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giovedì 23 aprile 2020

Il paese dai frutti sull'albero


C’era una volta un paese in cui, non appena un frutto s’adagiava sul ramo o un ortaggio s’inturgidiva al sole, non c’era esitazione che teneva: un esercito di barbari, al costo di qualche moneta al giorno, coglieva l’uno e incassettava l’altro.
Poi venne l’orco con corona virulenta e, sortilegio mefistofelico, immobilizzò le braccia operose: “Ti vuoi spostar per campi? Prego, documento attestante lavoro regolare!”
L’antro della tendopoli di San Ferdinando, allora, si richiuse sconfortata, in attesa che qualcuno trovasse l’ “apriti-sesamo” liberatore. E i cinquecento e passa ospiti della baraccopoli (soluzione temporanea per un bisogno permanente) rimasero lì, a piluccarsi il grappolo della quarantena: 8 persone per ogni straccio di plastica blu, per una decina di bagni complessivi.
Frattanto i frutti, ormai rubizzi, se ne stavano in panciolle a ciondolar dal ramo; gli ortaggi, per non esser da meno, si stravaccavano, corpulenti e satolli, all’ombra del solco.
Il contadino, solo e derelitto, già mortificato da un obolo da sempre devoto ad altre tasche, infiacchiva le membra per l’inane sforzo.
L’imprenditore, dal canto suo, starnazzava soluzioni, bestemmiava l’inerzia che avrebbe trasformato ogni terreno arricchito dal “mover de le frondi e di verzure”, nello “scatolone di sabbia” di salveminiana memoria.
Il PIL, l’economia, il debito pubblico: il governante, allarmato da presagi di sventura e maledicendosi per la protezione umanitaria cancellata, si spremeva le meningi ministeriali.
Un accordo con la Romania per far arrivare braccianti dall’Est?
Ottimo, così si sarebbero evitati anche i lavoratori extracomunitari con i loro problemi da permesso.
Prima che l’apprendista malaccorto, ringalluzzito dalla trovata geniale, si approssimasse all’antro per liberare i lavoratori, lo stregone obiettò: “Bravo, bene ma...gli stagionali non arrivano, per la maggior parte, da Marocco, India, Pakistan?”
E ancora, urticante come l’Uriah Heep di Dickens, il mago s’interrogava: “E poi, chi si farebbe carico del loro sostentamento per i 15 giorni di quarantena obbligatoria all’ingresso in Italia?”
All’improvviso, una ventata lusitana: la regolarizzazione degli immigrati in attesa del permesso di soggiorno.
La trovata portoghese, però, sembrò da subito troppo ardita e oltremodo scostumata per le costumate usanze italiche.
C’era una volta un paese in cui, mentre le intelligenze manageriali s’impiccavano a un manipolo di neuroni, i frutti e gli ortaggi se la scialavano a contaminare la terra di polpa e di vitamine, bastevoli a sé stessi e alla rigenerazione della natura. Frattanto, lo spettro della lattuga a 10 euro turbava le notti insonni dei sudditi.
In tutto questo, i braccianti ammassati nell’antro?
Non pervenuti, liberi di estinguersi per contagio in una spicciolata di metri quadri.
E vissero tutti famelici e marcescenti.


giovedì 16 aprile 2020

È colpa mia


Certo, la colpa è mia, se la quarantena da Covid-19 dovrò scontarla in un basso di 40 mq, se convivono con me una mamma demente e una sorella tossica.
Sicuramente è colpa mia, se l’umidità che stagna sulle pareti mi imputridisce il cuore, se i vaneggiamenti di mammà non zittiscono il collasso delle vene di Flavia che elemosinano dannazione.
Senza dubbio è colpa mia, se quando scoprii che il diploma a pieni voti bastava a  legittimare l’acquisto di terreni da imbottire di munnezza, me ne spogliai inorridito; se quando Amìn ci lasciò la vita nel solco di pomodori a 11 ore al giorno, denunciai il bastardo e persi il lavoro.
Ovviamente è colpa mia, quando avrei voluto iscrivermi all’università, ma papà aveva bisogno di braccia da sacrificare alle zolle ereditate; quando, quel giorno di maggio, il cuore di mio padre si fermò appena dopo l’ingente prestito ottenuto dal cravattaro.
Colpa mia di sicuro, quando la giustizia del capitale purchessia ci spogliò della nostra casa che trasudava sangue e rinunce; quando, dopo l’ennesima notte persa nelle derive del bisogno, Flavia presentò il conto del primo buco.
Indubitabilmente colpa mia, quando i cortocircuiti dell’esistenza ingolfarono la mente di mammà; quando la mia Marta, dopo una notte d’amore in cui la sentivo piangere e gemere, mi disse che no, non ce la faceva più, e che sarebbe andata via per sempre.
Evidentemente colpa mia, per aver avuto, per troppo tempo, due soli libri in tutta la casa, un simulacro di bibbia e un estratto de “Piccole donne crescono”; per aver dovuto scegliere l’istituto tecnico quando avevo una smania smisurata di perdermi nelle lettere del Classico.
Colpa mia tutta la vita, per essere nato da Gioacchino il lustrascarpe e da Annamaria Pezzella, fu Mariassunta la portinaia e padre ignoto.
Anzi, adesso che ci penso, incontrovertibilmente colpa mia per essere nato e basta: se non fossi venuto al mondo, infatti ora, all’ascoltare gli inviti a restare a casa dalle profondità rassicuranti dell’ennesima villa con giardino, potrei addirittura sorridere. Forse, sforzandomi al massimo, ce la farei anche a condannare chi proprio non ne vuole sapere di rimanere tappato in casa, mettendo a repentaglio la sicurezza di tutti…voi.
Solo e unicamente colpa mia infine se, nonostante la mia vita strozzata dai fallimenti, continuo a non ritenermi sfortunato perché…c’è sempre qualche ultimo che è più ultimo di me.



   

mercoledì 8 aprile 2020

Merluzzo cosmopolita


È l’ultima confezione rimasta. Mi guardo intorno con occhi furtivi. L’aprire il portello del bancone frigo e l’impossessarmene, è tutt’uno.
Eccola finalmente nel mio carrello, la scatola di filetti di merluzzo.
Soddisfatto, m’avvio alle casse. Alzo la testa: decine di carrelli inchiavardati su centinaia di consumatori, migliaia di acquisti che strabordano dalle buste del supermercato. Una scena apocalittica.
Riprendo in mano la mia confezione di filetti di merluzzo; in qualche modo, dovrò pure ingannare l’attesa.
Leggo. «Prodotto pescato in Norvegia». Sorrido all’immagine del ridente merluzzo che solca i limpidi mari del nord. Al rigo di sotto, «Prodotto importato dalla Cina»
Panico. Il merluzzo di cui sopra smette di ridere.
Cioè, fatemi capire, pescato in Norvegia, lavorato in Cina e consumato in Italia?
Prendo il cellulare, allarmato. Digito su google «dalla Norvegia alla Cina». Memorizzo. E poi «dalla Cina all’Italia». Rimemorizzo. Sommo le due distanze: più di 30.000 km!
Follia! Eppure, c’è del metodo in questa follia.
Il merluzzo, dopo essere stato pescato in Norvegia, viene spedito nelle fabbriche cinesi per essere sfilettato. Motivo: il costo di manodopera enormemente più basso. Ma vi è di più. I malcapitati filetti, infatti, vengono sottoposti ai cc.dd. «bagni d’acqua»: iniezioni di acqua, cioè, utili ad aumentarne il volume e a farli vendere, perché più pesanti, a un prezzo maggiore. Dulcis in fundo, i martoriati merluzzi sono spesso trattati con l’E-451, un trifosfato pentasodico che serve a prevenire il processo di ossidazione. Manco a dirlo, l’impiego di ‘sta sostanza è sì legale nell’Ue, ma solo entro certi limiti e rispettando rigide regole.
Se a tutto questo aggiungiamo pure gli effetti nefasti della pesca industriale e dell’acquacoltura intensiva sui merluzzi (esseri senzienti, per parere unanime della scienza), le tinte fosche del quadro sono tutte sulla tela.
Sono rimasto io, un paio di carrelli con cinque persone, e la mia confezione di filetti di merluzzo in mano.
I continui bip del passaggio della merce, finalmente si arrestano; segno inequivocabile che il carrello della famiglia Mulino Bianco si è svuotato.
È quasi arrivato il mio turno. Titubante, guadagno qualche metro verso la cassa. I miei occhi delusi ricadono di nuovo sul retro della confezione. Meglio non pensarci. Giro la scatola: tre merluzzi scintillanti galoppano, controcorrente, sulle rapide di una cascata. Sotto di loro, una dicitura: «pesce freschissimo.»
«Ma vafancul, va!»
Un paio di secondi. Un lancio fulmineo della confezione oltre il reparto salumeria.
La commessa passa il mio barattolo di nutella, il mio chilo di pasta, i miei cento grammi di cotto, la mia tavoletta di cioccolato fondente all’80%.
«Una busta?» E il suo sorriso stanco è quello del lavoratore assunto in Italia, formato in Norvegia, pagato in Cina.

giovedì 12 marzo 2020

L'assunzione e l'esempio di Troisi


A volte basterebbe un nonnulla per trasformare una legittima aspirazione personale in una battaglia (sindacale, politica, generazionale) collettiva.
Come sappiamo, una delle tre ricercatrici che hanno isolato il coronavirus, Francesca Colavita, per la “vocazione per la ricerca” e per la “lodevole attività professionale”, è stata finalmente premiata: da vergognosa precaria a meritevole “effettiva” allo Spallanzani di Roma.
Tutto giusto, per carità. Immaginiamo però per un attimo, un attimo solo, che la ricercatrice Colavita avesse reagito diversamente all’assunzione propostale; qualcosa del tipo: “Sono lusingata, ma la mia coscienza m’impone, mio malgrado, di rifiutare. La ricerca è stata portata avanti da tre dottoresse rigorosamente precarie: o ci assumete tutte con contratto a tempo indeterminato oppure…”
Come dite? Una cosa del genere si vede solo nei film o si legge esclusivamente in qualche feuilleton d’infima categoria? Eppure io vi dico che vi sbagliate di grosso.
Nel 1978, un allampanato Massimo Troisi fu avvicinato da alcuni funzionari della Rai. Gli proposero di farlo debuttare in televisione, nello specifico all’interno del programma che avrebbe costituito la fucina per eccellenza della comicità italiana: “No Stop”. A una sola condizione, però: che fosse disposto, senza colpo ferire, ad abbandonare i suoi amici d’infanzia nonché colleghi Enzo De Caro e Lello Arena.
Un dirigente Rai presente alla scena ha sempre dichiarato che la reazione di Massimo fu di una naturalezza sconvolgente: “Cioè io solo senza i miei compagni? No, io vi ringrazio, ma…nun se n’parla proprio. O tutt’e tre, o nisciuno.”
Morale della favola, il trio “La Smorfia” è stata una delle novità più originali, belle e seguite mai apparse in televisione.
Tornando alla nostra vicenda d’attualità, c’è da rilevare anche un altro aspetto: probabilmente, se la dottoressa Colavita si fosse comportata come il rimpianto Massimino, in ogni caso ne sarebbe uscita vittoriosa: se fosse stata assunta insieme alle altre colleghe, infatti, avrebbe lottato e vinto per sé e per le altre, oltre a ricavarne una pubblicità (positiva) di enorme valore; se, viceversa, i dirigenti dello Spallanzani fossero rimasti fermi nel loro aut aut, al momento sarebbe ancora precaria ma il polverone (anche mediatico) che si sarebbe alzato, avrebbe indotto qualche altro prestigioso istituto di ricerca ad assumere lei e pure le altre tre colleghe.
A volte occorrerebbe prendere le distanze dal proprio “particulare” per riportare una vittoria che trasudi riscatto.

sabato 14 dicembre 2019

Amazon, la vicina e la gatta

È la quarta, indebita citofonata di questa settimana. E sì perché la fretta dell’omino delle consegne è sempre troppa: due, tre secondi non si possono perdere per leggere il nominativo giusto cui citofonare.

Ci sono due pulsanti, uno sopra e l’altro sotto, e tanto vale schiacciarli entrambi contemporaneamente: il destinatario della consegna verrà comunque a ritirare il pacco.

Poco importa che quel destinatario non sarò mai io ma unicamente la mia vicina di casa.

Sempre lo stesso siparietto. La doppia citofonata imperiosa. Lo sguardo allarmato all’orologio da parte del corriere un secondo dopo il «c’è un pacco per la signora…». La sua mano libera che tamburella spazientita sulle grate del cancello. L’attimo di sollievo quando la cliente si appalesa. Il risolino tra il soddisfatto e il bramoso di possesso della vicina di casa. Il lancio del pacco con contestuale penna per firmare la ricevuta. Una smorfia di disapprovazione non appena la firma richiede più di due secondi per essere apposta. Il zompo dell’omino nel furgone vecchio quanto il crucco. La partenza a razzo. Il fumo zavorrato dalle particelle inquinanti.

Altro giro, altra corsa, necessariamente in ritardo sulla tabella di marcia del consumismo.

Stavolta, però, il rituale ha subito una spiacevole variante.

Nella foga di scappare via incontro all’ennesimo bisogno compulsivo d’acquisto, il furgone si è trovato a tu per tu con la colonia di gatti del condominio.

L’Inps (così soprannominato perché fin da piccolo ha sempre avuto qualche acciacco), Ipazia (gatta nera che richiama le fiamme del rogo sul quale fu immolata la brillante, omonima matematica) e gli altri felini della combriccola, hanno schivato il furgone alienato.

Amazzone, che poi è la micia preferita dalla mia vicina, pure, ma mentre si cimentava in un triplo avvitamento per scansare il copertone invasato, è finita contro una ringhiera, procurandosi qualche leggera ammaccatura.

Mi sono precipitato a prestarle soccorso.

Quando ho spiegato alla mia vicina che Amazzone era stata vittima di…Amazon, mi ha giurato che non avrebbe fatto più acquisti on-line.

Proprio oggi, però, a distanza di un paio di settimane dall’incidente che ha coinvolto la sua amata gattina, un altro omino delle consegne ha ripreso a schiacciare entrambi i pulsanti del citofono, ovviamente all’unisono.

Amazon ha sconfitto, nell’ordine: le imprecazioni del papà della mia vicina contro gli acquisti on-line che gli avrebbero fatto chiudere bottega; la sua partecipazione ai venerdì del Friday For Future che, tra l’altro, imporrebbero una limitazione negli spostamenti delle merci; la paura che, dopo la povera Amazzone, qualche altro gatto potesse essere asfaltato dalle ruote del cabinato delle consegne.

Amazon omnia vincit.