mercoledì 24 gennaio 2018

"Garibaldi era comunista", di Luciano De Crescenzo

Recensire uno degli ultimi libri di Luciano De Crescenzo, è un po' come sognare al cospetto di una finta (parafrasando il pensiero poetico di Luigino 'o poeta del Così parlò Bellavista) del Maradona di oggi

Certo, a te patito del Napoli degli scudetti che fu (e che speriamo...vabbè, ci siamo capiti), costa fatica intravedere il talento del predestinato nelle movenze del Dieguito panzuto e brizzolato che ti sta adesso di fronte.
Eppure, in virtù di quel credito illimitato che il De Crescenzo-Maradona ha acquisito ai tuoi occhi con gli scritti post IBM, ora sei pronto a mentire spudoratamente e a considerare ogni suo libro recente all'altezza della Storia della filosofia greca o de La vita di Luciano De Crescenzo scritta da lui medesimo.
Manco a farlo apposta, Garibaldi era comunista dello scrittore napoletano si pone a metà strada, almeno con riferimento ai contenuti, a queste due opere ineguagliabili.
Si parte con una visita di Publio Cornelio Tacito, storico dell'antichità, e Hieronymus Wolf, suo collega (sia pure con l'aggiunta della qualifica di astrologo) del Cinquecento.
De Crescenzo, fin dalle prime battute, ci presenta l'organigramma della sua opera: dapprima un più o meno accennato abbozzo alle vicende storiche intessute con qualche aneddoto(spesso ripreso paro-paro da un libro precedente) della sua vita; di poi, un colloquio, a metà strada tra l'umoristico e il surreale, con i personaggi via via trattati.
Pronti, partenza, via.
Tra religione e mito, si susseguono, nell'ordine, le figure scimmiesche (tanto per mettere d'accordo evoluzionisti e creazionisti) di Adamo ed Eva; quella linguisticamente ingarbugliata della Torre di Babele con il piccolo Luciano che non comprende i nazisti della sua fanciullezza perché lui ha studiato solo il tedesco "di pace"; infine, non potevano mancare le gesta di Romolo e Remo accompagnati dal dubbio di De Crescenzo su chi fosse il fratello buono e chi quello cattivo.
Con l'imperatore Nerone che canta Voce 'e notte, si varca finalmente la soglia della Storia.
Largo, allora, a un altro imperatore, quell'Adriano col suo Pantheon aperto a tutti (schiavi, cristiani, neri e pure alle donne).
Poi viene il turno di Lorenzo il Magnifico con la sua gotta "pantofolaia" e la teoria degli umori di Ippocrate.
Si approda, così, sulle rive del golfo di Napoli, con il Masaniello nazionale che si fa le scorpacciate di "mastunicòle" (pizza con "'nzogna", formaggio e pepe).
De Crescenzo non può esimersi, malgrado ci avesse provato anche solo "perchè sembra che lui ci debba stare per forza" (in un libro di storia, ndr), dal trattare la figura di Napoleone che "preferisce non discutere."
Si apre, a questo punto, il siparietto tra Camillo Benso Conte di Cavour e Garibaldi su chi abbia fatto davvero l'Italia. Ovviamente Garibaldi, che indossava sempre una camicia rossa come De Crescenzo puntualmente un maglione azzurro, era comunista allo stesso modo in cui lo scrittore appartiene al Calcio Napoli.
L'epilogo è dedicato a Mussolini che, per De Crescenzo, ormai dev'essere considerato un personaggio storico piuttosto che politico, anche per darne un giudizio quanto più obiettivo possibile. Giudizio che (ça va sans dire) l'illustre scrittore stempera nella difficoltà dei fascisti di italianizzare il termine bidet perchè "il pudore, Mussoli', viene prima del fascismo."

domenica 21 gennaio 2018

"La danza immobile" di Manuel Scorza

La danza immobile, libro testamento di Manuel Scorza (lo scrittore peruviano morirà in un incidente aereo lo stesso anno della sua pubblicazione), è un romanzo sulla "impossibilità di scegliere."

E sì perchè la scelta, continuando a parafrasare Soren Kirkegaard, non può che concretarsi in una disperante rinuncia.
Vi è la paralisi, una danza, appunto,"immobile", sterilizzata com'è dall'indecisione: tra l'Amore e la Rivoluzione, cosa scegliere?
Per il rivoluzionario Nicolàs Centenario la danza, dopo una stasi interminabile, riprende a muoversi.
Troppo forte è il ricordo dell'albero della Tangarana, lì nella profonda amazzonia peruviana, a cui decine di compagni sono stati legati.
È bastato un colpo reazionario al tronco con un machete da parte del maggiore Basurco che sì, all'epoca era maggiore prima di essere degradato dopo l'incredibile evasione proprio di Nicolàs, per foraggiare la voracità di milioni di piccole, fameliche formiche.
Riscosse dal tepore dei loro nidi nelle nervature del tronco, le formiche sono diventate armi dell'oppressione.
A piccoli, instancabili morsi, hanno spolpato, disintegrato l'umanità dei rivoluzionari legati all'albero fino a inghiottirne anche il grido di dolore.
Eppure adesso che tutte le lucciole del mondo, proprio ora che la zattera sta oltrepassando l'ultimo posto di blocco, avvolgono il suo corpo intriso dalle sterminate persecuzioni e lo coprono d'oro, Nicolàs pensa alla sua Francesca.
Anche quando lo legano all'albero della Tangarana, il pensiero va a lei e a come abbia fatto meglio Santiago, il compagno Santiago, a scegliere Marie-Claire al posto della rivoluzione.
Pure per Santiago, però, c'è stato un momento in cui la danza è divenuta immobile, un attimo al cospetto del quale lui, nato per la rivoluzione e impossibilitato a concepire altro che non fosse la guerriglia e la liberazione dei popoli oppressi, si è trovato nell'incertezza di scegliere.
Marie-Claire, la dolcissima e fervente Marie-Claire o la missione assieme ai compagni come postremo tributo alla guerriglia?
Santiago sceglie di essere rivoluzionario d'amore.
Anche lui, però, nell'attimo in cui intuisce che la danza non può che essere immobile laddovve l'immobilità non è indecisione che paralizza ma equilibrio che fortifica, pensa al compagno Nicolàs che è partito per l'ultima battaglia di libertà, e lo invidia.
La verità è che una rivoluzione può tradire, o meglio essere tradita, alla stessa maniera di quanto possa tradire o essere tradita una donna.
La danza immobile di Manuel Scorza è un romanzo affascinante in cui l'impegno politico viene difeso con le armi dell'amore e l'amore, dal canto suo, viene protetto e custodito con il fuoco della guerriglia.
Probabilmente è da rintracciarsi in questa contaminazione, solo apparentemente paralizzante, il senso del libro dello scrittore peruviano.

mercoledì 3 gennaio 2018

"Storia della Rivoluzione russa", W.H.Chamberlin

Storia della Rivoluzione russa è un libro che, come ci dice lo stesso scrittore W.H.Chamberlin nella prefazione, "è frutto di dodici anni di studi e di ricerche", principalmente nella ex Unione Sovietica.

Oggetto di studio dello scrittore è quel lasso di tempo, ricco di eventi e di implicazioni future, che parte dalla caduta del regime zarista (marzo 1917) e arriva fino all'introduzione della cosiddetta "nuova politica economica" (marzo 1921).
Il tutto, ovviamente, senza tralasciare la sanguinosa guerra civile che seguì la rivoluzione bolscevica.
La domanda che lo scrittore americano si pone e alla quale, mentre analizza tutte le tappe che hanno portato alla rivoluzione russa (per certi versi, un unicum nel pur ricco panorama di rivoluzioni che l'hanno preceduta e seguita), si sforza di rispondere, è la seguente: come fu possibile a Lenin e alla sua schiera di seguaci relativamente ristretta (da studi attendibili, si parla di circa venticinquemila bolscevichi presenti in Russia al momento della caduta del regime zarista) conquistare il potere?
E soprattutto, come siffatto potere si è potuto conservare contro l'accanita resistenza delle antiche classi dirigenti che al tempo dello zar Nicola II facevano il bello e il cattivo tempo, con l'avallo determinante (in altri contesti) dei governi degli Alleati.
Senza contare, poi, i vari nemici che, a partire dal conservatore Krasnòv, passando per Denikin-Vrangel' con il loro "Esercito volontario" e terminando con l'anarchico Machnò, hanno a più riprese e da diverse posizioni combattuto i bolscevichi.
Le risposte, dopo un'analisi approfondita, quasi scientifica delle fonti in possesso dello scrittore, sono molteplici e diverse.
Per quanto riguardo la fase della conquista del potere, tra le altre, l'autore non può esimersi dal menzionare il sistema di governo degli zar con la sua incapacità di soddisfare il bisogno di terra dei contadini e i suoi metodi repressivi; così come non può evitare di soffermarsi sulla guerra mondiale che accrebbe la miseria nelle città e nelle campagne fino a portarla a un livello insostenibile.
Per ciò che attiene invece al mantenimento del bastone del comando da parte del genio di Lenin, dell'audacia e dell'entusiasmo di Trockij, e della fredda risolutezza di Stalin, i fattori che lo hanno permesso sono diversi.
Come non citare, a questo proposito, la differenza tra i bolscevichi, uniti e compatti tra le maglie del Partito, e le divisioni sempre presenti nei suoi avversari?
Ad esempio il già citato Machnò combattè Denikin e Vrangel', che teoricamente volevano tutti liberare la popolazione dal potere rosso, anche più accanitamente di quanto si scagliò contro i comunisti.
La verità, a conti fatti, è che tra i conservatori e i contadini anarchici non ci poteva essere alcuna collaborazione: troppo diversi per ceto e per aspirazioni sociali.
I bolscevichi, poi, possedevano un'invidiabile posizione (geografica) centrale.
I capi bianchi, invece, succedutisi volta per volta, erano divisi l'un l'altro da grandi estensioni di terra e di mare, nell'impossibilità, quindi, di coordinare le loro azioni.
Inoltre la stragrande maggioranza di armi e munizioni accumulate durante la prima guerra mondiale si trovava depositata in territorio bolscevico, costituendo, quindi, un indubbio vantaggio per i rossi.
Infine i socialisti rivoluzionari, probabilmente l'unica alternativa possibile ai bolscevichi, da un lato si dimostrarono più volte incapaci di imporsi in maniera unitaria e concreta, dall'altra, come i girondini della rivoluzione francese, non riuscirono mai a venir fuori da una posizione di ambiguità sostanziale: troppo a sinistra per la borghesia, troppo a destra per gli operai che stavano acquistando una coscienza di classe. Senza contare, poi, l'errore imperdonabile dei socialisti rivoluzionari di fondare il loro consenso sui contadini russi: su una classe sociale, cioè, ancora troppo acerba e ignorante per essere determinante nella presa del potere.
Ovviamente, sia pure di notevole importanza, questi fattori presi singolarmente, spiegano ben poco.
Solo mettendoli tutti assieme, coordinandoli, si riesce a capirne il ruolo dirimente nella genesi e negli sviluppi del periodo storico preso in esame da W.H.Chamberlin. A patto, ovviamente, di non dimenticare l'elemento cardine senza il quale nessuna rivoluzione, massimamente quella russa con la spietata oppressione dello zar, sarebbe mai potuta scoppiare: l'anelito di giustizia per troppo tempo ignorato e per tanti decenni vilipeso dalla classe dominante.


lunedì 18 dicembre 2017

Michele Gentile, il rito, la lotta e le notizie dal fronte

Il primo incontro con Michele Gentile l'ho avuto per il tramite di un giornale, circa tre anni fa

Come a volte succede, una quotidianità sempre presa da mille cose molto spesso meno entusiasmanti degli incontri rimandati, trova finalmente il tempo di un messaggio su facebook.
"Vieni, ti aspetto."
La mia borghese incomprensione verso le scelte estreme, mi attarda a chiedere di orari, di disponibilità.
"Passa quando vuoi. Ci sono sempre."
Finita l'udienza a Eboli, mi metto in autostrada, direzione Polla.
Poche centinaia di metri ed eccomi davanti alla libreria Ex Libris Cafè di Michele Gentile.
Oltrepasso la soglia. L'aria pungente di metà dicembre si riempie di storie che raccontano vite.
È un luogo d'elezione questo, di quelli che volutamente rifuggono dalle fascette ammiccanti dell'ultima edizione dello scrittore in auge.
Qui, in questa libreria, Michele Gentile è il sacro officiante di un rito, la vestale che dedica la vita al fuoco sacro della Cultura.
Come ogni liturgia che si rispetti, ci sono dei passaggi, delle tappe che avvicinano al trascendente.
<Grazie.> - mi dice appena mi vede entrare e da una parete che a fatica conquista la sua indipendenza da orde indomite di libri, sgattaiola fuori, come un alambicco dalla grotta di Merlino, l'armamentario da bar.
<Sai com'è, - confessa mentre mi prepara un ottimo caffè - i miei avevano un bar...>
Il tempo si è fermato. Il tavolo di legno, scaffali pieni di volumi che difficilmente troveresti nello store sotto casa, giornali e riviste per dare notizia del mondo e dal mondo.
A guardare bene, nel cono d'ombra di un angolo buttato lì, potresti addirittura seguire il rivolo di fumo della pipa di Ungaretti o perderti nei grovigli medievali della barba di Umberto Eco.
Sarebbe la stessa cosa.
<Eppure, - e l'occhio diafano come una barca inghiottita dalle nebbie del mattino - tutto questo non basta.>
Solo adesso vedo quello che l'avvolgente atmosfera della Ex libris Cafè m'aveva in un primo momento impedito di vedere: Michele Gentile indossa, quasi a disagio sulla giacca dell'accoglienza più piena, un giubbetto militare.
Il 60% degli italiani non acquista libri.
Il 10% degli abitanti del Bel Paese non ha nemmeno un libro in casa.
La guerra è di quelle senza quartiere, disperate.
Le truppe messe in campo dal libraio invitto sono le più agguerrite:
"Un libro sospeso", per consentire soprattutto ai lettori forti, sulla falsariga di quello che accade a Napoli per il caffè, di comprare due libri, uno per sé e uno da offrire a chi non ha la possibilità di acquistarlo o a chi non è stato educato al fascino della lettura.
Michele mi mostra gli attestati di ringraziamento delle carceri minorili, delle biblioteche scolastiche e degli ospedali destinatari dei volumi donati.
Poi ci sono i "Viaggi d'autore" in cui, grazie all'indispensabile collaborazione con le Autolinee Curcio, gli scrittori (nelle edizioni scorse si sono alternati grandi nomi come Pino Aprile, Diego De Silva, Antonello Caporale, Pino Imperatore, etc.) incontrano i lettori proprio sui bus della Curcio.
Infine, ecco l'arma segreta di Michele Gentile: "Non rifiutiamoci", un'iniziativa per mezzo della quale in cambio di una certa quantità di ferro, rame, alluminio e ottone da portare in libreria, si ha il corrispettivo in libri, anche scolastici.
Lo guardo come un libraio ormai famoso per le sue iniziative. Lui lo conosce quello sguardo e implicitamente mi prega di liberarmene. Ne farebbe volentieri a meno.
Con un sorriso stanco di tante pacche sulle spalle e incoraggiamenti di facciata, Michele Gentile scuote la testa leonina:<Eppure, tutto questo non basta per diffondere la lettura.>
Fuori dal microcosmo della Ex Libris Cafè continuano a piovere giacche "dell'appuntamento allo studio", smartphone imbellettati per il prossimo natale.
Io torno in macchina con La danza immobile di Manuel Scorza che trovato qui, costipato tra altri cento volumi, ha il fascino dell'eterno.
Ciao, Michele. Resisti.

mercoledì 6 dicembre 2017

"Gialli d'estate", a cura di Marcello Fois


“Gialli d’estate” è una di quelle raccolte in cui è abbastanza agevole distinguere il buon grano dal loglio.

L’incipit contenuto ne la nota dell’editore è di quelle accattivanti, che creano suspence: la stagione migliore per compiere un delitto sembra essere l’estate.
A dimostrazione di questa premessa, ecco dipanarsi davanti agli occhi del lettore di genere o semplicemente di quello che confida nelle fibrillazioni del “giallo” per dare verve alla quotidianità, undici storie di giallisti “griffati” più o meno riuscite.
Il viaggio letterario inizia dai primi giorni dell’estate per terminare alle soglie dell’autunno.

Si parte con Il Sette di cuori di Maurice Leblanc, il creatore del famigerato Arsène Lupin. Il protagonista del giallo rincasa dopo una notte passata con amici al ristorante Cascade, tra maliconici valzer dell’orchestra tzigana e racconti di furti e crimini.

Una lettera che gli ingiunge di non muoversi, di non gridare qualsiasi cosa succeda, lo paralizza.

Quando ormai la quiete è ristabilita e il far del giorno incute la forza per “liberarsi” finalmente, l’ordine nella casa impera. Tutto è come dovrebbe essere, eccezion fatta per un sette di cuori sul pavimento.

Ne L’avventura dell’angelo caduto di Ellery Queen, proprio la scrittrice protagonista del giallo riesce a svelare cosa si celi dietro un alibi troppo perfetto per essere credibile fino in fondo.

Al centro della scena, una casa eccessivamente manierata; di quelle, per intenderci, che possono costare mesi e mesi di psicanalisi per liberarsi dagli “orribili sogni gotici”.

Il picnic del 4 luglio di Rex Stout allieta il lettore con la svogliata ma sempre feconda capacità d’indagine di Nero Wolfe che anche stavolta, nonostante l’arma impropria utilizzata (un coltello per l’arrosto) per l’omicidio, scoverà l’assassino. Nella raccolta c’è anche spazio per un giallo attuale, con i suoi pc e l’immancabile cellulare: quello del curatore del libro, Marcello Fois, che in Dove? ci presenta il commissario Curreli alle prese con un indagine troppo ricca di coincidenze per giungere al suo approdo consequenziale.È nelle segrete dell’ovvio che si cela l’inganno.

Il problema dela rosa rossa di Jacques Futrelle è uno di quei gialli che si prodiga alla ricerca di un metodo nell’apparente follia: 12 rose rosse inviate alla signorina Burdock, di lunedì, mercoledì e sabato.
Solo la dodicesima è quella fatale per la destinataria e per il suo cane. Perché?
Poteva mancare, in una raccolta di gialli, il buon vecchio Edgar Allan Poe? Certo che no, e qui ne Il Mistero di Marie Roget è presente con tutta la criticità del suo metodo induttivo e il suo rigore logico-scientifico.
Ne Il vecchietto delle Batignolles di Emile Gaboriau, la domanda che si rivolge al lettore è sconcertante nell’ovvietà della (presunta) risposta: ”Si può immaginare che un assassino sia tanto stupido da denunciarsi tracciando il proprio nome di fianco al corpo delle vittima?”
La regina del giallo Agatha Christie appare in un’estate ormai inoltrata con il suo Nido di Vespe: un’indagine perfetta, di quelle che non abbisognano di spargimento di sangue per svelare al fine Hercule Poirot autore e movente del delitto.
È la volta di Chaterine L. Pirkis che ne Il fantasma di Fountaine Lane si deve destreggiare tra un fantasma apparso al capezzale di una bambina e la sparizione di un assegno in bianco: dov’è il nesso?
Presente Agatha, non poteva mancare (Elementare!) sir Arthur Conan Doyle.
Il giallo (“statico”) che qui ci viene presentato è L’avventura di una scatola di cartone in cui all’arguto Sherlock basta, per l’appunto, la disamina di una scatola per “farsi un’idea” di come siano andate le cose.
Chapeau, mister Holmes!
L’enigma “testuale” ritorna con Salute e libertà di Fred Vargas in cui cui al commissario Adamsberg e al suo fido Danglard è affidato un compito: decodificare i “pizzini” che arrivano in ufficio con cadenza più o meno regolare, tutti firmati “Salute e libertà.”
E il senso del buon “Vasco De Gama” che continua a stazionare imperterrito di fronte al commissariato?
Undici gialli, gialli “come il sole di Ferragosto.”
“Perché il crimine non conosce vacanza.”

 

martedì 21 novembre 2017

Il prof Matteo Saudino e l'astuzia della Filosofia


Dal malchiuso portone del web che tutto collega e tutto immilla, però, eccole apparire le trombe d’oro della Filosofia: è bastato, a me imbranato navigatore degno epigono del sonnolento Palinuro, digitare “il travaglio del negativo” su google, per colare a picco nella favella ammaliatrice del prof Matteo Saudino. “Uh mamma mia, è chi è mai ‘sto tizio che è ‘na stampa e ‘na figura al Marx de Il Manifesto?”
Io che per natura prima ancora che per formazione (classica) diffido di qualsiasi insegnamento che non venga veicolato dai caratteri di stampa, stavolta mi ritrovo la vista e l’udito avvinghiati, con la stessa tenacia del sopruso sul capitale, attorno al canale youtube del prof Saudino. La filosofia, anche quella dei concetti appesi ad asciugare al sole che basta un venticello per farne dimenticanza, finalmente acquisisce una discorsività triadica (causa-effetto-comprensione tetragona ai colpi di ventura).
Il prof Saudino è quello che si definisce un personaggio. Come avete potuto desumere dall’accostamento a Marx, è un uomo folto di peli ispidi e lunghi: per intenderci, capelli brizzolati (ma di quel nero-grigio che fa speculazione), arruffati alla stregua dei riccioli di Talete attraverso cui il filosofo presocratico guardava le stelle; barba scompaginata che si ribella al rasoio sparagnino di Occam per inseguire il calcolo infinitesimale, il solo capace di spiegare i paradossi di Zenone. Dal primo piano raccolto da una telecamera, con gli occhi vispi del compagno di banco che aspetta la distrazione del professore per passarti la versione, ti coinvolge con la sua eloquenza affabile e ricca di contenuti. Si parla naturalmente di filosofia, ma con quello stoicismo capace di sacrificare tutte le sue magliette e i suoi maglioni sui generis (sul petto del prof Saudino, infatti, si alternano Hulk, il Golem, Bart Simpson, il teschio con le due sciabole incrociate a mo’ di tibie con il motto “la libertà è sempre un buon bottino”, etc.) per un grammo in più di comprensione dei suoi allievi.
La mia preparazione filosofica scucita dagli strappi dei “ragazzi, se volete seguire la lezione, bene; in caso contrario, fate quello che volete”, irrigidita dalla sempiterna cravatta blu regimental del prof di filosofia del liceo e ancora, immalinconita dalle sue guance lisce come il popò del neonato, ha trovato la sua rivalsa proprio grazie alle lezioni del prof Matteo Saudino.
Basta poco: mi scrollo dal groppone una ventina d’anni e più, mi siedo in un buon banco, mai il primo (per principio ma anche perchè, malgrado sia affascinato dai suoi insegnamenti, caro prof, c’è sempre l’occhio da buttare dietro il collo apollineo della bella della classe…ma lei, con quell’aria malandrina mi capisce, lo so), e provo a orientarmi nell’immaginifico mondo dela filosofia grazie alle sue dritte.
Il mio incontro con il prof Saudino non avrebbe dovuto esserci. Quando poi la sua voce irradiata dal bluethooth della mia auto ferma nel traffico ha fatto da amo per una ragazza di studi classici ardenti desiderosa di rinverdire la sua Nottola di Minerva (astuta filosofia!), ebbene, mi sono sorpreso a sorridere:”Benedetto il giorno che ti ho incontrato –ho istintivamente detto tra me e me– eccellente, ruffiano professore!”

lunedì 25 settembre 2017

"Doppio sogno", di Arthur Schnitzler

"Doppio sogno" è il racconto lungo di A. Schnitzler che ha affascinato e intimorito Sigmund Freud.

Il fondatore della psicoanalisi Sigmund Freud ha esitato a lungo prima di decidersi a incontrare Arthur Schnitzler perché, con il suo "Doppio sogno", lo scrittore austriaco ha portato alla ribalta un inconscio "da lettino psichiatrico" così congeniale a quello da lui vivisezionato per tutta una vita.
Si parte da un ballo in maschera a cui i due protagonisti dell'opera, il dottor Fridolin e sua moglie Albertine, hanno partecipato negli ultimi rantoli di un carnevale che sta lasciando il posto alla primavera.
Si finisce con l'apparizione di un'altra maschera che Albertine, in assenza del marito, ha posto tra sé e il cuscino, quasi a voler simboleggiare il volto del compagno "divenutole enigmatico" per un portato di esperienze a cui lei capisce di essere estranea.
E sì perché "Doppio sogno" è il racconto di un'altra vita, probabilmente del tutto diversa da quella che si trovano a vivere i due protagonisti, se solo avessero deciso, in quel tempo e in quel luogo, di recitare la parte che una persona incontrata per caso, un evento apparentemente innocuo, gli hanno offerto.
Così Fridolin e Albertine iniziano a raccontarsi quello che avrebbe potuto essere e non è stato, lasciando a un certo punto spiazzato il lettore: quegli embrioni di opportunità, quella spes vitae, è uno dei tanti sogni che si stanno confidando o, piuttosto, si tratta di esperienze reali? Ma, soprattutto, dov'è il limite, il confine tra la realtà onirica e le occasioni di cambiamento che si sono lasciate cadere?
Anche la conturbante dama che Fridolin incontra in uno scenario di cospirazione e mistero potrebbe essere la signora che adesso giace nella camera mortuaria. Di una sola cosa è sicuro: questa donna qui all'obitorio, ma anche quell'altra "che aveva cercato, desiderato e forse amato per un'ora", non può rappresentare nient'altro che il "cadavere pallido della notte passata, destinato irrevocabilmente alla decomposizione".
Poco male, però. In "Doppio sogno" c'è il tradimento (solo onirico?) della moglie che confessa al marito di aver riso nel momento in cui Fridolin, per professare la sua fedeltà a Albertine, viene crocifisso. Ora lo stesso Fridolin ha il sacrosanto diritto di vendicarsi, indipendentemente se con un altro sogno in cui appare la donna bella della cospirazione oppure attraverso un'esperienza concreta.
Eppure Fridolin torna, di notte, da Albertine che, innocente come ogni donna suo malgrado custode del peccato originale, attira il marito verso di sé dopo che questi le ha raccontato tutto.
"Ma ora ci siamo svegliati..." disse "per lungo tempo."
Fridolin vorrebbe controbattere con  il più rassicurante "per sempre" ma subito la moglie, intuito il suo volere, lo ferma e sussurra come fra sé:" Non si può ipotecare il futuro".
Frattanto, nella stanza da letto di "Doppio sogno", irrompe la quotidianità appena svegliatasi dal sogno.