Chiunque ha studiato un po’ di musica, sa che il silenzio, le pause sono l’essenza stessa della musica. Senza le pause, ci sarebbe un continuo sonoro che non genererebbe alcun motivo o melodia.
Eppure siamo portati a identificare il silenzio con la rinuncia, la sottomissione, il chinare la testa. Chi non denuncia un misfatto è vittima e, in molti casi, complice.
Il silenzio è inazione, soccombenza, omertà.
Ci sono, però, dei silenzi diversi.
Minneapolis, USA. Tutti abbiamo negli occhi l’immagine del poliziotto che per nove minuti, mano nella tasca e sguardo del buon padre di famiglia, sta uccidendo un nero.
Da circa tre mesi ci bardiamo con mascherine e guanti per proteggere il nostro respiro dal virus e poi, nella civilissima America, lasciamo impunemente che un poliziotto faccia morire di asfissia un afroamericano.
Fortunatamente c’è stata la diffusione social del video dell’omicidio.
E allora via alle sacrosante proteste in tante nazioni del mondo al grido di “I can’t breathe” (non respiro) e “black lives matter“ (le vite dei neri contano).
Sia chiaro, occorre ribellarsi, e farlo con veemenza, al sopruso. Senza il “no” gridato da chi non ci sta, a volte seguito anche da un’azione ferma e decisa, i diritti non si sarebbero conquistati, le battaglie civili non si sarebbero nemmeno combattute.
Eppure, in alcuni casi, come nella vicenda di George Floyd o di Giulio Regeni, c’è spazio, dopo la denuncia e la lotta, anche per il silenzio. Che non significa rassegnazione, rinuncia o accettazione dello status quo. Nossignore. È un silenzio che sottintende un’avversione così marcata, una delusione a tal punto cocente sulle sorti del mondo, da farci chiamare fuori. Ecco, è il silenzio che ribalta il motto terenziano dell’ Homo sum: humani nihil a me alienum puto (Sono un essere umano: niente di ciò che è umano ritengo estraneo a me). È, in definitiva, il silenzio di Eduardo ne “Le voci di dentro” che capisce finalmente perché zi’ Nicola ha rinunciato a comunicare con i suoi simili, se non sparando petardi che gli varranno il soprannome di “Sparavierzi”.
Sa essere troppo brutto, a volte, l’animo umano per correre il rischio di una comprensione.