mercoledì 6 dicembre 2017

"Gialli d'estate", a cura di Marcello Fois


“Gialli d’estate” è una di quelle raccolte in cui è abbastanza agevole distinguere il buon grano dal loglio.

L’incipit contenuto ne la nota dell’editore è di quelle accattivanti, che creano suspence: la stagione migliore per compiere un delitto sembra essere l’estate.
A dimostrazione di questa premessa, ecco dipanarsi davanti agli occhi del lettore di genere o semplicemente di quello che confida nelle fibrillazioni del “giallo” per dare verve alla quotidianità, undici storie di giallisti “griffati” più o meno riuscite.
Il viaggio letterario inizia dai primi giorni dell’estate per terminare alle soglie dell’autunno.

Si parte con Il Sette di cuori di Maurice Leblanc, il creatore del famigerato Arsène Lupin. Il protagonista del giallo rincasa dopo una notte passata con amici al ristorante Cascade, tra maliconici valzer dell’orchestra tzigana e racconti di furti e crimini.

Una lettera che gli ingiunge di non muoversi, di non gridare qualsiasi cosa succeda, lo paralizza.

Quando ormai la quiete è ristabilita e il far del giorno incute la forza per “liberarsi” finalmente, l’ordine nella casa impera. Tutto è come dovrebbe essere, eccezion fatta per un sette di cuori sul pavimento.

Ne L’avventura dell’angelo caduto di Ellery Queen, proprio la scrittrice protagonista del giallo riesce a svelare cosa si celi dietro un alibi troppo perfetto per essere credibile fino in fondo.

Al centro della scena, una casa eccessivamente manierata; di quelle, per intenderci, che possono costare mesi e mesi di psicanalisi per liberarsi dagli “orribili sogni gotici”.

Il picnic del 4 luglio di Rex Stout allieta il lettore con la svogliata ma sempre feconda capacità d’indagine di Nero Wolfe che anche stavolta, nonostante l’arma impropria utilizzata (un coltello per l’arrosto) per l’omicidio, scoverà l’assassino. Nella raccolta c’è anche spazio per un giallo attuale, con i suoi pc e l’immancabile cellulare: quello del curatore del libro, Marcello Fois, che in Dove? ci presenta il commissario Curreli alle prese con un indagine troppo ricca di coincidenze per giungere al suo approdo consequenziale.È nelle segrete dell’ovvio che si cela l’inganno.

Il problema dela rosa rossa di Jacques Futrelle è uno di quei gialli che si prodiga alla ricerca di un metodo nell’apparente follia: 12 rose rosse inviate alla signorina Burdock, di lunedì, mercoledì e sabato.
Solo la dodicesima è quella fatale per la destinataria e per il suo cane. Perché?
Poteva mancare, in una raccolta di gialli, il buon vecchio Edgar Allan Poe? Certo che no, e qui ne Il Mistero di Marie Roget è presente con tutta la criticità del suo metodo induttivo e il suo rigore logico-scientifico.
Ne Il vecchietto delle Batignolles di Emile Gaboriau, la domanda che si rivolge al lettore è sconcertante nell’ovvietà della (presunta) risposta: ”Si può immaginare che un assassino sia tanto stupido da denunciarsi tracciando il proprio nome di fianco al corpo delle vittima?”
La regina del giallo Agatha Christie appare in un’estate ormai inoltrata con il suo Nido di Vespe: un’indagine perfetta, di quelle che non abbisognano di spargimento di sangue per svelare al fine Hercule Poirot autore e movente del delitto.
È la volta di Chaterine L. Pirkis che ne Il fantasma di Fountaine Lane si deve destreggiare tra un fantasma apparso al capezzale di una bambina e la sparizione di un assegno in bianco: dov’è il nesso?
Presente Agatha, non poteva mancare (Elementare!) sir Arthur Conan Doyle.
Il giallo (“statico”) che qui ci viene presentato è L’avventura di una scatola di cartone in cui all’arguto Sherlock basta, per l’appunto, la disamina di una scatola per “farsi un’idea” di come siano andate le cose.
Chapeau, mister Holmes!
L’enigma “testuale” ritorna con Salute e libertà di Fred Vargas in cui cui al commissario Adamsberg e al suo fido Danglard è affidato un compito: decodificare i “pizzini” che arrivano in ufficio con cadenza più o meno regolare, tutti firmati “Salute e libertà.”
E il senso del buon “Vasco De Gama” che continua a stazionare imperterrito di fronte al commissariato?
Undici gialli, gialli “come il sole di Ferragosto.”
“Perché il crimine non conosce vacanza.”

 

martedì 21 novembre 2017

Il prof Matteo Saudino e l'astuzia della Filosofia


Dal malchiuso portone del web che tutto collega e tutto immilla, però, eccole apparire le trombe d’oro della Filosofia: è bastato, a me imbranato navigatore degno epigono del sonnolento Palinuro, digitare “il travaglio del negativo” su google, per colare a picco nella favella ammaliatrice del prof Matteo Saudino. “Uh mamma mia, è chi è mai ‘sto tizio che è ‘na stampa e ‘na figura al Marx de Il Manifesto?”
Io che per natura prima ancora che per formazione (classica) diffido di qualsiasi insegnamento che non venga veicolato dai caratteri di stampa, stavolta mi ritrovo la vista e l’udito avvinghiati, con la stessa tenacia del sopruso sul capitale, attorno al canale youtube del prof Saudino. La filosofia, anche quella dei concetti appesi ad asciugare al sole che basta un venticello per farne dimenticanza, finalmente acquisisce una discorsività triadica (causa-effetto-comprensione tetragona ai colpi di ventura).
Il prof Saudino è quello che si definisce un personaggio. Come avete potuto desumere dall’accostamento a Marx, è un uomo folto di peli ispidi e lunghi: per intenderci, capelli brizzolati (ma di quel nero-grigio che fa speculazione), arruffati alla stregua dei riccioli di Talete attraverso cui il filosofo presocratico guardava le stelle; barba scompaginata che si ribella al rasoio sparagnino di Occam per inseguire il calcolo infinitesimale, il solo capace di spiegare i paradossi di Zenone. Dal primo piano raccolto da una telecamera, con gli occhi vispi del compagno di banco che aspetta la distrazione del professore per passarti la versione, ti coinvolge con la sua eloquenza affabile e ricca di contenuti. Si parla naturalmente di filosofia, ma con quello stoicismo capace di sacrificare tutte le sue magliette e i suoi maglioni sui generis (sul petto del prof Saudino, infatti, si alternano Hulk, il Golem, Bart Simpson, il teschio con le due sciabole incrociate a mo’ di tibie con il motto “la libertà è sempre un buon bottino”, etc.) per un grammo in più di comprensione dei suoi allievi.
La mia preparazione filosofica scucita dagli strappi dei “ragazzi, se volete seguire la lezione, bene; in caso contrario, fate quello che volete”, irrigidita dalla sempiterna cravatta blu regimental del prof di filosofia del liceo e ancora, immalinconita dalle sue guance lisce come il popò del neonato, ha trovato la sua rivalsa proprio grazie alle lezioni del prof Matteo Saudino.
Basta poco: mi scrollo dal groppone una ventina d’anni e più, mi siedo in un buon banco, mai il primo (per principio ma anche perchè, malgrado sia affascinato dai suoi insegnamenti, caro prof, c’è sempre l’occhio da buttare dietro il collo apollineo della bella della classe…ma lei, con quell’aria malandrina mi capisce, lo so), e provo a orientarmi nell’immaginifico mondo dela filosofia grazie alle sue dritte.
Il mio incontro con il prof Saudino non avrebbe dovuto esserci. Quando poi la sua voce irradiata dal bluethooth della mia auto ferma nel traffico ha fatto da amo per una ragazza di studi classici ardenti desiderosa di rinverdire la sua Nottola di Minerva (astuta filosofia!), ebbene, mi sono sorpreso a sorridere:”Benedetto il giorno che ti ho incontrato –ho istintivamente detto tra me e me– eccellente, ruffiano professore!”

lunedì 25 settembre 2017

"Doppio sogno", di Arthur Schnitzler

"Doppio sogno" è il racconto lungo di A. Schnitzler che ha affascinato e intimorito Sigmund Freud.

Il fondatore della psicoanalisi Sigmund Freud ha esitato a lungo prima di decidersi a incontrare Arthur Schnitzler perché, con il suo "Doppio sogno", lo scrittore austriaco ha portato alla ribalta un inconscio "da lettino psichiatrico" così congeniale a quello da lui vivisezionato per tutta una vita.
Si parte da un ballo in maschera a cui i due protagonisti dell'opera, il dottor Fridolin e sua moglie Albertine, hanno partecipato negli ultimi rantoli di un carnevale che sta lasciando il posto alla primavera.
Si finisce con l'apparizione di un'altra maschera che Albertine, in assenza del marito, ha posto tra sé e il cuscino, quasi a voler simboleggiare il volto del compagno "divenutole enigmatico" per un portato di esperienze a cui lei capisce di essere estranea.
E sì perché "Doppio sogno" è il racconto di un'altra vita, probabilmente del tutto diversa da quella che si trovano a vivere i due protagonisti, se solo avessero deciso, in quel tempo e in quel luogo, di recitare la parte che una persona incontrata per caso, un evento apparentemente innocuo, gli hanno offerto.
Così Fridolin e Albertine iniziano a raccontarsi quello che avrebbe potuto essere e non è stato, lasciando a un certo punto spiazzato il lettore: quegli embrioni di opportunità, quella spes vitae, è uno dei tanti sogni che si stanno confidando o, piuttosto, si tratta di esperienze reali? Ma, soprattutto, dov'è il limite, il confine tra la realtà onirica e le occasioni di cambiamento che si sono lasciate cadere?
Anche la conturbante dama che Fridolin incontra in uno scenario di cospirazione e mistero potrebbe essere la signora che adesso giace nella camera mortuaria. Di una sola cosa è sicuro: questa donna qui all'obitorio, ma anche quell'altra "che aveva cercato, desiderato e forse amato per un'ora", non può rappresentare nient'altro che il "cadavere pallido della notte passata, destinato irrevocabilmente alla decomposizione".
Poco male, però. In "Doppio sogno" c'è il tradimento (solo onirico?) della moglie che confessa al marito di aver riso nel momento in cui Fridolin, per professare la sua fedeltà a Albertine, viene crocifisso. Ora lo stesso Fridolin ha il sacrosanto diritto di vendicarsi, indipendentemente se con un altro sogno in cui appare la donna bella della cospirazione oppure attraverso un'esperienza concreta.
Eppure Fridolin torna, di notte, da Albertine che, innocente come ogni donna suo malgrado custode del peccato originale, attira il marito verso di sé dopo che questi le ha raccontato tutto.
"Ma ora ci siamo svegliati..." disse "per lungo tempo."
Fridolin vorrebbe controbattere con  il più rassicurante "per sempre" ma subito la moglie, intuito il suo volere, lo ferma e sussurra come fra sé:" Non si può ipotecare il futuro".
Frattanto, nella stanza da letto di "Doppio sogno", irrompe la quotidianità appena svegliatasi dal sogno.

giovedì 31 agosto 2017

Adda venì (o adda turnà) baffone!

"Adda venì baffone!"

Così, con un sentimento misto tra speranza e vendetta, si augurava il popolo napoletano durante l'occupazione nazista quando pure il sangue di San Gennaro sembrava liquefarsi a forma di croce uncinata.
Nel caso specifico, 'o baffone invocato era Iosif Stalin, non propriamente uno stinco di santo. Tanto è vero che probabilmente, se davvero ce l'avesse fatta a lasciare il Palazzo d'Inverno per Napoli, avrebbe costretto il popolo occupato a rivolgersi altrove per la sua liberazione.
Certo, parafrasando Ignazio Silone, la libertà bisognerebbe prendersela da sé, ognuno la porzione che può; senza aspettarla dagli altri, quindi, ma noi campani (ahinoi!) abbiamo ben poca dimestichezza in materia.
Ma torniamo a noi.
Se a volte qualche decerebrato brama ancora il ritorno di Mussolini nonostante abbia subito le conseguenze nefaste del suo regime, immaginiamoci come ancora di più si possa desiderare l'avvento di un dittatore che sappiamo essere venuto sia pure mai alle nostre latitudini.
E quindi, ecco spiegato l' Adda turnà baffone! che ogni tanto qualcuno invoca come panacea di tutti i mali.
Ora, sia chiaro, quando si parla di baffone ai nostri giorni, il riferimento non è più a Stalin.
In un'epoca come la nostra in cui l'unica memoria condivisa è quella necessaria a farci ricordare se davvero quel prodotto è scontato rispetto all'altro venduto al supermercato a fianco, sarebbe impossibile vincolare la memoria a una personalità storica.
Depurato, quindi, il baffone da ogni negatività propria del personaggio di riferimento, l'invocazione la faccio mia. Beninteso, però, non nell'accezione del ritorno (che un baffone, come l'intendo io, non c'è mai stato), ma proprio dell' Addà venì baffone!
Auspico l'avvento di un dittatore che, seguendo i dettami platonici, appena nato venga, alla chetichella, strappato ai genitori e cresciuto da una collettività illuminata. Che, quindi, non abbia, una volta al potere, retroterra sociale da far valere, parenti da sistemare, eredità da ossequiare.
Un personaggio che sia la giusta mistura tra il Leviatano di Hobbes e il Principe di Machiavelli; e ancora tra il Superuomo di Nietzsche e il Grande Fratello di Orwell.
Che abbia i baffi poi, è relativo. A me interesserebbe solamente che potesse governare l'Italia senza pensare all'ennesima, imminente scadenza elettorale.
Solo così potrebbe fare quelle riforme (ad esempio, spendersi per puntellare il disastrato terreno italico - vedi alla voce terremoto di Ischia) che comportano necessariamente l'assunzione di provvedimenti impopolari.
Ecco, ho utilizzato la parola riforma e il mio disegno dittatoriale va a carte quarantotto.
Ovviamente, questa del baffone (meglio essere chiaro con chi mi conosce come un convinto democratico) è una provocazione di fine estate. Lungi da me la pretesa di invocare qualsivoglia despota.
Nel frattempo, però, mi sono fatto crescere i baffi. Baffi ho detto, non baffoni.
Malpensanti!

domenica 13 agosto 2017

Che caldo, non si può dormire, non si può lavorare!

<Che caldo !> <Non ho dormito !> <Non si può lavorare !>

Sfido chiunque in questi giorni di canicola africana, dal Manzanarre al Reno, dalle Colonne d'Ercole al deserto del Gibuti, a sentire qualche esclamazione diversa dal <Che caldo !>, etc., etc.
Si lamenta il DirettoreMegagalattico nel brevissimo saltello dalla Porsche Cayenne ipercondizionata all'androne del Ministero refrigerato dagli orsi polari (convocati lì, per l'occasione, dal Mago del Gelo... quello dei Polaretti, sì, proprio lui in persona.)
Si lamenta Don Vitalizio, politico di lungo corso e di panza presidenziale, che proprio non ce la fa a fuoriuscire dall'ombra hawaiana per catafottersi in piscina.
<Che caldo!> si lamenta pure Neymar nel tempo speso per calzare gli scarpini del Paris Saint Germain mentre ancora si chiede se i suoi cinquecento milioni siano la stessa cifra di tutti i bambini delle favelas del mondo.
Eppoi, certo, c'è il rampollo Elkann che (giura e spergiura l'inviato di Chi) proprio non riesce a dormire assillato com'è dal ferale dubbio: è più caldo (ancora caldo!) il ventre di Samantha o quello sui generis di Mandingo?
Ma si sa, il lamento è un diritto che spetta a tutti. E' come il biglietto gratis ai consiglieri comunali per la partita della Salernitana: se non ce l'hai, non conti un cazzo.
E quindi, eccola, la folla biblica del "Che caldo", inframmezzato dal "Non ho dormito (per il caldo)" corretto, per l'occasione, da una spruzzata di "Non si può lavorare (dal caldo)". Certo, si è sentito per un attimo penalizzato Gigino 'a Controra che, nomen est omen, nessun occhio umano l'ha mai visto lavorare nemmeno per un minuto:<E che sfaccimma, - si dice abbia protestato dopo una bestemmia di quelle che farebbero arrossire uno scaricatore di porto - tutti possono lamentarsi delle tre cose, solo io sono escluso dall'ultima ("non si può lavorare")? E questa è 'na nfamità vera e propria!>
Infine, c'è Aisin.
Dopo una laurea immolata sull'altare della famiglia lì, in Tunisia, benedice il caldo a picco del suo solco di pomodori, che ancora gli consentirà di guadagnare dieci euro per dodici ore di fatica.




giovedì 27 luglio 2017

A me gli occhi, please!

Negli anni 60/70 del secolo scorso, parte della Sinistra (e non solo) riteneva che la droga, specialmente l'eroina per i suoi effetti maggiormente deleteri, costituisse il cavallo di Troia del capitale: con la droga, cioè, le plutocrazie del mondo annichilivano i cervelli rivoluzionari, impedendogli di prendere piena consapevolezza delle proprie forze e di prepararsi per l’ “l’assalto al cielo.”
Non disturbare il manovratore, questo era l'imperativo categorico del capitale.
Veniamo ai giorni nostri.
“Niente di nuovo sotto il sole.”
Anche nel nostro tempo, infatti, si ripropone la necessità di uno strumento in grado di irretire l’attenzione e sterilizzare, così, ogni presa di coscienza dello status quo.
Ovviamente pure in questo fine 2018 c'è la droga, con una indubbia prevalenza della cocaina sull'eroina, ma quelle che ci devono preoccupare di più sono le cc.dd. "nuove droghe" addirittura più istupidenti di quelle degli anni 60/70.
A che mi riferisco?
Sforziamoci di assumere un punto di vista oggettivo e guardiamoci per le strade, a scuola, sui luoghi di lavoro.
La nostra attenzione è praticamente monopolizzata dai gruppi di whatsApp (della palestra, dei colleghi di lavoro, della scuola dei figli, degli amici del calcetto) che c'impongono, per non uscire dal giro, almeno il minimo sindacale di un “buongiorno” e di una “buonanotte” ogni dì che Dio manda in terra.
C'è poi l'onnipresente facebook sul quale abbiamo il dovere di postare il nostro parere su ogni accadimento, dal giudizio sul nuovo taglio degli ultimi cinque capelli della nonna ottuagenaria, al commento sul Def “che se non ricordo male è stato presentato dalla Cei e dovrà essere approvato dalla Nato entro la fine del primo quadrimestre, pena sanzioni severissime.”
E via, in media ogni sessanta secondi, a controllare la comparsa di quel puntino rosso sulla campanella nera su sfondo blu.
Più aumentano i numeretti inscritti nella caccolina rossa, più la nostra presenza nel mondo si struttura, più il nostro ego si eleva tronfio sulle umane miserie.
Per non parlare di quando il cerchietto rosso si stampa su quei due omini neri, sempre su sfondo blu (rosso-blu: adescamento cromatico di tutto rispetto): un altro fan della nostra iridescente vita muore dal desiderio di diventarci amico. E sia!
Non c’è manco bisogno di incontrarlo: una rapida controllatina, e conosciamo anche quante volte sia cambiato il suo piatto preferito dalle elementari all’università.
Con riferimento al cellulare, poi, abbiamo i selfie (i giovani come nuovi "selfie della gleba") senza soluzione di continuità che, una volta a casa e spento finalmente il telefonino, ci faranno sorgere qualche dubbio su dove veramente si è stati e sul perché propria quella sera dovrebbe essere diversa dalle altre.
Con riferimento alla ossessione del cellulare, infine, si parla di una nuova invasione ben più perniciosa di quella delle cavallette bibliche: l’invasione dei cc.dd. smombie (crasi tra “smartphone” e “zombie”). Un esercito di rincoglioniti da cellulare, cioè, che smanettano compulsivamente h24. A tal punto che, come simpaticamente notava Gianmatteo Pellizzari su “L’Espresso” di qualche settimana fa, se un novello Leonardo dovesse ridisegnare il suo “Uomo Vitruviano”, sicuramente lo raffigurerebbe armato di un telefonino per ognuna delle sue quattro mani.
E come non menzionare la pubblicità? Con il suo feticismo della merce crea bisogno e, molto spesso, frustrazione in chi quel bisogno proprio non può soddisfarlo.
Sì, d'accordo, il bisogno non sarebbe propriamente tale, ma dopo dieci interruzioni di un film in cui, puntualmente, ci continuano a ripetere che le lenti “Calandrino” rendono più belli, pure Gennaro Diecidecimi si convince della necessità di acquistarli.
Per concludere, ci sono la playstation con la sua realtà virtuale aumentata e quegli infernali giochini che ogni anno, una volta sì e l'altra pure, ci affibbiano l'animaletto digitale da accudire o ci sguinzagliano nelle intercapedini delle città a caccia di mostri.
Frattanto il capitale, il sistema, la società continuano a viaggiare lungo i binari della loro inesorabile affermazione.
Noi, per quanto ci riguarda, siamo tutti presi a svendere la nostra attenzione a whatsApp, facebook, pubblicità, playstation e giochini vari.
Se ne faccia una ragione, una volta per tutte, il pur simpatico Rocco Hunt con il suo “tutti dietro alla tastiera/e mo chi 'a fa 'a rivoluzione”ogni cosa a suo tempo, caro Rocco, dopo, rispettivamente,  il whatsApp a mammà e il selfie con il protagonista de “Il Segreto.”

lunedì 5 giugno 2017

La Compagnia "La Ribalta" e la "Stella" provocatoria

Al Teatro "La Ribalta" di Salerno.

Per esorcizzare l'ovvietà di un sabato sera a via Roma; ma anche per saggiare la bontà di un'intuizione. E sì perché questa riscrittura di "Stella" di J. W. Goethe da parte della regista salernitana Valentina Mustaro, che promette di essere provocatoria e rivoluzionaria, incuriosisce. E come sempre accade quando la novità sovverte canoni ben radicati, indispettisce.
<Ma come, - sbotta il classicista benpensante di turno - si ardisce contaminare il Sacro Spirito de Le affinità elettive del Maestro?>
Eppure la Compagnia "La Ribalta", quando il sipario viene giù a lenire le fatiche e le emozioni dei teatranti, invece di essere incenerita dalla folgore della hybris (tracotanza), raccoglie approvazione e consensi. 
E se l'Io nascosto di ogni personaggio potesse diventare visibile agli occhi dello spettatore?
Eccolo il grimaldello capace di scardinare il perbenismo manierato dei protagonisti di Goethe!
E allora via alla "messa in scena" dei sentimenti, dei pensieri, in una parola della coscienza che si fa epifania, che si riveste di corpo e sangue: il velo dell'ipocrisia è definitivamente squarciato, il filtro delle convenzioni sociali irrimediabilmente saltato.
In questa brillante rivisitazione, la magnanima Cacilie che dovrebbe rinunciare a Fernando per consentirgli di restare definitivamente con Stella, lo fa, lo dice, ma proprio quando manifesta quest'alto proposito, il suo retropensiero, i rigurgiti del suo subconscio, prendono corpo sul palcoscenico: è un altro personaggio che recita, a fianco e in maniera sfasata rispetto a Cacilie, che si scaglia contro Stella e, vero fino alla crudeltà, vuole Fernando tutto per sé.
A questo punto, ogni azzardo è consentito, ogni altare è pronto a essere sconsacrato: finanche il finale tragico della morte di Fernando diventa pretesto per un epilogo ben più leggero, ambiguo e allusivo quanto si vuole, ma sicuramente più libero e maggiormente spendibile per la psicologia del XXI secolo.
In definitiva, questa rappresentata dalla Compagnia "La Ribalta", è la commedia del canto e del controcanto, dell'enigma e della sua cifratura.
E se, parafrasando JungLa gente farà qualsiasi cosa, non importa quanto assurda, per evitare di incontrare la propria anima, i ragazzi de "La Ribalta" sparigliano le carte, si assumono il rischio: "Signori, al di sotto degli infingimenti ipocriti e dei belletti infingardi, eccola, la vostra anima!"
Per concludere, visto che si parla di anima, come non menzionare la mirabile esposizione di tele, all'interno del Teatro "La Ribalta", dell'artista salernitano Andrea Tabacco? Un toccasana per l'anima, per l'appunto.