martedì 28 aprile 2020

Rino e la ballata di Renzo


Immaginate di essere un cantautore. Di quelli del sud che, grazie a canzoni apparentemente disimpegnate, in realtà denunciano le malefatte e il nonsense dell’agire dei mammasantissima. Immaginate, vieppiù, di avere trentuno anni nel lontano 1981, quando ripetere «DC/DC/DC…Cazzaniga» ha assonanze troppo allusive per non urtare qualche suscettibilità.
Ecco, dopo aver immaginato tutto ciò, calatevi nei panni del cantautore di cui sopra che si trova all’acme della popolarità.
Prendete questo artista e mettetelo alla guida di una Volvo, sulla via Nomentana, all’incirca alle tre di notte, dopo una serata passata a fare bisboccia con gli amici.
La velocità sostenuta, un malore (?), un camion sull’altra corsia, l’invasione della corsia opposta non si sa bene se da parte del camionista o dell’automobilista, l’incidente.
Immaginate sempre di essere il cantautore che viaggia sulla Volvo. Immaginate ancora di essere soccorso da un’autoambulanza che avrebbe il dovere di condurvi all’ospedale più vicino. Pensate che, per una singolare ipotesi di scuola, su cinque ospedali interpellati (tra cui il San Camillo, il San Giovanni e il Policlinico), tutti e 5 rifiutino, per diversi motivi, di ricoverarvi.
Voi, cantautore di successo, all’alba morite. Immaginate, infine, che nemmeno le vostre spoglie trovano ricetto nel cimitero cittadino.
Fine dell’esercizio di immedesimazione.
C’è una canzone del cantautore di cui sopra, mai pubblicata in alcun album. La canzone è La ballata di Renzo. In questo pezzo, ovviamente scritto prima della morte del suo autore, Renzo fa un incidente sulla via Nomentana. Lo soccorre un’ambulanza. Tre sono gli ospedali contattati. Nella fattispecie, il San Camillo, il San Giovanni e il Policlinico. Manco a dirlo, nessuno dei tre nosocomi accetterà di prestare le cure a Renzo. Renzo muore. Il suo corpo, canterà la voce graffiante del cantautore in cui avrete avuto la pazienza di immedesimarvi, non troverà posto nel cimitero di Roma.
Il cantautore in questione è Rino Gaetano.
Possibile che l’artista irriverente avesse previsto, con una coincidenza a tratti imbarazzante con il Renzo della sua ballata, la propria morte?
Da quasi trentotto anni, qualcuno pensa che tante convergenze tra la realtà e l’arte concentrate in una sola notte, quella della morte di Rino Gaetano/Renzo, siano troppa roba. Anche per chi rifugge dagli odiati complottismi.
«Vedo già la mia salma portata a spalle da gente che bestemmia che ce l'ha con me.»

sabato 25 aprile 2020

L'editing e la grammatica


Mi sono occupato di editing per una piccola casa editrice. Per chi non lo sapesse, l’editing consiste nella revisione contenutistico-formale di un testo prima della sua pubblicazione.
Non vi nascondo che, dilettandomi anch’io di scrittura, fin dal primo momento mi sono imposto di svolgere questa attività in punta di piedi, in maniera, cioè, quanto meno invasiva possibile. So per certo, infatti, che non è mai piacevole, per uno scrittore, assistere alla «manomissione» del proprio libro da parte di uno sconosciuto. È come presenziare alla violazione del proprio microcosmo letterario.
Consapevole di ciò, ho iniziato umilmente la mia attività. Non che non mi siano pervenuti manoscritti validi, beninteso. Molte storie avevano una trama avvincente, anche un taglio «cinematografico» apprezzabile. Laddove, invece, le braccia ben presto si sono stancate di cadere, è sulla grammatica.
Credetemi, e lo dico davvero preoccupato, ci troviamo di fronte a un’emergenza nazionale: abbiamo disimparato a scrivere, questa è la verità. Sarà l’abuso dei social dove ognuno scrive un po’ come crede, l’aver rimpiazzato quasi del tutto la lettura con le serie televisive, l’aver introiettato il mantra becero-capitalistico del «con la cultura non si mangia»; sarà quel che sarà, ma la nostra grammatica viene vilipesa e violentata a ogni piè sospinto anche da chi dovrebbe avere una conoscenza sintattico-grammaticale un filino più strutturata degli altri. Niente da fare. Tanto che, a un certo punto, quando dalla lettura in ordine sparso di una decina di pagine mi rendevo conto che i cedimenti grammaticali erano costanti e rovinosi, passavo direttamente alla bocciatura del testo; con la morte nel cuore, sia chiaro, perché conosco il sacrificio e le aspettative che si condensano nel manoscritto sottoposto all’attenzione di chi fa editing, ma non potevo fare altrimenti. Sovente, infine, mi sono imbattuto in un’altra degenerazione dei tempi moderni: il cedimento alla paratassi; in altri termini, all’abitudine di scrivere senza le subordinate. Ebbene sì, il presente televisivo, e più ancora quello social, hanno bandito le subordinate. Errore gravissimo «perché se includi una subordinata nel discorso, vuol dire che esiste la causalità, la temporalità e la modalità delle azioni. Che esiste la responsabilità.» (Chiara Valerio) Estrometterle, in buona sostanza, significa sottacere la complessità della natura umana.
In conclusione, grazie a questa mia esperienza, ho capito quanto importante sia impegnarci, ognuno per la parte che gli compete, in una lotta senza quartiere a tutela dell’impalcatura della nostra lingua; con la convinzione che scrivere senza una grammatica accettabile, è come danzare Il lago dei cigni con un braccio legato dietro la schiena e gli scarponi militari ai piedi. Semplicemente, non si può.


giovedì 23 aprile 2020

Il paese dai frutti sull'albero


C’era una volta un paese in cui, non appena un frutto s’adagiava sul ramo o un ortaggio s’inturgidiva al sole, non c’era esitazione che teneva: un esercito di barbari, al costo di qualche moneta al giorno, coglieva l’uno e incassettava l’altro.
Poi venne l’orco con corona virulenta e, sortilegio mefistofelico, immobilizzò le braccia operose: “Ti vuoi spostar per campi? Prego, documento attestante lavoro regolare!”
L’antro della tendopoli di San Ferdinando, allora, si richiuse sconfortata, in attesa che qualcuno trovasse l’ “apriti-sesamo” liberatore. E i cinquecento e passa ospiti della baraccopoli (soluzione temporanea per un bisogno permanente) rimasero lì, a piluccarsi il grappolo della quarantena: 8 persone per ogni straccio di plastica blu, per una decina di bagni complessivi.
Frattanto i frutti, ormai rubizzi, se ne stavano in panciolle a ciondolar dal ramo; gli ortaggi, per non esser da meno, si stravaccavano, corpulenti e satolli, all’ombra del solco.
Il contadino, solo e derelitto, già mortificato da un obolo da sempre devoto ad altre tasche, infiacchiva le membra per l’inane sforzo.
L’imprenditore, dal canto suo, starnazzava soluzioni, bestemmiava l’inerzia che avrebbe trasformato ogni terreno arricchito dal “mover de le frondi e di verzure”, nello “scatolone di sabbia” di salveminiana memoria.
Il PIL, l’economia, il debito pubblico: il governante, allarmato da presagi di sventura e maledicendosi per la protezione umanitaria cancellata, si spremeva le meningi ministeriali.
Un accordo con la Romania per far arrivare braccianti dall’Est?
Ottimo, così si sarebbero evitati anche i lavoratori extracomunitari con i loro problemi da permesso.
Prima che l’apprendista malaccorto, ringalluzzito dalla trovata geniale, si approssimasse all’antro per liberare i lavoratori, lo stregone obiettò: “Bravo, bene ma...gli stagionali non arrivano, per la maggior parte, da Marocco, India, Pakistan?”
E ancora, urticante come l’Uriah Heep di Dickens, il mago s’interrogava: “E poi, chi si farebbe carico del loro sostentamento per i 15 giorni di quarantena obbligatoria all’ingresso in Italia?”
All’improvviso, una ventata lusitana: la regolarizzazione degli immigrati in attesa del permesso di soggiorno.
La trovata portoghese, però, sembrò da subito troppo ardita e oltremodo scostumata per le costumate usanze italiche.
C’era una volta un paese in cui, mentre le intelligenze manageriali s’impiccavano a un manipolo di neuroni, i frutti e gli ortaggi se la scialavano a contaminare la terra di polpa e di vitamine, bastevoli a sé stessi e alla rigenerazione della natura. Frattanto, lo spettro della lattuga a 10 euro turbava le notti insonni dei sudditi.
In tutto questo, i braccianti ammassati nell’antro?
Non pervenuti, liberi di estinguersi per contagio in una spicciolata di metri quadri.
E vissero tutti famelici e marcescenti.


giovedì 16 aprile 2020

È colpa mia


Certo, la colpa è mia, se la quarantena da Covid-19 dovrò scontarla in un basso di 40 mq, se convivono con me una mamma demente e una sorella tossica.
Sicuramente è colpa mia, se l’umidità che stagna sulle pareti mi imputridisce il cuore, se i vaneggiamenti di mammà non zittiscono il collasso delle vene di Flavia che elemosinano dannazione.
Senza dubbio è colpa mia, se quando scoprii che il diploma a pieni voti bastava a  legittimare l’acquisto di terreni da imbottire di munnezza, me ne spogliai inorridito; se quando Amìn ci lasciò la vita nel solco di pomodori a 11 ore al giorno, denunciai il bastardo e persi il lavoro.
Ovviamente è colpa mia, quando avrei voluto iscrivermi all’università, ma papà aveva bisogno di braccia da sacrificare alle zolle ereditate; quando, quel giorno di maggio, il cuore di mio padre si fermò appena dopo l’ingente prestito ottenuto dal cravattaro.
Colpa mia di sicuro, quando la giustizia del capitale purchessia ci spogliò della nostra casa che trasudava sangue e rinunce; quando, dopo l’ennesima notte persa nelle derive del bisogno, Flavia presentò il conto del primo buco.
Indubitabilmente colpa mia, quando i cortocircuiti dell’esistenza ingolfarono la mente di mammà; quando la mia Marta, dopo una notte d’amore in cui la sentivo piangere e gemere, mi disse che no, non ce la faceva più, e che sarebbe andata via per sempre.
Evidentemente colpa mia, per aver avuto, per troppo tempo, due soli libri in tutta la casa, un simulacro di bibbia e un estratto de “Piccole donne crescono”; per aver dovuto scegliere l’istituto tecnico quando avevo una smania smisurata di perdermi nelle lettere del Classico.
Colpa mia tutta la vita, per essere nato da Gioacchino il lustrascarpe e da Annamaria Pezzella, fu Mariassunta la portinaia e padre ignoto.
Anzi, adesso che ci penso, incontrovertibilmente colpa mia per essere nato e basta: se non fossi venuto al mondo, infatti ora, all’ascoltare gli inviti a restare a casa dalle profondità rassicuranti dell’ennesima villa con giardino, potrei addirittura sorridere. Forse, sforzandomi al massimo, ce la farei anche a condannare chi proprio non ne vuole sapere di rimanere tappato in casa, mettendo a repentaglio la sicurezza di tutti…voi.
Solo e unicamente colpa mia infine se, nonostante la mia vita strozzata dai fallimenti, continuo a non ritenermi sfortunato perché…c’è sempre qualche ultimo che è più ultimo di me.



   

venerdì 10 aprile 2020

Il crespuscolo della vicinanza


Quando ha deciso di migliorarsi, l’uomo si è avvicinato al suo simile. Nel momento in cui, invece, si è rannicchiato nel proprio egoismo, ha smesso di progredire nella sua crescita socio-politica. E ciò è tanto più vero quanto più flebile è la forza che quest’uomo isolato può opporre al sopruso del potente di turno.
Subito dopo il Mille, per scardinare il sistema feudale che mortificava il suo anelito di rivalsa, l’uomo medievale ha dato vita all’ “adunanza dei vicini”: un’assemblea, cioè, in cui più persone si riunivano sul sagrato di una chiesa, attorno a un olmo, per contarsi e provare a fare massa critica. Così comportandosi, gli uomini di buona volontà hanno dato vita al primo istituto della democrazia comunale.
La storia successiva, fino ai giorni nostri, è stata un continuo “mettersi insieme” per guadagnare maggiore peso contrattuale, tanto da assorbire questa socialità nelle fibre più profonde dell’anima.
Ci si avvicina perché si è coscienti di non bastare a se stessi. Questo, almeno fino a ieri.
Se un effetto secondario, infatti, la pandemia da covid-19 ha generato, è stato sicuramente quello di allontanarci dal nostro simile.
Ieri mattina, ad esempio, mentre seguivo le traiettorie di una lucertola che si beava alle prime avvisaglie di sole, all’improvviso mi sono bloccato: con lo sguardo basso, non mi ero accorto di essermi avvicinato a un’altra persona che, a sua volta, era troppo occupata in una conversazione telefonica per badare a me. Quando ci siamo sorpresi a valutare eccessivamente striminzita la nostra distanza, entrambi abbiamo fatto un salto indietro e, pur conoscendoci da una vita, ci siamo congedati con un saluto appena abbozzato. Tutti e due, una volta a casa, abbiamo tremato di quella rapidissima e pur paralizzante contiguità. E questa paura del contatto, a ben vedere, la si prova anche nei casi in cui è la natura stessa che imporrebbe una vicinanza al limite della compenetrazione: è ormai risaputo che nella sala parto, di questi tempi, i padri non possano accedere. Il primo contatto con l’esserino bramato per nove mesi, quindi, non può che essere mediato dai pixel del cellulare.
Una volta squarciato il velo di questa pestifera costrizione, avremo un vuoto di vicinanza da colmare. Per noi stessi, e per le conquiste che ancora ci attendono sul percorso accidentato della vita.
A patto di esserne ancora capaci, s’intende.