacons Campania, declama, con la vista finalmente libera dalla maledizione dell'ecomostro, il "Tra nuvole e terra/d'improvviso/il sole/ depositò il suo uovo sodo" di Pablo Neruda.


mercoledì 15 marzo 2017

Donnavventura in attesa di Poirot su rete 4

Ogni sabato pomeriggio, in attesa di Poirot su rete 4 (canale che per me esiste solo per lo sceneggiato ispirato ai racconti di Agatha Christie), mi sorbisco gli ultimi strascichi di Donnavventura.

No, ja, così sa troppo di matusa intellettualoide. Rettifico: rete 4, "che per me esiste solo per Poirot e per i film di Bud Spencer e Terence Hill."
Ecco, così va meglio. Torniamo a Donnavventura, però.
Per carità, l'idea alla base del programma sarebbe pure interessante: sette ragazze (il sito di Donnavventura ci tiene a precisare che trattasi di giornaliste...sarà!)  alla guida di quattro pick-up rossi (sette diviso quattro fa... poco più di una ragazza e mezzo a bordo di ogni macchina: le polveri sottili, commosse da tanta generosità, ringraziano) scorrazzano per il mondo alla ricerca di luoghi ed esperienze spettacolari.
Ora, a parte il fatto che le giovani pulzelle in questione casualmente sono tutte alte, magre, belle e bone; che altrettanto casualmente sembrano vivere ogni esperienza, anche quella meno entusiasmante, con l'espressione propria dell'Estasi di Santa Teresa d'Avila del BerniniA parte tutto questo, dicevo, quello che proprio non si può sopportare, è la presenza pervasiva, ossessionante, della marche nel programma trasmesso su rete 4.
Innanzitutto e sopratutto, 1A Classe di Alviero Martini: qualsiasi cosa indossino, sfoggino le valchirie di Donnavventura, potete stare certi che ha da qualche parte impresso il "marrone continentale" del celeberrimo brand. A tal proposito c'è da scommettere che, a guardare bene le inquadrature sempre ammiccanti della fortunata trasmissione, sicuramente in qualche angolo della ripresa, come un messaggio subliminale del rocker satanico di grido, compariranno le nuances inconfondibili della 1A Classe.
Non che abbia qualcosa contro i brand in generale e la 1A Classe in particolare, sia chiaro. Solo che sono sempre più convinto che, mentre anni fa la marca, proprio per la difficoltà oggettiva di farsi pubblicità, era davvero, quasi sempre, garanzia di qualità, oggi le cose stiano diversamente. Nella nostra società a uso e consumo della ripresa video, infatti, si pensa prima a farsi pubblicità e poi, se proprio si vuol durare oltre il breve volgere di una stagione, si cerca anche di fare i prodotti come Dio comanda.
Per altri versi, è ciò che accade, ad esempio, per i cantanti: qualche decennio fa, per l'ugola vogliosa di successo, l'apparizione in televisione era il punto di arrivo di una carriera iniziata nelle ruspanti feste di piazze e poi, a colpi di abnegazione e sacrificio, approdata alla ribalta televisiva. Oggi, invece, il discorso si è capovolto: si va prima in tv per marcare la propria esistenza artistica e poi, se proprio si diventa bravi e si ha seguito, si viene insigniti della veste di cantante.
Ritornando alle marche, a ben vedere è giustificata questa logica, vuoi perché se non sei riconoscibile, a prescindere addirittura dalla qualità della tua offerta, sei tagliato fuori vuoi perché il consumatore è talmente anonimo, talmente insicuro, che ha bisogno di un brand che gli dia una identità purchessia e un posto nel mondo che ne legittimi l'esistenza.
Vabbuò, ora ho detto quello che penso di Donnavventura e della dominazione delle marche in questa trasmissione, e non solo. Mo fatemi il piacere, lasciatemi stare in pace qui, sotto le coperte, che dopo l'ennesima pubblicità intenta a veicolare il millesimo brand della giornata, inizia il mio Poirot. Mi devo concentrare: la bellezza è a tal punto complicata da non consentire distrazioni se non si vuole perdere il filo dell'indagine.
(...) hamburger, che sarebbero venti lire di pane, centottanta di polpette e milleottocento lire di nome americano. (Stefano Benni, "Saltatempo").

venerdì 3 marzo 2017

Lorenzo Forte e gli “svaniti in una nebbia o in una tappezzeria”

Lorenzo Forte, l'ho scelto di incontrare io.
"Stavolta, non ci ricasco", mi sono detto, mentre l'attendevo davanti al Bar Verdi di Salerno.
Passati in rassegna i miei 40 anni come brava recluta, ho realizzato che almeno 30 di questi li ho spesi scambiando lucertole per draghi, interessi per ideali, ennesimi Sancho Panza per rarissimi Don Chisciotte della Mancia.
"Stavolta no, caro Lorenzo; stavolta sarò accortissimo nello stanare l'imbroglio, tanto più che anche nel fisico riveli più il castello agognato da Sancho che i mulini a vento combattuti dall'ingenioso hidalgo."
Giusto il tempo di presentarmi, di allestire il più falso sorriso in dotazione, che sparo crudo:<Lorenzo Forte, perché lo fai?>
L'imbarazzo nel mio interlocutore dura una decina di secondi, giusto il tempo di far affiorare il ricordo dai suoi occhi. E mi parla di fantasmi, Lorenzo Forte, del tizio che vestiva sempre un impermeabile bianco quasi per redimersi dal nero bituminoso delle Fonderie Pisano che, di lì a poco, avrebbe corroso le sue viscere.
Mi parla anche della palazzina di via dei Greci, a Fratte, dove in ognuno dei dodici appartamenti, c'è almeno un sudario che gronda cadmio, ferro e disperazione; già, proprio così: almeno uno, per ogni appartamento della palazzina.
Mi racconta, ed è l'unico momento in cui sembri non dare troppa importanza all'argomento, della sua allergia comparsa quando abitava a Fratte (poi, una volta allontanatosene, quasi del tutto andata via); della necessità, ogni mattino che il dio della produzione manda in terra, di liberare le ringhiere e i balconi esterni di casa sua dalla polvere ferrosa appollaiata, come l'upupa nei cimiteri, in attesa di contaminare l'ennesimo organismo.
E poi, Lorenzo Forte, accenna a collusioni politiche combattute da privato cittadino prima, da consigliere comunale poi, a vicende processuali volte a dimostrare una volta per tutte il nesso di causalità tra inquinamento provocato dalle Fonderie Pisano e le troppe morti dei residenti a Fratte e non solo, a permessi ambientali concessi alla fabbrica ormai riconosciuti come illeciti, inefficaci, illegittimi.
Snocciola cifre e dati, Lorenzo, in maniera così analitica e incalzante che la mia penna, intorpidita dal retrogusto della caffeina, non riesce ad annotare.
All'improvviso mi guarda con gli occhi di chi ha stanato la mia diffidenza troppo radicata per darsi già per vinta e, quasi a prevenire l'obiezione che gli sto per muovere, chiosa sornione:<Che poi, se non bastassero i dati, i rilievi, i processi, ci sarebbe pur sempre l'esperienza comune, ovviamente corredata da analisi scientifiche: nei circa sei mesi della chiusura delle Fonderie Pisano, le polvere metalliche e gli inquinanti in genere sono quasi del tutto scomparsi.>
Giunti ormai quasi alla fine del nostro incontro, Lorenzo Forte trova il tempo di illuminarsi in volto. Ciò accade quando parla del suo "straordinario" Comitato "Salute e Vita", delle poche persone che hanno avuto il coraggio, ognuno nel proprio campo e secondo la propria specificità, di fare appieno il proprio dovere (Don Marco Raimondo, il commissario Vasaturo, il procuratore Lembo).
Ci stiamo dando la mano. Per fortuna capisce che, a questo punto, basta davvero poco per farmi ricredere sulla possibilità che ci possa essere qualcuno spinto all'azione da un interesse generale perché superiore:<Hanno detto che cerco la visibilità per mettere all'incasso "politico" il dividendo conseguito con le nostre battaglie. È tanto vero ciò, che non mi sono candidato nelle scorse elezioni comunali.>
Ognuno catapultato nel suo angolo di vita, capisco che Lorenzo Forte si batte per le stesse ragioni per cui si batte anche la maestra Anna Risi, portavoce del Comitato "Salute e Vita": non per un interesse personale (la maestra ha perso già tutto quello che poteva perdere, il marito e la figlia, entrambi stroncati da un tumore) ma "a difesa del Creato", come direbbe l'instancabile don Marco Raimondo.
E io ci credo, forse per la prima volta sicuro di non essere ingannato, soprattutto per loro, i morti delle Fonderie Pisano, "svaniti in una nebbia (inquinamento) o in una tappezzeria (politica connivente)." (Paolo Conte)

giovedì 23 febbraio 2017

Una lingua si aggira per le strade dell'Occidente

Slurp, gnam, yum, crunch, slap, chomp. È la lingua, signori

Beninteso, per essa si vuole qui alludere a ogni singolo muscolo, organo o affine comunque utilizzato per mangiare, sorbire, gustare, succhiare, sgranocchiare, etc..
La lingua: il vero e, a questo punto, unico fantasma rimasto ad aggirarsi per le strade dell'Occidente.
Come dite? Esagero? Alzate lo sguardo dal display, allora, e guardatevi attorno: in qualsiasi crocicchio di strade, a ogni angolo di semaforo, a cavallo di tutte le parallele di marciapiedi, s'invoca, si blandisce, si adesca solo lei, nostra sorella Lingua.
Poco importa che tu sia ricco o povero, magro o grasso, erudito o zoticone. Tutto quello che conta, è quanto la tua lingua sia capace di farsi ingolosire da bizzeffe di ristoranti finto vintagedai mille fast food salmodianti maionese e ketchup, dall'ennesimo bar esotic-trash che rimanda a trasognanti atmosfere cafonal-chic.
La lingua, mesdames et messieurs, l'unico organo dotato di memoria elefantiaca. Chiedi a qualsivoglia, rapsodico omuncolo cavalcante smog e polveri sottili, dove deve andare sferzato da così tanta fretta e cosa debba fare con la boccuccia perennemente atteggiata a "culo di gaddrina".
Ti parlerà di stress che tutto obnubila, di mete che non si ricordano, di affari che annegano nell'ultimo fondo di caffè.
Ebbene, miei cari amici, l'unica cosa di cui, la personcina trafelata di cui sopra non si scorderà mai, la sola ossessione che si pianterà come un chiodo al centro della sua memoria, sarà quello che ha mangiato stamattina.
La lingua, cioè, che una volta evocata, ammantata da succulenti papille gustative riandrà, lucida di un nitore adamantino, al caffè di cinque minuti fa, alla nutella di stamane, alla pasta e fagioli (riposata, ça va sans dire) innaffiata dal vino simil biologico, di ieri sera.
E giù giù, in un sabba infernale di sapori e odori, libagioni e indigestioni, fino alla notte dei tempi quando, dopo la prima guerra tra Homoincazzosus e OminculusKazzimmoso, sorse la primigenia paura di restare senza cibo.
Ebbene, stiamo fermi ancora lì. Inghiottiamo calorie mentre guardiamo carboidrati in televisione, bestemmiando anatemi innervati dall'aroma di caffè per la pagella scarsa del figlio all'Alberghiero.
Una siderale, pantagruelica lingua, che fagocita ogni differenza architettonica (un angolo di Salerno, con i suoi tabernacoli di dolci e salati, è praticamente uguale a uno di Londra), qualsiasi tipicità locale (la sfogliatelle di Shangai guardano di sottecchi 'a sfugliatella 'e Napule).
Ma come il Pelide Achille ha il suo tallone, come l'ossigenato Trump ha il suo vocabolario, così pure l'insaziabile lingua ha il suo punctum dolens: la piazza assolata del paese, arroccato sulle pendici del compassato buonsenso, dove gli unici addensanti della crema sono le uova covate a prati freschi e ruzzolate brinose.
Poco male. Ogni regola ha la sua eccezione.
La lingua guarda con noncuranza il paesello bucolico, e si attorciglia famelica intorno all'ennesimo MangiaeBevi "che si apre madreperlato come ostrica, dove le perle siamo noi, da lisciare, (s)fregare per bene fino a consumarci."