giovedì 27 luglio 2017

A me gli occhi, please!

Negli anni 60/70 del secolo scorso, parte della Sinistra (e non solo) riteneva che la droga, specialmente l'eroina per i suoi effetti maggiormente deleteri, costituisse il cavallo di Troia del capitale: con la droga, cioè, le plutocrazie del mondo annichilivano i cervelli rivoluzionari, impedendogli di prendere piena consapevolezza delle proprie forze e di prepararsi per l’ “l’assalto al cielo.”
Non disturbare il manovratore, questo era l'imperativo categorico del capitale.
Veniamo ai giorni nostri.
“Niente di nuovo sotto il sole.”
Anche nel nostro tempo, infatti, si ripropone la necessità di uno strumento in grado di irretire l’attenzione e sterilizzare, così, ogni presa di coscienza dello status quo.
Ovviamente pure in questo fine 2018 c'è la droga, con una indubbia prevalenza della cocaina sull'eroina, ma quelle che ci devono preoccupare di più sono le cc.dd. "nuove droghe" addirittura più istupidenti di quelle degli anni 60/70.
A che mi riferisco?
Sforziamoci di assumere un punto di vista oggettivo e guardiamoci per le strade, a scuola, sui luoghi di lavoro.
La nostra attenzione è praticamente monopolizzata dai gruppi di whatsApp (della palestra, dei colleghi di lavoro, della scuola dei figli, degli amici del calcetto) che c'impongono, per non uscire dal giro, almeno il minimo sindacale di un “buongiorno” e di una “buonanotte” ogni dì che Dio manda in terra.
C'è poi l'onnipresente facebook sul quale abbiamo il dovere di postare il nostro parere su ogni accadimento, dal giudizio sul nuovo taglio degli ultimi cinque capelli della nonna ottuagenaria, al commento sul Def “che se non ricordo male è stato presentato dalla Cei e dovrà essere approvato dalla Nato entro la fine del primo quadrimestre, pena sanzioni severissime.”
E via, in media ogni sessanta secondi, a controllare la comparsa di quel puntino rosso sulla campanella nera su sfondo blu.
Più aumentano i numeretti inscritti nella caccolina rossa, più la nostra presenza nel mondo si struttura, più il nostro ego si eleva tronfio sulle umane miserie.
Per non parlare di quando il cerchietto rosso si stampa su quei due omini neri, sempre su sfondo blu (rosso-blu: adescamento cromatico di tutto rispetto): un altro fan della nostra iridescente vita muore dal desiderio di diventarci amico. E sia!
Non c’è manco bisogno di incontrarlo: una rapida controllatina, e conosciamo anche quante volte sia cambiato il suo piatto preferito dalle elementari all’università.
Con riferimento al cellulare, poi, abbiamo i selfie (i giovani come nuovi "selfie della gleba") senza soluzione di continuità che, una volta a casa e spento finalmente il telefonino, ci faranno sorgere qualche dubbio su dove veramente si è stati e sul perché propria quella sera dovrebbe essere diversa dalle altre.
Con riferimento alla ossessione del cellulare, infine, si parla di una nuova invasione ben più perniciosa di quella delle cavallette bibliche: l’invasione dei cc.dd. smombie (crasi tra “smartphone” e “zombie”). Un esercito di rincoglioniti da cellulare, cioè, che smanettano compulsivamente h24. A tal punto che, come simpaticamente notava Gianmatteo Pellizzari su “L’Espresso” di qualche settimana fa, se un novello Leonardo dovesse ridisegnare il suo “Uomo Vitruviano”, sicuramente lo raffigurerebbe armato di un telefonino per ognuna delle sue quattro mani.
E come non menzionare la pubblicità? Con il suo feticismo della merce crea bisogno e, molto spesso, frustrazione in chi quel bisogno proprio non può soddisfarlo.
Sì, d'accordo, il bisogno non sarebbe propriamente tale, ma dopo dieci interruzioni di un film in cui, puntualmente, ci continuano a ripetere che le lenti “Calandrino” rendono più belli, pure Gennaro Diecidecimi si convince della necessità di acquistarli.
Per concludere, ci sono la playstation con la sua realtà virtuale aumentata e quegli infernali giochini che ogni anno, una volta sì e l'altra pure, ci affibbiano l'animaletto digitale da accudire o ci sguinzagliano nelle intercapedini delle città a caccia di mostri.
Frattanto il capitale, il sistema, la società continuano a viaggiare lungo i binari della loro inesorabile affermazione.
Noi, per quanto ci riguarda, siamo tutti presi a svendere la nostra attenzione a whatsApp, facebook, pubblicità, playstation e giochini vari.
Se ne faccia una ragione, una volta per tutte, il pur simpatico Rocco Hunt con il suo “tutti dietro alla tastiera/e mo chi 'a fa 'a rivoluzione”ogni cosa a suo tempo, caro Rocco, dopo, rispettivamente,  il whatsApp a mammà e il selfie con il protagonista de “Il Segreto.”

lunedì 5 giugno 2017

La Compagnia "La Ribalta" e la "Stella" provocatoria

Al Teatro "La Ribalta" di Salerno.

Per esorcizzare l'ovvietà di un sabato sera a via Roma; ma anche per saggiare la bontà di un'intuizione. E sì perché questa riscrittura di "Stella" di J. W. Goethe da parte della regista salernitana Valentina Mustaro, che promette di essere provocatoria e rivoluzionaria, incuriosisce. E come sempre accade quando la novità sovverte canoni ben radicati, indispettisce.
<Ma come, - sbotta il classicista benpensante di turno - si ardisce contaminare il Sacro Spirito de Le affinità elettive del Maestro?>
Eppure la Compagnia "La Ribalta", quando il sipario viene giù a lenire le fatiche e le emozioni dei teatranti, invece di essere incenerita dalla folgore della hybris (tracotanza), raccoglie approvazione e consensi. 
E se l'Io nascosto di ogni personaggio potesse diventare visibile agli occhi dello spettatore?
Eccolo il grimaldello capace di scardinare il perbenismo manierato dei protagonisti di Goethe!
E allora via alla "messa in scena" dei sentimenti, dei pensieri, in una parola della coscienza che si fa epifania, che si riveste di corpo e sangue: il velo dell'ipocrisia è definitivamente squarciato, il filtro delle convenzioni sociali irrimediabilmente saltato.
In questa brillante rivisitazione, la magnanima Cacilie che dovrebbe rinunciare a Fernando per consentirgli di restare definitivamente con Stella, lo fa, lo dice, ma proprio quando manifesta quest'alto proposito, il suo retropensiero, i rigurgiti del suo subconscio, prendono corpo sul palcoscenico: è un altro personaggio che recita, a fianco e in maniera sfasata rispetto a Cacilie, che si scaglia contro Stella e, vero fino alla crudeltà, vuole Fernando tutto per sé.
A questo punto, ogni azzardo è consentito, ogni altare è pronto a essere sconsacrato: finanche il finale tragico della morte di Fernando diventa pretesto per un epilogo ben più leggero, ambiguo e allusivo quanto si vuole, ma sicuramente più libero e maggiormente spendibile per la psicologia del XXI secolo.
In definitiva, questa rappresentata dalla Compagnia "La Ribalta", è la commedia del canto e del controcanto, dell'enigma e della sua cifratura.
E se, parafrasando JungLa gente farà qualsiasi cosa, non importa quanto assurda, per evitare di incontrare la propria anima, i ragazzi de "La Ribalta" sparigliano le carte, si assumono il rischio: "Signori, al di sotto degli infingimenti ipocriti e dei belletti infingardi, eccola, la vostra anima!"
Per concludere, visto che si parla di anima, come non menzionare la mirabile esposizione di tele, all'interno del Teatro "La Ribalta", dell'artista salernitano Andrea Tabacco? Un toccasana per l'anima, per l'appunto.

giovedì 25 maggio 2017

Il decreto Minniti-Orlando e la vacca di Pasifae

Da avvocato, mi sono imbattuto nelle nuove norme del decreto Minniti-Orlando, approvato in Parlamento lo scorso 12 aprile con il voto di fiducia.

"Ecco materializzarsi - mi sono detto quasi subito - la vacca lignea di Pasifae!"
E sì perché come Pasifae, moglie di Minosse, re di Creta, per congiungersi carnalmente col toro del quale si era follemente innamorata, si nascose dentro una giovenca di legno, così il Governo si trincera nell'involucro del decreto Minniti-Orlando con le sue storture e pastoie burocratiche, pronto a farsi montare dal razzismo imperante.
Fuor di mitologia, veniamo alla mia esperienza: giurisdizionalizzazione del procedimento amministrativo davanti alle commissioni.
In altri termini e con parole più semplici, dinanzi alle commissioni che decidono sulle domande di asilo, l'immigrato è solo, senza avvocato e alla mercé di una struttura (le commissioni sono venti in tutta Italia) composta da quattro membri: un funzionario di prefettura, un funzionario di polizia, un delegato degli enti locali e un delegato dell'Unhcr.
Il giudice terzo e imparziale? Una chimera.
Si violano così, spudoratamente, l'art. 111 Cost. (c.d. "giusto processo"), l'art. 24 Cost. (diritto di difesa), l'art. 6 della Convenzione europea sui diritti umani (diritto al contraddittorio).
Nel 2016 le commissioni hanno respinto il 60% dei migranti arrivati in Italia, sulla scorta di domande da telequiz, errori di copia-incolla e fraintendimenti vari.
Non appena, però, è intervenuta la magistratura (c'è un giudice a Berlino!), in tre casi su quattro, sono state ribaltate le decisioni delle commissioni. (giudici comunisti!)
La Convenzione di Ginevra, infatti, stabilisce che le domande dovrebbero essere mirate ad accertare  il fondato timore di subire una persecuzione in patria del migrante. Invece, col decreto Minniti-Orlando, le domande delle commissioni si basano sulla credibilità del soggetto intervistato e, sempre di più, sui positivi segnali d'integrazione dell'immigrato (criterio, quest'ultimo, meramente opinabile e soggettivo).
Senza contare le sviste e gli errori "ignoranti": ci sono commissioni che hanno considerato sicuri la Libia in fiamme del post-Gheddafi, le zone curde militarizzate dai turchi, la Costa d'Avorio in guerra civile.
Le sedute delle commissioni sono videoregistrate, i verbali informatizzati: tutto per evitare il secondo grado di giudizio nel caso di ricorso davanti al giudice. E sì perché nel decreto Minniti-Orlando non è previsto appello contro la sentenza di primo grado, con il risultato aberrante che "su una causa di sfratto puoi proporre appello, sull'esercizio di un diritto fondamentale, no."
E se ci fosse un diniego alla richiesta di asilo dell'immigrato in commissione? Benvenuti all'inferno: l'immigrato ha solo 30 gg. di tempo per trovare un avvocato, per preparare e per depositare il ricorso.
Qualora ci riuscisse, poi, eccolo finito nelle grinfie dell'art. 737 c.p.c., quello, per intenderci, che disciplina le cause senza contenzioso: niente udienza, niente dibattimento, niente comparizione delle parti.
Il giudice può non incontrare mai né il richiedente asilo né il suo avvocato.
E come giudica, quindi, sulle richieste di asilo? O bella, sulla base dei filmini di cui sopra registrati dalla commissione, no?
Benvenuti in Italia, fratelli!
A farne le spese sono sempre loro, il popolo degli immigrati. Ma ne riceviamo un danno anche noialtri, italiani a 24 carati. Perché i diritti sono o di tutti o di nessuno (M. Ainis)

mercoledì 17 maggio 2017

Lontano dalla civiltà, vicino a Mazinga Zeta


Lontano lontano/molto lontano/oltre l'acqua corrente/e l'elettricità...


Ho fatto il colpo gobbo, classico e addirittura banale nelle modalità, ma sconvolgente quanto alle conseguenze.
"Piero, dammi un gratta e vinci qualsiasi, di quelli da cinque euro, tanto uno vale l'altro."
Eccola la mano unta del tabaccaio che avresti detto più a suo agio tra i pistoni e le valvole di una 1100 che a rovistare, svogliata, tra i cartoncini colorati.
Con un sorriso che già si atteggia a consolazione per un'altra sconfitta, mi fa scivolare un gratta e vinci sulla cinque euro di resto abbandonata sul bancone.
Mi guardo intorno quasi con circospezione. Il far inghiottire il tagliando dalle pagine dell'agenda e il precipitarmi fuori dal tabacchino, è tutt'uno.
Lontano da occhi indiscreti, per quella colpa contadina che ti fa maledire ogni euro speso a coltivare illusioni, mi siedo su una panchina, di spalle alla strada.
Cinquanta centesimi. Gratto, come sempre, prima due miei numeri, e poi ne cerco conferma tra i numeri vincenti. E ancora altri due, e l'ennesima discrepanza mi fa riprendere a grattare.
La cinquanta centesimi, ormai, scarrozza disillusa su macerie argento-sconfitta.
Un numero. Quattro. Due numeri. Entrambi quattro.
Al di sotto del quattro, una strusciata decisa come l'azzardo o lenta come un'agonia?
Basta. Imprimo forza alla circonferenza della moneta, e gratto via deciso.
Cinquecentomila euro. La somma giusta per giustificare un mancamento.
Ok, mi riprendo, tenendo sempre stretto in mano, quasi una seconda pelle, il gratta e vinci del riscatto.
Cinquecentomila euro. La somma giusta per mandare a fanculo le pratiche stitiche, i colleghi spocchiosi, i clienti ingrati: gli ingranaggi della mia snervante "produzione".
Lontano. È una vita che ci voglio andare. Sì, proprio lì, lontano.
Lontano/Lontano/oltre Milano/oltre i gasometri/oltre i manometri/oltre i chilometri/e i binari del tram...
Sono sul "mare" più esteso del pianeta. Navigo sull'Oceano Pacifico, a bordo dell'Esmeralda, lungo la rotta di Vasco Nùnez de Balboa. Soprattutto, sono lontano da tutto quello che ha a che fare con la civiltà, con le convenzioni sociali, con l'eterna efficienza.
Siamo io, mia moglie e i miei due figli, nudi e in contatto diretto con lo spirito del mondo.
Niente costumi, niente scarpe, niente diaframmi tra noi e la natura (a parte la "coperta" preziosa dell'Esmeralda).
Sulle acque, a mo' di vessillo del consumismo, spunta il Mazinga Zeta dell'infanzia che fu.
Sotto di esso, un continente immenso di lampi e bagliori plastici bianchi, rossi e blu.
Tutto intorno, per chilometri e chilometri, il continente di plastica.
La luna la luna/degli ululati/lascia ai poeti/la classicità/ Là voglio arrendermi/in braccio a una musica/che chiude il discorso/dell'urbanità...

venerdì 7 aprile 2017

Fenomenologia di Dries Mertens.

Dries Mertens e la sua fenomenologia.

Come fenomenologia era stata, nel lontano 1961, quella di Mike Bongiorno scritta dall'inarrivabile Umberto Eco. Con l'unica, sostanziale differenza però, che del presentatore che furoreggiava sugli schermi televisivi, si esaltava la mediocrità, a tal punto che "egli rappresenta - chiosava Eco - un ideale che nessuno deve sforzarsi di raggiungere perché chiunque si trova già al suo livello."
La fenomenologia di Mertens, invece, è di tutt'altro genere e può essere racchiusa nel secondo goal del Napoli contro la Juventus, nel precedente turno di Coppa Italia.
Siamo al 60° minuto. Dries Mertens entra al posto di un Arkadiusz Milik da ritrovare.
Napoli contro Juve, una squadra di calcio contro un'altra sì, ma anche i Borboni contro i SabaudiMasaniello contro Camillo Benso Conte di Cavour, la catena di montaggio contro l'amministratore delegatol'espediente contro il rigore (nella doppia accezione di intransigenza e di penalty spesso concesso ai bianconeri), l'insurrezione contro il potere.
Dries Mertens, dicevamo.
Entra in una qualificazione praticamente impossibile da riagguantare per il Napoli. Il risultato della partita di ritorno infatti, unito a quanto successo all'andata, è traditore come solo sa esserlo il comportamento di chi fino a ieri era il tuo Mosè pronto a liberarti dalla schiavitù e che invece oggi, proprio lui, ha deciso di abbandonarti alle stesse piaghe d'Egitto prima inflitte ai nemici.
Ma eccolo, Dries Mertens.
Il tempo di varcare la linea del fallo laterale oltre il quale c'è finalmente la partita, la trepidazione di un popolo esagerato in ogni esternazione, che il folletto belga si fionda verso l'area avversaria.
Il difensore juventino passa la palla al suo portiere. Nel novantanove per cento dei casi, quel pallone sarò stoppato dall'estremo difensore e rinviato alla bell'e meglio senza conseguenza alcuna.
Nelle scuole di calcio, insegnano all'attaccante sì di pressare il portiere, ma anche di farlo con la convinzione che il suo pressing potrà solo innervosire l'estremo difensore e quindi, magari, fargli sbagliare il rinvio.
Nulla più di questo.
E invece...Mertens si butta su quel pallone necessariamente innocuo. Mentre corre c'è in lui, che napoletano non è, la fame atavica di Totò nell'agguantare gli spaghetti di Miseria e Nobiltà, il furore cieco del pazzariello de L'Oro di Napoli che ha finalmente saputo della malattia di Don Carmine, il boss del Rione Sanità, la dignità degli scugnizzi Pasquale e Giuseppe nel lustrare le scarpe ai signori di Sciuscià.
Mertens sfida la logica e la logica, per una volta sola, si va a prendere un caffè al Gambrinus.
Neto, il portiere della Juventus, vorrebbe stoppare il pallone passatogli dal compagno di squadra ma se lo fa scivolare oltre. E in quell'oltre lontano dal concetto di appartenenza e molto vicino, invece, a quello di conquista, si è appostato Dries Mertens, epigono del popolo cencioso che rovescia finalmente il tiranno.
Manco il tempo di esultare per la rete appena segnata che il calciatore riporta, instancabile come se ancora ci fosse qualche possibilità di superare il turno, il pallone a centrocampo.
La logica del potere però, rientra. C'ha ancora in bocca il gusto vellutato del caffè.
Estasiata per il retrogusto avvolgente, concede un altro poco di ammuina al Napoli; poi, ritorna in sé e decide di rimettere le cose al proprio posto.
La partita la vince il Napoli, ma la qualificazione è della Juventus.
Mertens esce tra gli applausi di un universo, quello napoletano, che sa accontentarsi anche del sogno. In attesa, ovviamente, del prossimo miracolo, di un altro Diego Armando Maradona che lo liberi da ogni male.
Amen.

lunedì 3 aprile 2017

Gli imperatori di Montanelli, apogeo e caduta

Gli imperatori romani di Indro Montanelli raccontati nella Storia d'Italia, vol.III, toccano l'acme del potere imperiale per poi sprofondare nei miasmi dell'irrilevanza storica.

E si parte, dopo una breve parentesi sulla città di Pompei e su Gesù e il cristianesimo, con la prima dinastia illustre, quella de I Flavi (30 a. C.-96 d. C.).
Vespasiano, allora, si staglia all'orizzonte con la sua concretezza di uomo di provincia.
Racconta Montanelli come l'imperatore di Rieti, nell'intento di riorganizzare il fisco, intraprese una via spicciola ma oltremodo efficace: lo affidò ai funzionari più rapaci e dissanguatori sguinzagliandoli, con pieni poteri, in tutte le province dell'Impero.
A rapina consumata (e qui sta il colpo di genio), Vespasiano richiamò a Roma i funzionari ingordi e, dopo averli elogiati per il loro operato, gli confiscò tutti i personali guadagni; soldi, quest'ultimi, che furono utilizzati dal callido imperatore per pareggiare il bilancio e per risarcire le vittime delle ladronerie.
Indro Montanelli, poi, sottolinea la filantropia dell'imperatore Tito che si trovò, nei sue due anni di regno, a fronteggiare catastrofi su catastrofi: l'incendio di Roma, la distruzione di Pompei ad opera del Vesuvio, la tremenda epidemia che devastò l'Italia.
Messo, suo malgrado, di fronte a questo scenario di guerra e disperazione, Tito rispose nel modo più bello e caritatevole possibile, sia pure meno funzionale per le sorti dell'Impero: esaurì il Tesoro per riparare i danni e, per assistere i malati, si contagiò egli stesso, perdendo la vita a soli quarantadue anni.
Domiziano a questo punto pensò bene, quando Tito si ammalò, di affrettarne la morte coprendone il corpo di neve.
Quando si dice "l'amore fraterno"!
Ed eccoci giunti (96-192 d.C.) all'età dei cc.dd. imperatori adottivi.
Nerva, "omaccione alto e grosso", a cui bastarono solo due anni per porre riparo ai torti del suo predecessore; Traiano che passò alla storia come uomo colto solo perché era solito portarsi, sul carro di generale, Dione Crisostomo, celebre retore del tempo, che si prodigava a parlargli ininterrottamente di filosofia. Alla domanda su cosa avesse mai capito delle spiegazioni di Dione, Traiano candidamente confessò che, in realtà, non aveva mai inteso una sola parola delle tante pronunciate dal retore ma che vi si lasciava semplicemente cullare dal loro "suono d'argento", pensando a tutt'altro.
E poi via via, lungo questo itinerario fantastico di grandi imprese e sfiziosi aneddoti, Indro Montanelli ci racconta di Adriano con la sua bella barba bionda, in realtà fatta crescere unicamente per nascondere certe sgradevoli chiazze bluastre che l'imperatore aveva sulle gote; di Antonino Pio, uomo senza nemici eccezion fatta per il nemico che si annidava tra le pareti domestiche: sua moglie Faustina, bella e a dir poco vivace; di Marc'Aurelio, infermiere ante litteram, che non abbandonava nemmeno per un secondo le corsie degli ospedali.
Ora, la narrazione va avanti ancora per molto, dai Severi fino a Costantino e oltre, per poi impaludarsi negli ultimi, insignificanti imperatori di Roma, sempre più estranei alla grandezza dell'Urbe.
Nelle fruttuose scorribande all'interno di questo, come di tutti gli alti volumi della Storia d'ItaliaIndro Montanelli riesce a puntellare la necessaria aridità delle vicende storiche con la curiosità, il "fattariello", che ci rendono più accattivante, più immediatamente fruibile, una narrazione "alta" per il solo fatto di essersi prestata alla penna del grande scrittore-giornalista. E ciò anche quando, per una diversa visione storico-politica, i suoi giudizi non sono pienamente condivisibili con i nostri.
Forse uno dei guai dell'Italia è proprio questo, di avere per capitale una città sproporzionata per nome e per storia, alla modestia di un Popolo che quando grida "forza Roma" allude solo ad una squadra di calcio.


lunedì 20 marzo 2017

Ecomostro di Aresta, null'altro che un ricordo

Per avere un'idea della nutrita schiera di mostri che abitano il nostro subconscio, basta chiedere lumi ai bambini lasciati anche solo per un minuto in qualche intercapedine di oscurità.

Ti parleranno, allora, alle nostre latitudini, di MariaLonga che, come i serpenti di Laocoonte, ti avvinghierà coi suoi chilometrici capelli per scaraventarti in fondo al pozzo; dell'Uomo Nero che ti tiene per un anno intero per poi crocifiggerti in un crocicchio di paura; del Munaciello  che quando non porta soldi e non è di indole benigna, ti entra nell'anima e si impossessa della sua veste peggiore.
Agli abitanti di Petina e non solo, da ormai sedici, lunghi anni, il termine "mostro" evoca una sola presenza: l'ecomostro di Aresta, appollaiato con le sue propaggini di cemento e grigiore, proprio di fronte all'Osservatorio del  predetto comune dei Monti Alburni.
C'era una volta, principierà, allora, a raccontare il bambino legato a quei mostri del tempo che fu, la bruttura di Aresta.
Questo mostro fu costruito nel lontano 2001. Sotto la veste apparentemente utile del deposito di attrezzi agricoli (anche la strega di Biancaneve, a ben vedere, si presenta ai sette nani come un'innocua nonnina) si celava, fin dal principio, l'intento speculativo dello chalet all'ultimo grido.
Come? L'ecomostro non poteva essere costruito perché ricadente nel territorio del Parco?
Quando il dito indica la luna, lo stolto guarda il dito.
Cosa fatta, capo ha.
Fu aperto (i buoni, in ogni favola che si rispetti, prima o poi intervengono sempre), nel 2003, un procedimento penale a carico, tra gli altri, del direttore del Parco, architetto Nicoletti, al quale vennero contestati una serie di reati anche paesaggistici.
Il procedimento penale si prescrive (il tempo, a volte, sa essere canaglia) e l'ecomostro di Aresta, dapprima sequestrato, viene poi fatto oggetto di dissequestro e consegnato al comune di Petina che, quasi temendo i sortilegi che le presenze demoniache sanno evocare, si è guardato bene dal riqualificarlo.
Arrivano i nostri.
Il Codacons Campania, per iniziativa indefessa e meritoria dell'Avv. Maria Cristina Rizzo del Foro di Salerno, ha diffidato il Parco nazionale del Cilento ad abbattere la struttura incriminata, trattandosi di un'opera incompiuta che deturpa l'ambiente (si trova, infatti, in un lussureggiante pianoro di una suggestione unica).
Ebbene, il giorno in cui l'ecomostro di Aresta avvertirà la dentellatura della ruspa affondare nel suo substrato di interessi e di illegalità, è stato fissato in mercoledì 22 marzo 2017.
C'era una volta. 
Gli abitanti di Petina, e non solo, potranno confinare, come gli Argonauti riuscirono a fare con le fetenti Arpie nelle grotte, il mostro che ha offuscato per ben sedici anni il loro orizzonte di legalità, nel dimenticatoio di una vecchia storia di speculazione e abusivismo.
Il bellissimo pianoro di fronte all'Osservatorio di Petina gonfia il petto inorgoglito della ritrovata fruibilità. E assieme con esso, l'Avv. Maria Cristina Rizzo, dopo aver ringraziato il Presidente del Parco Tommaso Pellegrino e, ovviamente, il Codacons Campania, declama, con la vista finalmente libera dalla maledizione dell'ecomostro, il "Tra nuvole e terra/d'improvviso/il sole/ depositò il suo uovo sodo" di Pablo Neruda.