venerdì 18 novembre 2016

Il NO del Referendum e il "Mille e non più Mille"

Sia chiaro: al Referendum costituzionale del quattro dicembre, voterò e farò votare, per quel rimasuglio di ascendente che ancora ho su qualche familiare-amico troppo pigro per formarsi un'opinione, No.

Voterò No perché ritengo la riforma introdotta dal Governo (e già solo questo particolare, "introdotta dal Governo", per l'appunto, e non su iniziativa del Parlamento, mi persuaderebbe a votare così) pasticciata, farraginosa e, diciamola tutta, pericolosa per gli equilibri costituzionali.
Matteo Renzi con il suo progetto di riforma, assomiglia tanto a mio zio Ermenegildo che, ignorante di meccanica come il nostro presidente lo è di diritto costituzionale, entrambi convinti, l'uno (mio zio), di riuscire a riassemblare il motore della macchina, l'altro (il premier), di riformare in maniera efficientistica la Magna Chartasi trovano in mano, al termine dell'armeggio, qualche valvola in più e un certo numero di incrostazioni costituzionali in soprannumero.
Senza contare che né il motore né la Carta costituzionale saranno in grado, dopo l'improvvida manomissione, di "funzionare".
Premesso ciò e ribadito il mio No convinto alla riforma, quello che non mi piace, perché lo ritengo addirittura contrario alla stessa causa del No oltreché indice di malafede quando non di ignoranza etimologica , è l'esagerazione, il ricorrere a lemmi (dittatura, colpo di Stato, regime et similia) che hanno il solo scopo di far ammuina, creare allarmismo.
Mille e non più Millesi gridava invasati per le piazze, vaticinando la fine del mondo per l'avvento del millennio. Poi il millennio è arrivato, e si è dovuti prendere atto che tutto continuava più o meno uguale.
Si badi bene, con questo non voglio dire che la vittoria malaugurata del Sì al referendum non cambierebbe niente o, peggio, che sarebbe analoga alla vittoria del NO. Nossignore, non sono un nichilista né un ignavo che trascina la sua vita sanza 'nfamia e sanza lodo nell'aura sanza tempo tinta.
Semplicemente, parafrasando un mai troppo abusato Nanni Moretti, ritengo che le parole siano importanti. E proprio perché ossessionato dalla loro importanza, penso sia giusto parlare un linguaggio di verità.
La vittoria del Sì, provocherebbe numerose storture nell'equilibrio costituzionale, aumenterebbe i conflitti tra le Camere, accentrerebbe il potere nel Capo dell'Esecutivo, e siamo d'accordo. Ma sicuramente non sarebbe corretto parlare di dittatura in caso di sua vittoria, ad esempio, anche per il grandissimo rispetto che dev'essere tributato a chi davvero si è trovato a subirla, la dittatura. Non solo: confrontandomi con molte persone, mi sono fatto l'idea che l'esagerazione, lo sparare alto (terminologicamente e contenutisticamente) magari solo con l'intento di conquistare un No in più, molte volte rende diffidente l'interlocutore che istintivamente pensa: "Possibile che se voto sì viene la fine del mondo? E allora uno come Veltroni, che fa le campagne di sensibilizzazione in Africa, che fa, vuole la dittatura in Italia?"
Al di là dell'ironia, ritengo sia questo il ragionamento che nasce nella testa dell'alluvionato dalle iperboli elettoralistiche che potrebbe, ormai sfiduciato nei confronti del tizio che gli prospetta scenari sì foschi, addirittura votare contrariamente, quasi per dispetto, a quanto raccomandatogli con foga degna di miglior causa.
P.S. Ho parlato delle "nostre" esagerazioni. A quelle del Sì che stanno riesumando lo spread di montiana memoria oltreché minacciando la piova etterna, maladetta, fredda e greve che si abbatterebbe sul suolo italico alla vittoria del No, non val la pena nemmeno accennare.
Insomma, e per concludere, votiamo e facciamo votare No, sempre facendo leva sul buon senso dell'argomentazione e rifuggendo dalle esagerazioni. Ce lo chiedono, innanzitutto, le nostre amate parole.
Le nostre parole sono spesso prive di significato. Ciò accade perché le abbiamo consumate, estenuate, svuotate con un uso eccessivo e soprattutto inconsapevole. Le abbiamo rese bozzoli vuoti. Per raccontare, dobbiamo rigenerare le nostre parole. Dobbiamo restituire loro senso, consistenza, colore, suono, odore. E per fare questo dobbiamo farle a pezzi e poi ricostruirle. (La manomissione delle parole, G. Carofiglio, Rizzoli, 2010)


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