giovedì 15 marzo 2018

"Numero Zero", di Umberto Eco


È una redazione raccogliticcia, un rassemblement di nuove e vecchie disillusioni, quella messa in piedi dal dottor Simei. Missione? Confezionare dodici "numeri zero", uno per ogni mese dell'anno, disposti a dire la verità su tutto. 
Piccolo particolare: il giornale verrà stampato in pochissime copie, quante ne basteranno al commendatore Vimercate, editore di "Domani", per dotarsi di una probabile arma di ricatto.
Secondo il suo convincimento, infatti, sarà sufficiente dimostrare di essere in grado di mettere in difficoltà qualche pezzo grosso, per entrare nel salotto buono della finanza, delle banche e dei grandi giornali.
Ovviamente, l'esperimento riuscirà solo se nessuno, a parte il Commendatore, Simei e Colonna, saprà che il giornale non vedrà mai la luce. Tutti, compresi i collaboratori, dovranno pensare che "le rotative scalpitano."
È un giornale, in soldoni, ricavato dalle notizie pubblicate su altri quotidiani e prontamente dimenticate (tutto si dimentica e sempre più in fretta). 
Il linguaggio dovrà essere quelle dell'uomo qualunque, che parla, per esempio, di "occhio del ciclone" per indicare il centro tumultuoso degli eventi, ignorando che è proprio lì, nell'occhio del ciclone, che c'è l'unico punto di calma perfetta.
E via dunque agli oroscopi, alle notizie che sembrano voler comunicare qualcosa ma che, in realtà, fomentano sospetti e retropensieri.
Colonna, la persona scelta da Simei per dirigere "Domani", è un perdente "compulsivo", abbandonato, a cinquant'anni suonati, sulla via della solitudine dopo pochi anni di matrimonio, che non si è mai laureato perchè sapeva il tedesco.
Potrebbe scrivere un libro, ma il suo continuo rimando a situazione letterarie glielo impedisce.
Un cielo nitido e terso? Nella mente di Colonna scatta subito, fino a non lasciar posto ad altra circonlocuzione, il cielo "da Canaletto." Addio, quindi, originalità, e buonanotte velleità da scrittore!
Poi c'è Maia (rimando al "velo di Maya" di Schopenhauer?), trentenne che è in disaccordo con il mondo perchè nessuno, almeno fino all'incontro con Colonna, riesce ad accordarsi con i tempi illuminanti delle sue intuizioni e dei suoi pensieri.
Tra gli altri personaggi di "Numero Zero", non si può non parlare di Braggadocio la cui mente ha come unico filo conduttore il complotto paranoico. Riesce a concatenare tra loro eventi apparentemente lontani e discordanti ricostruendo, così, una fantasiosa(?) storia di cinquant'anni d'Italia. Il fulcro della narrazione è il sosia di Mussolini (quello esposto in Piazzale Loreto) mentre il vero duce se n'è rimasto tranquillo e beato in Argentina fino al giorno della sua morte: il giorno stesso del fallito colpo di Stato di Junio Valerio Borgese. E poi Gladio, la P2 con il venerabile Gelli, l'assassinio di Papa Luciani, la Cia, le Brigate Rosse infiltrate, e via di questo passo.
Macchina del fango? E come mai un giornalista è stato ucciso? E perchè la trasmissione della BBC sembra dare ai fatti un'aurea di veridicità?
Qual è la verità, quale la menzogna?
Colonna, ormai fattosi persuaso del pericolo di morte imminente, vorrebbe scappare via lontano, in un posto dove anche il Male sia riconoscibile come tale e non nascosto tra le pieghe del perbenismo.
"E perchè andar via, allora?" - gli chiede sarcastica Maia (ed eccolo il velo del filosofo che, ormai squarciato, mostra la nuda verità!): l'Italia sta proprio diventando come il paese di sogno in cui Colonna vorrebbe esiliarsi, la nazione in cui non c'è più memoria. Ergo, - è l'amara conclusione di Maia - è inutile andarsene via.
Sarà, ma io non sento più la voce del personaggio del libro che dice queste cose. Quest'ultima frase, la parte finale del romanzo per chi avrà la bontà di leggerlo, è pronunziata con quello scoramento burbero, proprio del piemontese pronto a risalire in montagna per resistere alla barbarie, del Maestro.
Ancora una volta, Prof, c'ha visto giusto.

venerdì 9 marzo 2018

Se una notte d'inverno uno scrutatore




Eppure avrei dovuto intuirlo.
La mala parata allestiva il suo teatrino di cattivi auspici sul pollo strafocato da Gerardo il venerdì sera. Già, proprio il mio venerdì di passione.
Solo adesso, però, mi ricordo degli auspicia pullaria e del quattro tondo tondo rimediato al ginnasio per avermeli scordati.
Gli auspici che si prendono osservando il modo di mangiare dei gallinacei...
Allora come ora (e avrei dovuto ben capirlo, cazzo!), è proprio il modo di mangiare dei polli che rivela scenari.
Poco importa se, in questo marzo del duemiladiciotto, il mangiare da monitorare per trarre vaticinii non è quello dei polli ma di chi se li mangia, 'sti fetenti di pollastri: occorre avere la mente pronta a raccordare le diverse epoche storiche.
<Non puoi dirmi di no. Lo sai che ho bisogno di questi duecento euro. La provvidenza ("cazzi suoi no, eh?") ha fatto dare forfait al presidente nominato. Ora, in sostituzione, ci sto io. E senza il tuo prezioso aiuto...>
Una lama di luce qui, alla bocca dello stomaco, fa rivivere ustioni: cinque anni fa, segretario del presidente di seggio incarnato (ancora tu? Ma non dovevamo vederci più?) dalla figura dinoccolata di Gerardo Saggese. 
Una catastrofe.
Urlo, strepito, m'invento missioni da portare a termine di persona pirsonalmente.
La foto del figlio a suo carico tra l'appendice del portafogli e il palmo della mano, e capitolo ignominiosamente.
Sabato pomeriggio, giorno di allestimento del seggio.
Il luogo naturale dell'acqua, parafrasando il vecchio Aristotele, diventa la superficie della terra.
Una pietra, franata dal costone roccioso e imboscata sotto il pelo del fiume che scende verso Salerno, per poco non mi distrugge il sottopancia dell'auto.
Io, segretario del presidente, che dovrei coadiuvare una carica almeno consapevole del suo ruolo, intuisco che sono fottuto: quattro scrutatori, com'è di norma, assegnati alla sezione 124: un ragazzo con il braccio, quello buono, ingessato e perciò impossibilitato a scrivere. 
La donna cannone il cui diabete le impedisce di mettere a fuoco tutto lo scritto più piccolo del carattere 14. 
Il Casapound di turno che si catapulta a fare l'unica cosa che sa fare (!): scrivere, su due fogli protocolli, il genere "mascho" e "femina" degli elettori. 
Infine una ragazzina filiforme che, non appena vede più di tre persone che aspettano pazientemente il loro turno, si sente montare l'ansia e deve correre in bagno.
Torno a casa alle 20,15. Appena il tempo di sintonizzarmi su sky sport per la partita del mio Napoli, che mi ritrovo a imprecare contro la sconfitta che potrebbe costarci il campionato.
Alle sette meno un quarto della domenica mattina, sono al seggio. I bisogni del figlio del presidente m'impongono di offrire la colazione (caffè e cornetto) a tutta la squadra di giovani valorosi.
Voto nella sezione che mi ospita per ottimizzare i tempi. Sempre per lo stesso motivo, non salgo nemmeno a casa per mangiare.
Registro gli elettori con l'annotazione, a tempi alternati, in entrambi i registri. 
Compilo tutte le cartuscelle, rigorosamente in duplice copia. 
Tengo testa alle contestazione dei rappresentatnti di lista. 
Assegno e riporto i voti.
A un certo punto, una lacrima s'impicca per la disperazione.
Probabilmente questi 148 € di compenso per il mio tribolato ufficio di segretario, finiranno nella tasca di qualche strizzacervelli: la mia straziante approssimazione, soprattutto nella compilazione finale dei registri ("Che si vuole da me? Che madonna  di conteggio devo riportare, e dove?"), ha aperto una breccia almeno pari a quella di porta Pia nella mia autostima.
Come se non bastasse, Potere al Popolo ha accocchiato poco più dell'uno per cento dei consensi.
"Ma perchè - mi ritrovo a chiedermi alle 7 del giorno dopo, con l'allucinazione che fatica a riconoscermi qui, comatoso, in macchina - per passare la merce sul lettore ottico della cassa del supermercato, mi devo fare un corso con conseguente attestato e invece per decidere il futuro politico del mio Paese, posso tranquillamente non saper fare una beata minchia?"
Lo specchietto retrovisore mi rimanda il saluto riconoscente del Presidente. Incapace, come tutto il resto.