Diciassette metalli,
diciassette fottutissimi metalli.
Fino a un centinaio d’anni fa,
erano praticamente sconosciuti. Poi la loro scoperta e
un nome atto a qualificarli: «terre
rare».
«Terre», perché così si chiamavano,
nel XVIII e XIX secolo, i minerali che non
potevano essere modificati
dalle fonti di calore; «rare», per la bassa concentrazione
(normalmente meno del 5%) dei
loro depositi.
Perché mi è venuto lo
schiribizzo di parlare di questi minerali dai nomi impossibili
(scandio, lantanio, ittrio,
praseodimio, etc.)? Semplice, perché oggi è praticamente
impossibile che un componente
tecnologico nei campi più disparati (cellulari, computer,
cavi di fibra ottica, energia
nucleare, aerospazio e difesa, acciaio,
automobili elettriche) non sia
costituito da una percentuale più o meno importante di
terre rare.
Per capire meglio la
pervasività di questi metalli, portiamo l’esempio dell’automobile:
ebbene, le dozzine di motori
elettrici di un’auto tipica, i suoi diffusori audio, i suoi
sensori elettrici, il
convertitore catalitico, i fosfori degli schermi ottici, il parabrezza,
gli specchi, le lenti e gli
altri componenti di vetro, perfino la benzina o il gasolio
(raffinati con catalizzatori di
cracking con lantanio e cerio) contengono o sono trattati
con preziosissime terre rare.
Tutto bene (da qualcosa, il
nostro sistema produttivo deve pur dipendere, non vi
pare?) se non fosse che le
terre rare sono estraibili solo con manovre altamente
inquinanti e che oltre il 90%
delle terre rare utilizzate nel mondo provengono dalla
Cina. In soldoni ciò significa,
nell’ordine: a) che stante la fame insaziabile della nostra
società di prodotti soprattutto
hi-tech composti da questi metalli, l’inquinamento da
estrazione aumenterà sempre di
più; b) che se le terre rare vengono estratte
praticamente in un solo Paese
(Cina), presto o tardi il mondo si troverà a dipendere,
economicamente e non solo, da
quel Paese.
Ma vi è di più. Si conoscono
bene le condizioni di lavoro degli uomini e dei bambini
che ogni giorno estraggono,
schiacciati in cunicoli scuri e nauseabondi, i minerali
indispensabili per il display
touch del nostro cellulare; quello stesso cellulare che così
frequentemente cambiamo, irretiti
dalle novità del mercato e dai diktat rapsodici del
consumismo.
A guardarli bene, questi uomini
e bambini non sono altro che schiavi, pedine di un
sistema congegnato per
raggiungere due obiettivi: il benessere del consumatore e il
profitto dell’impresa.
Si tratta, citando il sempre
(troppo) attuale Marx, di un «esercito di riserva»:
manodopera, cioè, facilmente
sostituibile anche per la scarsa specializzazione di cui è
connaturata; lavoratori,
quindi, condannati allo sfruttamento più bieco e a una
miseria insopportabile, come lo
è sempre quella che permane nonostante la fatica
profusa.
Triplice ordine di problemi, in
conclusione: geopolitico (con il monopolio di Pechino
nella estrazione delle terre
rare), ambientale e delle condizioni di lavoro: questo è il
portato dei diciassette
metalli, per altri versi, importantissimo.
Soluzioni? Tornando al
cellulare, basterebbe avere il coraggio di capire che
quell’insignificante graffio
sul display non ci obbliga a comprare un telefonino nuovo.
Comportamento rivoluzionario,
questo, nel presente monopolizzato dal Black Friday
perenne.