giovedì 31 agosto 2017

Adda venì (o adda turnà) baffone!

"Adda venì baffone!"

Così, con un sentimento misto tra speranza e vendetta, si augurava il popolo napoletano durante l'occupazione nazista quando pure il sangue di San Gennaro sembrava liquefarsi a forma di croce uncinata.
Nel caso specifico, 'o baffone invocato era Iosif Stalin, non propriamente uno stinco di santo. Tanto è vero che probabilmente, se davvero ce l'avesse fatta a lasciare il Palazzo d'Inverno per Napoli, avrebbe costretto il popolo occupato a rivolgersi altrove per la sua liberazione.
Certo, parafrasando Ignazio Silone, la libertà bisognerebbe prendersela da sé, ognuno la porzione che può; senza aspettarla dagli altri, quindi, ma noi campani (ahinoi!) abbiamo ben poca dimestichezza in materia.
Ma torniamo a noi.
Se a volte qualche decerebrato brama ancora il ritorno di Mussolini nonostante abbia subito le conseguenze nefaste del suo regime, immaginiamoci come ancora di più si possa desiderare l'avvento di un dittatore che sappiamo essere venuto sia pure mai alle nostre latitudini.
E quindi, ecco spiegato l' Adda turnà baffone! che ogni tanto qualcuno invoca come panacea di tutti i mali.
Ora, sia chiaro, quando si parla di baffone ai nostri giorni, il riferimento non è più a Stalin.
In un'epoca come la nostra in cui l'unica memoria condivisa è quella necessaria a farci ricordare se davvero quel prodotto è scontato rispetto all'altro venduto al supermercato a fianco, sarebbe impossibile vincolare la memoria a una personalità storica.
Depurato, quindi, il baffone da ogni negatività propria del personaggio di riferimento, l'invocazione la faccio mia. Beninteso, però, non nell'accezione del ritorno (che un baffone, come l'intendo io, non c'è mai stato), ma proprio dell' Addà venì baffone!
Auspico l'avvento di un dittatore che, seguendo i dettami platonici, appena nato venga, alla chetichella, strappato ai genitori e cresciuto da una collettività illuminata. Che, quindi, non abbia, una volta al potere, retroterra sociale da far valere, parenti da sistemare, eredità da ossequiare.
Un personaggio che sia la giusta mistura tra il Leviatano di Hobbes e il Principe di Machiavelli; e ancora tra il Superuomo di Nietzsche e il Grande Fratello di Orwell.
Che abbia i baffi poi, è relativo. A me interesserebbe solamente che potesse governare l'Italia senza pensare all'ennesima, imminente scadenza elettorale.
Solo così potrebbe fare quelle riforme (ad esempio, spendersi per puntellare il disastrato terreno italico - vedi alla voce terremoto di Ischia) che comportano necessariamente l'assunzione di provvedimenti impopolari.
Ecco, ho utilizzato la parola riforma e il mio disegno dittatoriale va a carte quarantotto.
Ovviamente, questa del baffone (meglio essere chiaro con chi mi conosce come un convinto democratico) è una provocazione di fine estate. Lungi da me la pretesa di invocare qualsivoglia despota.
Nel frattempo, però, mi sono fatto crescere i baffi. Baffi ho detto, non baffoni.
Malpensanti!

domenica 13 agosto 2017

Che caldo, non si può dormire, non si può lavorare!

<Che caldo !> <Non ho dormito !> <Non si può lavorare !>

Sfido chiunque in questi giorni di canicola africana, dal Manzanarre al Reno, dalle Colonne d'Ercole al deserto del Gibuti, a sentire qualche esclamazione diversa dal <Che caldo !>, etc., etc.
Si lamenta il DirettoreMegagalattico nel brevissimo saltello dalla Porsche Cayenne ipercondizionata all'androne del Ministero refrigerato dagli orsi polari (convocati lì, per l'occasione, dal Mago del Gelo... quello dei Polaretti, sì, proprio lui in persona.)
Si lamenta Don Vitalizio, politico di lungo corso e di panza presidenziale, che proprio non ce la fa a fuoriuscire dall'ombra hawaiana per catafottersi in piscina.
<Che caldo!> si lamenta pure Neymar nel tempo speso per calzare gli scarpini del Paris Saint Germain mentre ancora si chiede se i suoi cinquecento milioni siano la stessa cifra di tutti i bambini delle favelas del mondo.
Eppoi, certo, c'è il rampollo Elkann che (giura e spergiura l'inviato di Chi) proprio non riesce a dormire assillato com'è dal ferale dubbio: è più caldo (ancora caldo!) il ventre di Samantha o quello sui generis di Mandingo?
Ma si sa, il lamento è un diritto che spetta a tutti. E' come il biglietto gratis ai consiglieri comunali per la partita della Salernitana: se non ce l'hai, non conti un cazzo.
E quindi, eccola, la folla biblica del "Che caldo", inframmezzato dal "Non ho dormito (per il caldo)" corretto, per l'occasione, da una spruzzata di "Non si può lavorare (dal caldo)". Certo, si è sentito per un attimo penalizzato Gigino 'a Controra che, nomen est omen, nessun occhio umano l'ha mai visto lavorare nemmeno per un minuto:<E che sfaccimma, - si dice abbia protestato dopo una bestemmia di quelle che farebbero arrossire uno scaricatore di porto - tutti possono lamentarsi delle tre cose, solo io sono escluso dall'ultima ("non si può lavorare")? E questa è 'na nfamità vera e propria!>
Infine, c'è Aisin.
Dopo una laurea immolata sull'altare della famiglia lì, in Tunisia, benedice il caldo a picco del suo solco di pomodori, che ancora gli consentirà di guadagnare dieci euro per dodici ore di fatica.




giovedì 27 luglio 2017

A me gli occhi, please!

Negli anni 60/70 del secolo scorso, parte della Sinistra (e non solo) riteneva che la droga, specialmente l'eroina per i suoi effetti maggiormente deleteri, costituisse il cavallo di Troia del capitale: con la droga, cioè, le plutocrazie del mondo annichilivano i cervelli rivoluzionari, impedendogli di prendere piena consapevolezza delle proprie forze e di prepararsi per l’ “l’assalto al cielo.”
Non disturbare il manovratore, questo era l'imperativo categorico del capitale.
Veniamo ai giorni nostri.
“Niente di nuovo sotto il sole.”
Anche nel nostro tempo, infatti, si ripropone la necessità di uno strumento in grado di irretire l’attenzione e sterilizzare, così, ogni presa di coscienza dello status quo.
Ovviamente pure in questo fine 2018 c'è la droga, con una indubbia prevalenza della cocaina sull'eroina, ma quelle che ci devono preoccupare di più sono le cc.dd. "nuove droghe" addirittura più istupidenti di quelle degli anni 60/70.
A che mi riferisco?
Sforziamoci di assumere un punto di vista oggettivo e guardiamoci per le strade, a scuola, sui luoghi di lavoro.
La nostra attenzione è praticamente monopolizzata dai gruppi di whatsApp (della palestra, dei colleghi di lavoro, della scuola dei figli, degli amici del calcetto) che c'impongono, per non uscire dal giro, almeno il minimo sindacale di un “buongiorno” e di una “buonanotte” ogni dì che Dio manda in terra.
C'è poi l'onnipresente facebook sul quale abbiamo il dovere di postare il nostro parere su ogni accadimento, dal giudizio sul nuovo taglio degli ultimi cinque capelli della nonna ottuagenaria, al commento sul Def “che se non ricordo male è stato presentato dalla Cei e dovrà essere approvato dalla Nato entro la fine del primo quadrimestre, pena sanzioni severissime.”
E via, in media ogni sessanta secondi, a controllare la comparsa di quel puntino rosso sulla campanella nera su sfondo blu.
Più aumentano i numeretti inscritti nella caccolina rossa, più la nostra presenza nel mondo si struttura, più il nostro ego si eleva tronfio sulle umane miserie.
Per non parlare di quando il cerchietto rosso si stampa su quei due omini neri, sempre su sfondo blu (rosso-blu: adescamento cromatico di tutto rispetto): un altro fan della nostra iridescente vita muore dal desiderio di diventarci amico. E sia!
Non c’è manco bisogno di incontrarlo: una rapida controllatina, e conosciamo anche quante volte sia cambiato il suo piatto preferito dalle elementari all’università.
Con riferimento al cellulare, poi, abbiamo i selfie (i giovani come nuovi "selfie della gleba") senza soluzione di continuità che, una volta a casa e spento finalmente il telefonino, ci faranno sorgere qualche dubbio su dove veramente si è stati e sul perché propria quella sera dovrebbe essere diversa dalle altre.
Con riferimento alla ossessione del cellulare, infine, si parla di una nuova invasione ben più perniciosa di quella delle cavallette bibliche: l’invasione dei cc.dd. smombie (crasi tra “smartphone” e “zombie”). Un esercito di rincoglioniti da cellulare, cioè, che smanettano compulsivamente h24. A tal punto che, come simpaticamente notava Gianmatteo Pellizzari su “L’Espresso” di qualche settimana fa, se un novello Leonardo dovesse ridisegnare il suo “Uomo Vitruviano”, sicuramente lo raffigurerebbe armato di un telefonino per ognuna delle sue quattro mani.
E come non menzionare la pubblicità? Con il suo feticismo della merce crea bisogno e, molto spesso, frustrazione in chi quel bisogno proprio non può soddisfarlo.
Sì, d'accordo, il bisogno non sarebbe propriamente tale, ma dopo dieci interruzioni di un film in cui, puntualmente, ci continuano a ripetere che le lenti “Calandrino” rendono più belli, pure Gennaro Diecidecimi si convince della necessità di acquistarli.
Per concludere, ci sono la playstation con la sua realtà virtuale aumentata e quegli infernali giochini che ogni anno, una volta sì e l'altra pure, ci affibbiano l'animaletto digitale da accudire o ci sguinzagliano nelle intercapedini delle città a caccia di mostri.
Frattanto il capitale, il sistema, la società continuano a viaggiare lungo i binari della loro inesorabile affermazione.
Noi, per quanto ci riguarda, siamo tutti presi a svendere la nostra attenzione a whatsApp, facebook, pubblicità, playstation e giochini vari.
Se ne faccia una ragione, una volta per tutte, il pur simpatico Rocco Hunt con il suo “tutti dietro alla tastiera/e mo chi 'a fa 'a rivoluzione”ogni cosa a suo tempo, caro Rocco, dopo, rispettivamente,  il whatsApp a mammà e il selfie con il protagonista de “Il Segreto.”

lunedì 5 giugno 2017

La Compagnia "La Ribalta" e la "Stella" provocatoria

Al Teatro "La Ribalta" di Salerno.

Per esorcizzare l'ovvietà di un sabato sera a via Roma; ma anche per saggiare la bontà di un'intuizione. E sì perché questa riscrittura di "Stella" di J. W. Goethe da parte della regista salernitana Valentina Mustaro, che promette di essere provocatoria e rivoluzionaria, incuriosisce. E come sempre accade quando la novità sovverte canoni ben radicati, indispettisce.
<Ma come, - sbotta il classicista benpensante di turno - si ardisce contaminare il Sacro Spirito de Le affinità elettive del Maestro?>
Eppure la Compagnia "La Ribalta", quando il sipario viene giù a lenire le fatiche e le emozioni dei teatranti, invece di essere incenerita dalla folgore della hybris (tracotanza), raccoglie approvazione e consensi. 
E se l'Io nascosto di ogni personaggio potesse diventare visibile agli occhi dello spettatore?
Eccolo il grimaldello capace di scardinare il perbenismo manierato dei protagonisti di Goethe!
E allora via alla "messa in scena" dei sentimenti, dei pensieri, in una parola della coscienza che si fa epifania, che si riveste di corpo e sangue: il velo dell'ipocrisia è definitivamente squarciato, il filtro delle convenzioni sociali irrimediabilmente saltato.
In questa brillante rivisitazione, la magnanima Cacilie che dovrebbe rinunciare a Fernando per consentirgli di restare definitivamente con Stella, lo fa, lo dice, ma proprio quando manifesta quest'alto proposito, il suo retropensiero, i rigurgiti del suo subconscio, prendono corpo sul palcoscenico: è un altro personaggio che recita, a fianco e in maniera sfasata rispetto a Cacilie, che si scaglia contro Stella e, vero fino alla crudeltà, vuole Fernando tutto per sé.
A questo punto, ogni azzardo è consentito, ogni altare è pronto a essere sconsacrato: finanche il finale tragico della morte di Fernando diventa pretesto per un epilogo ben più leggero, ambiguo e allusivo quanto si vuole, ma sicuramente più libero e maggiormente spendibile per la psicologia del XXI secolo.
In definitiva, questa rappresentata dalla Compagnia "La Ribalta", è la commedia del canto e del controcanto, dell'enigma e della sua cifratura.
E se, parafrasando JungLa gente farà qualsiasi cosa, non importa quanto assurda, per evitare di incontrare la propria anima, i ragazzi de "La Ribalta" sparigliano le carte, si assumono il rischio: "Signori, al di sotto degli infingimenti ipocriti e dei belletti infingardi, eccola, la vostra anima!"
Per concludere, visto che si parla di anima, come non menzionare la mirabile esposizione di tele, all'interno del Teatro "La Ribalta", dell'artista salernitano Andrea Tabacco? Un toccasana per l'anima, per l'appunto.

giovedì 25 maggio 2017

Il decreto Minniti-Orlando e la vacca di Pasifae

Da avvocato, mi sono imbattuto nelle nuove norme del decreto Minniti-Orlando, approvato in Parlamento lo scorso 12 aprile con il voto di fiducia.

"Ecco materializzarsi - mi sono detto quasi subito - la vacca lignea di Pasifae!"
E sì perché come Pasifae, moglie di Minosse, re di Creta, per congiungersi carnalmente col toro del quale si era follemente innamorata, si nascose dentro una giovenca di legno, così il Governo si trincera nell'involucro del decreto Minniti-Orlando con le sue storture e pastoie burocratiche, pronto a farsi montare dal razzismo imperante.
Fuor di mitologia, veniamo alla mia esperienza: giurisdizionalizzazione del procedimento amministrativo davanti alle commissioni.
In altri termini e con parole più semplici, dinanzi alle commissioni che decidono sulle domande di asilo, l'immigrato è solo, senza avvocato e alla mercé di una struttura (le commissioni sono venti in tutta Italia) composta da quattro membri: un funzionario di prefettura, un funzionario di polizia, un delegato degli enti locali e un delegato dell'Unhcr.
Il giudice terzo e imparziale? Una chimera.
Si violano così, spudoratamente, l'art. 111 Cost. (c.d. "giusto processo"), l'art. 24 Cost. (diritto di difesa), l'art. 6 della Convenzione europea sui diritti umani (diritto al contraddittorio).
Nel 2016 le commissioni hanno respinto il 60% dei migranti arrivati in Italia, sulla scorta di domande da telequiz, errori di copia-incolla e fraintendimenti vari.
Non appena, però, è intervenuta la magistratura (c'è un giudice a Berlino!), in tre casi su quattro, sono state ribaltate le decisioni delle commissioni. (giudici comunisti!)
La Convenzione di Ginevra, infatti, stabilisce che le domande dovrebbero essere mirate ad accertare  il fondato timore di subire una persecuzione in patria del migrante. Invece, col decreto Minniti-Orlando, le domande delle commissioni si basano sulla credibilità del soggetto intervistato e, sempre di più, sui positivi segnali d'integrazione dell'immigrato (criterio, quest'ultimo, meramente opinabile e soggettivo).
Senza contare le sviste e gli errori "ignoranti": ci sono commissioni che hanno considerato sicuri la Libia in fiamme del post-Gheddafi, le zone curde militarizzate dai turchi, la Costa d'Avorio in guerra civile.
Le sedute delle commissioni sono videoregistrate, i verbali informatizzati: tutto per evitare il secondo grado di giudizio nel caso di ricorso davanti al giudice. E sì perché nel decreto Minniti-Orlando non è previsto appello contro la sentenza di primo grado, con il risultato aberrante che "su una causa di sfratto puoi proporre appello, sull'esercizio di un diritto fondamentale, no."
E se ci fosse un diniego alla richiesta di asilo dell'immigrato in commissione? Benvenuti all'inferno: l'immigrato ha solo 30 gg. di tempo per trovare un avvocato, per preparare e per depositare il ricorso.
Qualora ci riuscisse, poi, eccolo finito nelle grinfie dell'art. 737 c.p.c., quello, per intenderci, che disciplina le cause senza contenzioso: niente udienza, niente dibattimento, niente comparizione delle parti.
Il giudice può non incontrare mai né il richiedente asilo né il suo avvocato.
E come giudica, quindi, sulle richieste di asilo? O bella, sulla base dei filmini di cui sopra registrati dalla commissione, no?
Benvenuti in Italia, fratelli!
A farne le spese sono sempre loro, il popolo degli immigrati. Ma ne riceviamo un danno anche noialtri, italiani a 24 carati. Perché i diritti sono o di tutti o di nessuno (M. Ainis)

mercoledì 17 maggio 2017

Lontano dalla civiltà, vicino a Mazinga Zeta


Lontano lontano/molto lontano/oltre l'acqua corrente/e l'elettricità...


Ho fatto il colpo gobbo, classico e addirittura banale nelle modalità, ma sconvolgente quanto alle conseguenze.
"Piero, dammi un gratta e vinci qualsiasi, di quelli da cinque euro, tanto uno vale l'altro."
Eccola la mano unta del tabaccaio che avresti detto più a suo agio tra i pistoni e le valvole di una 1100 che a rovistare, svogliata, tra i cartoncini colorati.
Con un sorriso che già si atteggia a consolazione per un'altra sconfitta, mi fa scivolare un gratta e vinci sulla cinque euro di resto abbandonata sul bancone.
Mi guardo intorno quasi con circospezione. Il far inghiottire il tagliando dalle pagine dell'agenda e il precipitarmi fuori dal tabacchino, è tutt'uno.
Lontano da occhi indiscreti, per quella colpa contadina che ti fa maledire ogni euro speso a coltivare illusioni, mi siedo su una panchina, di spalle alla strada.
Cinquanta centesimi. Gratto, come sempre, prima due miei numeri, e poi ne cerco conferma tra i numeri vincenti. E ancora altri due, e l'ennesima discrepanza mi fa riprendere a grattare.
La cinquanta centesimi, ormai, scarrozza disillusa su macerie argento-sconfitta.
Un numero. Quattro. Due numeri. Entrambi quattro.
Al di sotto del quattro, una strusciata decisa come l'azzardo o lenta come un'agonia?
Basta. Imprimo forza alla circonferenza della moneta, e gratto via deciso.
Cinquecentomila euro. La somma giusta per giustificare un mancamento.
Ok, mi riprendo, tenendo sempre stretto in mano, quasi una seconda pelle, il gratta e vinci del riscatto.
Cinquecentomila euro. La somma giusta per mandare a fanculo le pratiche stitiche, i colleghi spocchiosi, i clienti ingrati: gli ingranaggi della mia snervante "produzione".
Lontano. È una vita che ci voglio andare. Sì, proprio lì, lontano.
Lontano/Lontano/oltre Milano/oltre i gasometri/oltre i manometri/oltre i chilometri/e i binari del tram...
Sono sul "mare" più esteso del pianeta. Navigo sull'Oceano Pacifico, a bordo dell'Esmeralda, lungo la rotta di Vasco Nùnez de Balboa. Soprattutto, sono lontano da tutto quello che ha a che fare con la civiltà, con le convenzioni sociali, con l'eterna efficienza.
Siamo io, mia moglie e i miei due figli, nudi e in contatto diretto con lo spirito del mondo.
Niente costumi, niente scarpe, niente diaframmi tra noi e la natura (a parte la "coperta" preziosa dell'Esmeralda).
Sulle acque, a mo' di vessillo del consumismo, spunta il Mazinga Zeta dell'infanzia che fu.
Sotto di esso, un continente immenso di lampi e bagliori plastici bianchi, rossi e blu.
Tutto intorno, per chilometri e chilometri, il continente di plastica.
La luna la luna/degli ululati/lascia ai poeti/la classicità/ Là voglio arrendermi/in braccio a una musica/che chiude il discorso/dell'urbanità...

venerdì 7 aprile 2017

Fenomenologia di Dries Mertens.

Dries Mertens e la sua fenomenologia.

Come fenomenologia era stata, nel lontano 1961, quella di Mike Bongiorno scritta dall'inarrivabile Umberto Eco. Con l'unica, sostanziale differenza però, che del presentatore che furoreggiava sugli schermi televisivi, si esaltava la mediocrità, a tal punto che "egli rappresenta - chiosava Eco - un ideale che nessuno deve sforzarsi di raggiungere perché chiunque si trova già al suo livello."
La fenomenologia di Mertens, invece, è di tutt'altro genere e può essere racchiusa nel secondo goal del Napoli contro la Juventus, nel precedente turno di Coppa Italia.
Siamo al 60° minuto. Dries Mertens entra al posto di un Arkadiusz Milik da ritrovare.
Napoli contro Juve, una squadra di calcio contro un'altra sì, ma anche i Borboni contro i SabaudiMasaniello contro Camillo Benso Conte di Cavour, la catena di montaggio contro l'amministratore delegatol'espediente contro il rigore (nella doppia accezione di intransigenza e di penalty spesso concesso ai bianconeri), l'insurrezione contro il potere.
Dries Mertens, dicevamo.
Entra in una qualificazione praticamente impossibile da riagguantare per il Napoli. Il risultato della partita di ritorno infatti, unito a quanto successo all'andata, è traditore come solo sa esserlo il comportamento di chi fino a ieri era il tuo Mosè pronto a liberarti dalla schiavitù e che invece oggi, proprio lui, ha deciso di abbandonarti alle stesse piaghe d'Egitto prima inflitte ai nemici.
Ma eccolo, Dries Mertens.
Il tempo di varcare la linea del fallo laterale oltre il quale c'è finalmente la partita, la trepidazione di un popolo esagerato in ogni esternazione, che il folletto belga si fionda verso l'area avversaria.
Il difensore juventino passa la palla al suo portiere. Nel novantanove per cento dei casi, quel pallone sarò stoppato dall'estremo difensore e rinviato alla bell'e meglio senza conseguenza alcuna.
Nelle scuole di calcio, insegnano all'attaccante sì di pressare il portiere, ma anche di farlo con la convinzione che il suo pressing potrà solo innervosire l'estremo difensore e quindi, magari, fargli sbagliare il rinvio.
Nulla più di questo.
E invece...Mertens si butta su quel pallone necessariamente innocuo. Mentre corre c'è in lui, che napoletano non è, la fame atavica di Totò nell'agguantare gli spaghetti di Miseria e Nobiltà, il furore cieco del pazzariello de L'Oro di Napoli che ha finalmente saputo della malattia di Don Carmine, il boss del Rione Sanità, la dignità degli scugnizzi Pasquale e Giuseppe nel lustrare le scarpe ai signori di Sciuscià.
Mertens sfida la logica e la logica, per una volta sola, si va a prendere un caffè al Gambrinus.
Neto, il portiere della Juventus, vorrebbe stoppare il pallone passatogli dal compagno di squadra ma se lo fa scivolare oltre. E in quell'oltre lontano dal concetto di appartenenza e molto vicino, invece, a quello di conquista, si è appostato Dries Mertens, epigono del popolo cencioso che rovescia finalmente il tiranno.
Manco il tempo di esultare per la rete appena segnata che il calciatore riporta, instancabile come se ancora ci fosse qualche possibilità di superare il turno, il pallone a centrocampo.
La logica del potere però, rientra. C'ha ancora in bocca il gusto vellutato del caffè.
Estasiata per il retrogusto avvolgente, concede un altro poco di ammuina al Napoli; poi, ritorna in sé e decide di rimettere le cose al proprio posto.
La partita la vince il Napoli, ma la qualificazione è della Juventus.
Mertens esce tra gli applausi di un universo, quello napoletano, che sa accontentarsi anche del sogno. In attesa, ovviamente, del prossimo miracolo, di un altro Diego Armando Maradona che lo liberi da ogni male.
Amen.