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mercoledì 7 dicembre 2022

Bellano a due passi da Vigata

 


Bellano, comune (reale) della provincia di Lecco, sponda orientale del lago di Como, profondo Nord.
Vigata, città (immaginaria) che si sfalda nel mare, sicuramente sicula, estremo Sud.
Come dire alfa e omega, il bianco e il nero. Eppure…eppure due scrittori si sono messi di buzzo buono e hanno costruito un ponte tra queste due località geograficamente agli antipodi. Con esiti, vedremo, sorprendenti.
Del maestro Camilleri, manco a parlarne. Per precetto biblico infatti, guai a nominare il nome di Dio invano, si sa.
Per quanto riguarda Andrea Vitali invece, parliamone, e anche tanto: medico condotto proprio a Bellano, per ironia della sorte si accorge ben presto di saper scrivere, e pure bene. Prima, però, di animare i polpastrelli e disperdere inchiostro su carta alla come viene viene, capisce che deve mettersi in ascolto. Di chi? O bella, dei mille e passa mutuati che ogni giorno, tra una ricetta medica e un dolorino che proprio non ne vuole sapere di passare, affollano il suo ambulatorio.
Sono voci del popolino, pettogolezzi delle comari, “non detti” di prevosti e confessionali, la placenta feconda che nutre la sua arte. A Bellano quindi, così come nella celeberrima Vigata.
Anche nella cittadina lecchese il movimento delle onde (del lago, beninteso, ma sempre di elemento acquoso si tratta) sembra cullare le ansie, i ritrovamenti e gli smarrimenti del popolino che si azzuffa, si fronteggia, si perdona, puntualmente invischiato in un sorriso di pregevole fattura.
Pure a Bellano le forze dell’ordine, nella fattispecie i carabinieri, spesso la fanno da padrona: certo, qui non c’è il baffuto commissario Montalbano (ben presto divenuto, nella trasposizione cinematografica, più o meno glabro e praticamente calvo) ma c’è il prolifico maresciallo Ernesto Maccadò, coadiuvato dal brigadiere Efisio Mannu e dall’appuntato Misfatti: sottoposti, questi ultimi, che proprio non si possono soffrire.
Financo i giorni torridi sembrano irradiare, pur alle opposte latitudini, zaffate di calore similari che tramortiscono i sensi. Simili, ok, ma non al punto da annullare le differenze tra i due scrittori che pur ci sono. Per esempio tra il vigatese pressochè inventato dal Maestro e l’italiano, per quanto spesso contaminato da una divertita territorialità, comunque ordinario; nella diversa concezione delle cose sacre, laddove per Camilleri la religione ha sempre un retrogusto di ipocrisia e negatività (“Monaci e parrini/sentici la missa/e stòccaci li rini”) mentre per il buon Vitali la Chiesa, con le sue ineffabili perpetue e i suoi risoluti parroci, fornisce spunti molto spesso costruttivi e decisivi per le varie vicende che si dipanano.
Un’altra differenza importante è che le storie dello scrittore lombardo sono ambientate esclusivamente negli anni '20 e '30  del secolo scorso (in pieno fascismo, quindi, che il buon Vitali non manca di scimmiottare).
Poi, a voler spaccare il capello in quattro, ci sarebbero i riferimenti letterari per il genio di Porto Empedocle e la frequente terminologia medica adoperata nelle pagine del Vitali; come anche la simpaticissima fissa di quest’ultimo per nomi del tutto desueti.
Per concludere, leggendo il Vitali, molto spesso mi trovo catapultato in quelle atmosfere fatte di piccole delazioni, di frasi smozzicate, di pettegolezzi alla buona, tipiche di un substrato meridionale.
Ma non è che, sotto sotto, il bellanese Andrea Vitali abbia qualche ascendenza terrona? E in effetti, se si pensa che il brigadiere Maccadò è calabrese mentre il Mannu e il Misfatti sono rispettivamente sardo e siciliano…
Com’è che stiano le cose tra Bellano e Vigata e i due Andrea (altra coincidenza!), che meraviglia le insolite corrispondenze della letteratura di qualità!

 

martedì 6 dicembre 2022

La ferocia dello Strega



Non c’è tregua, nessuna redenzione. È un gorgo pestilenziale, una cloaca che alimenta squittii e occhi rossi. E non è un caso che topi intossicati da miasmi e reflui industriali fanno capolino più volte in questo libro.

Siamo in Puglia. Vittorio Salvemini è il più scontato dei palazzinari. Dal niente, con spregiudicatezza e spirito della fiera, mette su un impero. Ci sono ostacoli da rimuovere, persone da persuadere, scorie da smaltire. D’altronde, ogni uomo ha un prezzo, tutte le idee possono essere addomesticate. E Vittorio fa tutto questo, senza accorgersi delle tossine che i corpi a lui più vicino, quelli cementizi del complesso turistico di Porto Allegro e quelli viscerali dei suoi figli, accumulano oltre la soglia di tolleranza. Per i primi, c’è il sequestro conservativo che è necessario scongiurare, per i secondi il Minotauro dell’ambizione che esige il suo tributo di carne e sangue: Clara, la tormentata Clara, che nel momento in cui ha preso coscienza dell’emarginazione di Michele da parte della famiglia, si è lasciata andare. Tradimenti continui, cocaina, rapporti equivoci. Fino a quando, nutrita di quelle botte che a volte il sesso malato esige, non viene scorta, nuda e sanguinante, sulla statale Bari-Taranto. L’impatto. La morte. Che non può essere quella che appare. E allora, via al caravanserraglio di perizie addomesticate, di certificati farlocchi, di un suicidio che rimetterebbe tutto a posto.

Ma c’è Michele: il fratellastro di Clara, il figlio di Vittorio e di una scappatella che non ha mai chiesto niente. Che, nel risolvere i problemi di geometria, si fermava sempre a metà del compito perché perseguiva nuove strade per arrivare alla stessa conclusione. Michele che, a un certo punto, vive in simbiosi con Clara e che, all’improvviso, lo troviamo a parlare da solo davanti a una piantina della serra. Impazzisce, Michele. Poi sembra rinsavire, ma non perde mai il filo che lo lega alla sorella oltraggiata.

Dopo la morte di Clara, spetta a lui rendersi esecutore testamentario delle sue volontà. È Michele che rovista nel marcio della famiglia e degli affari, ma sono Michele e Clara, entrambi carne morta nutrita dal fallimento della stessa esistenza, a portare alla luce la verità.

Il giudice per le indagini preliminari rigetta la richiesta di sequestro di Porto Allegro. La famiglia Salvemini tira un respiro di sollievo. Si prepara a riprendere la vita di sempre, quell’esistenza apparecchiata sulle membra vilipese della derelitta Clara.

Michele è lì, acquattato appena ai margini del ritorno ai fasti di un tempo. Sorride, perché sa che proprio lui, il più improbabile dei vendicatori, ha il detonatore per far deflagrare tutto. Ormai è chiaro, solo ricacciando la bestia famelica nelle fogne da cui la ferocia l’ha evocata, due vite, quella finita di Clara e l’altra disadattata di Michele, potranno continuare ad avere un senso.

“Corri in una piazza piena di colombi e li vedrai volare. Trovami il colombo che non vola”.

Ecco, Michele e Clara, al di qua e al di là delle rispettive esistenze, hanno smesso di volare.

 

  

giovedì 4 marzo 2021

L'ingegnera che sapeva scrivere

 


«No, Vince’, non è proprio possibile. Io domattina, la prima cosa che faccio, è chiederglielo.»

Il “domattina” per telefono è diventato l’“oggi” dell’udienza.

Provo a dissuaderlo per l’ultima volta, ripetendogli come non ci sia scritto da nessuna parte che un ingegnere non possa saper scrivere bene in italiano.

«Ancora, Vince’? Da che mondo è mondo,» - precisa uno stizzito Gaetano - «gli ingegneri, i chimici…sì, insomma, tutti i tecnici, fanno a cazzotti con la grammatica e la sintassi un giorno sì e l’altro e l’altro pure; a meno che…Ingegnere, mi scusi» - il tecnico in questione, nonostante la mascherina che le lascia una fisiologica zona d’ombra sul volto, si rivela di una conturbante avvenenza.

«…» - deglutisce Gaetano, provando ad approntare una qualche difesa a quella che mi appare fin da subito come “un cavallo, un gatto, un'ondata di mare nordico al sole”.

«Ingegnera, prego. Mi dica, avvocato.»

La baldanza di un minuto prima del mio amico-collega si aggroviglia, smarrendosi, nei riccioli neri dell’ingenera.

«No, mi chiedevo…e anche l’avvocato, qui…» - pavido, m’affretto a far oscillare il capo a destra e a sinistra come il miglior pendolo svizzero - «se lei non avesse frequentato il liceo classico prima della laurea in ingegneria. Sa, scrive davvero bene, e quindi…»

L’ingegnera ci guarda entrambi, e il suo sguardo è un sudario che depone sul nostro viso il calco della più becera banalità.

«No, non solo non ho frequentato il classico ma, e qui prevengo la vostra» - provo a dissociarmi dal mio amico, ma ormai non c’è più verso di farlo - «seconda domanda, nemmeno il liceo scientifico. Mi sono diplomata in un umile istituto tecnico per geometri.»

Gaetano la guarda sorpreso, ancora pensando di averle chiesto qualcosa che avrebbe dovuto lusingarla.

L’ingegnera, dal canto suo, guarda l’orologio. Capisce che ha una decina di minuti a disposizione prima che il giudice chiami la nostra causa. Li reputa sufficienti: «Dovete sapere» - ci spiega sorridendo - «che la separazione tra la cultura tecnico-scientifica e quella umanistica viene fatta risalire alla fine degli anni ’50 ad opera dello scrittore inglese Snow. Da quel momento in poi, in molti, in troppi di noi, si radica la convinzione… per farla breve,» - e qui ci guarda sinceramente persuasa dalla necessità di semplificare il discorso acciocché anche noi possiamo capire - «che i tecnici non sappiano scrivere e che gli “umanisti”, di converso, siano inabili al calcolo, alle misurazioni, etc. Eppure Primo Levi, che pur essendo un chimico, è stato definito unanimemente come il miglior scrittore di scienza di ogni tempo, ha parlato di un “crepaccio assurdo” con riferimento alla separazione tra la cultura scientifica e quella letteraria. Anzi, lo stesso Levi scrive che “l’arte di separare, pesare e distinguere” è essenziale per l’esercizio della scrittura. D’altronde, ancora Lui, e qui cito a memoria…» - temo, dall’ostilità con cui mi guarda Gaetano mentre l’ingegnera parla in maniera sempre più appassionata, che sospetti una mia “intelligenza col nemico” (l’avrei preavvertita circa la sua domanda sul classico?) - «“non la conoscevano (la distinzione tra cultura scientifica e quella tecnica) Empedocle, Dante, Leonardo, Galileo, Cartesio, Goethe, Einstein, né gli anonimi costruttori delle cattedrali gotiche, né Michelangelo; né la conoscono i buoni artigiani, né i fisici esitanti sull’orlo dell’inconoscibile.”»

È il nostro turno. Gaetano, parte convenuta, davanti al giudice s’impappina su una cifra figlia di una divisione per nulla difficile.

«Avvocato,» - lo richiama il giudice, dopo essersi fatto un rapido calcolo mentale - «12500, vorrà dire.»

E prima che Gaetano possa accorgersi dell’errore e rettificare: «Signor Giudice,» - s’intromette l’ingegnera provocatoriamente comprensiva - «li scusi: purtroppo, entrambi hanno frequentato il classico.»

 

 

giovedì 27 agosto 2020

Talento sprecato

 


Dall’inizio dei tempi, si favoleggia di talenti distribuiti agli uomini. Ogni essere umano, anche il meno dotato, si è visto assegnare la sua bella dote di capacità; e ciò fino a quando non c’è stata la necessità, per mettere a frutto il talento avuto in sorte, di avere strumenti, e quindi soldi per concretizzarlo.

La settimana scorsa mi è capitato di assistere a un concerto di pianoforte in piazza. Caso ha voluto che al margine destro dello slargo, ci fosse un teatrino, di quelli itineranti per le marionette.

Mi sono seduto in una posizione strategica, pronto a godermi al meglio le dita funamboliche del pianista. Prima del concerto però, il mio sguardo viene irretito da un ragazzetto. Avrà avuto una decina di anni. Se ne sta appoggiato con la schiena vicino all’impalcatura del teatrino.

Decido che è venuto il momento di dimenticarmi di lui. Cerco di trovare la posizione meno scomoda possibile per consegnarmi alla musica. Chiudo gli occhi. Ogni tanto disarticolo le dita, evitando le occhiatacce dell’accademico sdegnato dal mio dilettantismo ostinato.

Per caso, lo sguardo si sofferma sul ragazzo di poco fa. Ritorno sul pianoforte. Mi attardo ostinatamente sul nero ammaliatore dello Steinway&Sons. Eppure ho bisogno di guardarlo ancora una volta. Non riesco a liberarmi dall’avidità dei suoi occhi.

Il pubblico è rappresentato da una cinquantina di persone. Dalla mia postazione, vedo parecchi spettatori. Nessuno ha nello sguardo la fame di musica di quel ragazzetto. Le sue pupille disegnano pentagrammi e si estenuano negli arpeggi arditi del pianista. Ora non ho occhi che per lui e per la sua bramosia musicale.

Eccolo, il suo talento. Il Demiurgo l’ha intinto in una polla cristallina di musica. Ogni nervatura del ragazzo freme al singolo diesis frenato dal bemolle delle resipiscenza. Eppure quel talento sconfinato rimarrà inespresso. L’età è già relativamente tarda, le lezioni di piano richiedono dei soldi che saranno sempre indispensabili per altri scopi. Il pianoforte, da proiezione verso l’infinito è già, una volta negato, rimpianto che monta nello stomaco. E fa male.

Mi impongo di non guardarlo più. La sofferenza per il suo talento sprecato è troppa. Decido di puntellare lo sguardo su un pari età che sbuffa continuamente mentre la mamma quasi lo costringe a concentrarsi sul musicista.

Eccolo, il pianista del futuro, con un simil talento nutrito dalla rinuncia del talento vero; quello, manco a dirlo, appoggiato allo stipite del teatrino delle marionette.

giovedì 30 luglio 2020

La capsula del congedo

Prendersi un

Tanto che a volte, quando ci troviamo al cospetto di chi ci dice che non prende caffè, restiamo contrariati per lo scarso acume dell’interlocutore che rifiuta la nostra offerta-richiesta di tempo.

Che dietro il caffè ci fosse innanzitutto un pretesto per la discussione, il confronto, lo dimostra anche la volontà di Pietro Verri di chiamare il suo periodico proprio così, “Il Caffè”, per l’appunto.

Bene. Se tutto questo è vero, è altrettanto vero che se m’inviti a casa tua e anziché servirti della moka con i suoi canonici cinque minuti “mentre esce il caffè”, fai ricorso alle capsule istantanee, probabilmente non hai tempo/voglia da dedicarmi nonostante l’invito.

Vuoi mettere l’attesa del borbottio della caffettiera riempita da premesse di confronto con l’ “ecco qua” di una bevanda che prima di essere pensata già è pronta per il consumo?

“Tutta n’ata storia”, direbbe il rimpianto Pino Daniele.

Senza contare che il caffè preparato con capsule, nell’ordine: contiene una dose 5-10 volte più elevata del tossico e cancerogeno furano; molto probabilmente è contaminato da metalli pesanti e diossina; costi molto di più di quello preparato tradizionalmente; contiene 5-7 grammi di caffè e rilascia nell’ambiente ben 3 grammi di packaging a base di alluminio e/o plastica; favorisce, nelle zone tropicali, l’abbattimento delle foreste per l’accaparramento della bauxite, il minerale da cui si ricava l’alluminio per le capsule.

Sia chiaro, anch’io ho una macchinetta del caffè a capsule. Il fatto poi che mi sia stata regalata, attenua solo parzialmente la mia colpa. E sì perché pure io, a volte, la uso: quando il caffè che voglio è di quelli contestatori che non ammettono nessuna compagnia (sempre, però, con capsule compostabili) e quando mi tocca offrirlo a uno dei tanti ragionieri Casoria (Totò docet) che ti spillano soldi o ti rubano tempo.

L’ “Ecco qua” della capsula, allora, viene ad essere un invito trendy a togliersi dai cabasisi.