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giovedì 11 giugno 2020

Certi fatti e il silenzio di Eduardo


Chiunque ha studiato un po’ di musica, sa che il silenzio, le pause sono l’essenza stessa della musica. Senza le pause, ci sarebbe un continuo sonoro che non genererebbe alcun motivo o melodia.

Eppure siamo portati a identificare il silenzio con la rinuncia, la sottomissione, il chinare la testa. Chi non denuncia un misfatto è vittima e, in molti casi, complice.

Il silenzio è inazione, soccombenza, omertà.

Ci sono, però, dei silenzi diversi.

Minneapolis, USA. Tutti abbiamo negli occhi l’immagine del poliziotto che per nove minuti, mano nella tasca e sguardo del buon padre di famiglia, sta uccidendo un nero.

Da circa tre mesi ci bardiamo con mascherine e guanti per proteggere il nostro respiro dal virus e poi, nella civilissima America, lasciamo impunemente che un poliziotto faccia morire di asfissia un afroamericano.

Fortunatamente c’è stata la diffusione social del video dell’omicidio.

E allora via alle sacrosante proteste in tante nazioni del mondo al grido di “I can’t breathe” (non respiro) e “black lives matter“ (le vite dei neri contano).

Sia chiaro, occorre ribellarsi, e farlo con veemenza, al sopruso. Senza il “no” gridato da chi non ci sta, a volte seguito anche da un’azione ferma e decisa, i diritti non si sarebbero conquistati, le battaglie civili non si sarebbero nemmeno combattute.

Eppure, in alcuni casi, come nella vicenda di George Floyd o di Giulio Regeni, c’è spazio, dopo la denuncia e la lotta, anche per il silenzio. Che non significa rassegnazione, rinuncia o accettazione dello status quo.  Nossignore. È un silenzio che sottintende un’avversione così marcata, una delusione a tal punto cocente sulle sorti del mondo, da farci chiamare fuori. Ecco, è il silenzio che ribalta il motto terenziano dell’ Homo sum: humani nihil a me alienum puto (Sono un essere umano: niente di ciò che è umano ritengo estraneo a me). È, in definitiva, il silenzio di Eduardo ne “Le voci di dentro” che capisce finalmente perché zi’ Nicola ha rinunciato a comunicare con i suoi simili, se non sparando petardi che gli varranno il soprannome di “Sparavierzi”.

Sa essere troppo brutto, a volte, l’animo umano per correre il rischio di una comprensione.

 

venerdì 28 giugno 2019

La giustizia dell'andante con brio


Mi devo mettere la giacca. Non dico la cravatta, ma almeno la giacca.

Mi alzo con questo pensiero, e la prima stilla di sudore mi imperla la fronte. Sono le 8,00: il termometro già staziona ineluttabile sui 30°C.

Fosse stato solo per il giudice di pace, col piffero che mi avreste visto con la giacca: la camicia, ed è più che sufficiente. Solo che alle 12 ho un’altra udienza, stavolta al Tribunale di Nocera, e davanti a un giudice (i giudici di pace sono avvocati), se proprio non la cravatta, almeno la giacca, la devi mettere.

Cammino a passettini, con movimenti felpati, evitando ogni sovraccarico che possa comportare fatica. E quindi sudore.

Saggio la mia affermazione professionale dai tanti sorrisi e saluti che prodigo a destra e a manca prima di entrare nell’aula.

Tanti? Troppi!

Varcata la soglia, infatti, tutti i 4000 e passa avvocati del Consiglio dell’Ordine di Salerno, più i praticanti, più i colleghi «fuori foro», per una concatenazione di eventi (scioperi, rinvii d’ufficio, etc.), hanno udienza qui, stamattina, come me.

Il giudice che ritarda, «nel frattempo vedo se l’altro è già arrivato» (e via con la spola dal piano terra al terzo piano), chiama le parti, trova il fascicolo, piglia il fascicolo, «verbalizza prima tu che sei l’attore», «fammi replicare», «nel frattempo che tu replichi (ma che cazzo tieni da replicare se hai già scritto un papiello esagerato?), vado a vedere a che punto sta l’altro fascicolo (e ancora dal terzo piano al primo).»

Corpi che s’incollano, salive che zampillano, olezzi che assaltano narici, caldo che suda congestione.

Mi fermo. Devo fermarmi. Non devo neppure ribellarmi al collega che, novello Houdini, fa passare la sua causa dal penultimo posto del turno al terzo; né alla collega che sono 18 mesi che è incinta e che, giocoforza, pretende precedenza. E neppure posso rispondere a tono al giudice di pace che approfitta di questa messe di uomini per i suoi «Salvini? Ma io la camera a gas ripristinerei!»

Porto il mio 60% di sudore che sguazza tra muscoli e ossa verso l’auto parcheggiata nel paese di Molto Lontano. Il tempo di entrare nell’abitacolo e dal 60%, per effetto dell’evaporazione, passo al 20%, con seria compromissione delle facoltà cerebrali.

Arrivo a Nocera. Tutti fuori. Allarme bomba.

Tempo una decina di minuti per capire che, alle 12 e 30, ancora non si sa se poi, finito l’allarme lanciato fin dalle 9,00, le udienze si terranno o meno.

Un clacson che impone di sciogliere le righe. Dal polo nord del suo abitacolo nero-fascio: «Colleghi,» si alza una voce stentoreo-populista «ho parlato con il Presidente: potete andare via, niente udienze.»

È il giudice di pace, quello delle camere a gas che, finita l’udienza a Salerno, viene a farne un’altra, di udienza; stavolta a Nocera, nella veste di avvocato: un avvocato che verrà giudicato dai giudici di pace di Nocera che, a loro volta, sono avvocati e che, molto probabilmente, sono stati o saranno giudicati da lui nel ruolo di giudice di pace di Salerno.

Andante con brio.