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mercoledì 8 aprile 2020

Merluzzo cosmopolita


È l’ultima confezione rimasta. Mi guardo intorno con occhi furtivi. L’aprire il portello del bancone frigo e l’impossessarmene, è tutt’uno.
Eccola finalmente nel mio carrello, la scatola di filetti di merluzzo.
Soddisfatto, m’avvio alle casse. Alzo la testa: decine di carrelli inchiavardati su centinaia di consumatori, migliaia di acquisti che strabordano dalle buste del supermercato. Una scena apocalittica.
Riprendo in mano la mia confezione di filetti di merluzzo; in qualche modo, dovrò pure ingannare l’attesa.
Leggo. «Prodotto pescato in Norvegia». Sorrido all’immagine del ridente merluzzo che solca i limpidi mari del nord. Al rigo di sotto, «Prodotto importato dalla Cina»
Panico. Il merluzzo di cui sopra smette di ridere.
Cioè, fatemi capire, pescato in Norvegia, lavorato in Cina e consumato in Italia?
Prendo il cellulare, allarmato. Digito su google «dalla Norvegia alla Cina». Memorizzo. E poi «dalla Cina all’Italia». Rimemorizzo. Sommo le due distanze: più di 30.000 km!
Follia! Eppure, c’è del metodo in questa follia.
Il merluzzo, dopo essere stato pescato in Norvegia, viene spedito nelle fabbriche cinesi per essere sfilettato. Motivo: il costo di manodopera enormemente più basso. Ma vi è di più. I malcapitati filetti, infatti, vengono sottoposti ai cc.dd. «bagni d’acqua»: iniezioni di acqua, cioè, utili ad aumentarne il volume e a farli vendere, perché più pesanti, a un prezzo maggiore. Dulcis in fundo, i martoriati merluzzi sono spesso trattati con l’E-451, un trifosfato pentasodico che serve a prevenire il processo di ossidazione. Manco a dirlo, l’impiego di ‘sta sostanza è sì legale nell’Ue, ma solo entro certi limiti e rispettando rigide regole.
Se a tutto questo aggiungiamo pure gli effetti nefasti della pesca industriale e dell’acquacoltura intensiva sui merluzzi (esseri senzienti, per parere unanime della scienza), le tinte fosche del quadro sono tutte sulla tela.
Sono rimasto io, un paio di carrelli con cinque persone, e la mia confezione di filetti di merluzzo in mano.
I continui bip del passaggio della merce, finalmente si arrestano; segno inequivocabile che il carrello della famiglia Mulino Bianco si è svuotato.
È quasi arrivato il mio turno. Titubante, guadagno qualche metro verso la cassa. I miei occhi delusi ricadono di nuovo sul retro della confezione. Meglio non pensarci. Giro la scatola: tre merluzzi scintillanti galoppano, controcorrente, sulle rapide di una cascata. Sotto di loro, una dicitura: «pesce freschissimo.»
«Ma vafancul, va!»
Un paio di secondi. Un lancio fulmineo della confezione oltre il reparto salumeria.
La commessa passa il mio barattolo di nutella, il mio chilo di pasta, i miei cento grammi di cotto, la mia tavoletta di cioccolato fondente all’80%.
«Una busta?» E il suo sorriso stanco è quello del lavoratore assunto in Italia, formato in Norvegia, pagato in Cina.

mercoledì 18 marzo 2020

Piccolo spazio, pubblicità


«Piccolo spazio pubblicità» è l’intro dell’allusiva «Bollicine» di Vasco Rossi. E proprio il Blasco, dopo aver permesso che le sue «Senza parole» prima, e «Rewind» poi, facessero da colonna sonora allo spot dell’auto del momento targata Fiat, avrà pensato che le canzoni nascono per veicolare sogni e non per pubblicizzare veicoli. E così il cantautore di Zocca non ha più “venduto” alla pubblicità le sue melodie. Gesto, questo del Komandante, sicuramente non scontato, visto che al fascino (soprattutto economico) della réclame hanno ceduto un po’ tutti i cantanti, sia stranieri (i Rolling Stones, Madonna, Bob Dylan, etc.) sia nostrani (tra gli altri, Zucchero, Lucio Dalla, Claudio Baglioni, Giorgia, Ennio Morricone, Ligabue).
Eppure, forse per non dipingere in maniera troppo edificante chi ha fatto di tutto per non volerlo essere nella vita così come nella musica, mi piace pensare altro in ordine al ripensamento della rockstar italiana sulla pubblicità. Mi stuzzica, cioè, l’idea che, oltre alla nobilissima ragione ufficiale del Blasco (la canzone deve vendere sogni e non prodotti), ci sia anche una motivazione più furba e meno romantica.
Mi spiego. Ipotizziamo, solo per un momento, che la Fiat Punto entrata nell’immaginario collettivo del consumatore medio anche grazie alla «Senza parole» del rocker emiliano, si fosse rivelata da subito una ciofeca. Immaginiamo, cioè, che fosse stata l’auto più difettosa della lunga e gloriosa tradizione della casa torinese. Ebbene, potete giurarci, non sarebbe mancato l’automobilista incazzato verso il Blasco che ha contribuito con la sua canzone a indurlo all’acquisto di quella bagnarola.
Se invece l’acquirente della Punto fosse stato un fan dell’artista, sicuramente non ce l’avrebbe fatta a maledirlo, ma comunque si sarebbe risentito verso il suo idolo che ha sponsorizzato un prodotto scadente. Perché, questo è il punto, chi veicola la pubblicità (con la sua immagine, con la voce, attraverso le sue canzoni, etc.) avalla quel prodotto. È come se dicesse: «Garantisco io.»
E mentre in passato, in termini di credibilità, poteva anche convenire al «volto famoso» fare pubblicità, adesso ci andrei un po’ più cauto. Perché? Per un motivo molto semplice. Qualche decennio fa, il prodotto si affermava prima sul mercato grazie alle sue qualità e poi, quando si avvertiva il richiamo della ribalta nazionale, si faceva la pubblicità. Oggi, al contrario, si punta direttamente a conquistare la visibilità con lo spot, troppo spesso anche a prescindere dalla bontà del prodotto. L’ovvia conseguenza, quindi, è che può capitare al volto più o meno noto di fare da garante a un bene intrinsecamente scadente.
Una vocina, da qualche parte: «T”o vvuo’ mettere ‘ncapo…‘int’a cervella che staje malato ancora e’ fantasia? Al tempo d’oggi dove un politico si vota perché è simpatico, la parola data si dispensa come un saluto, tu cianci ancora di “garanzia”, “responsabilità”, etc.?»
Mi rattristo. Penso a Baumann e alla sua «società liquida», e mi faccio un caffè. Forte. Consolatorio.

sabato 14 dicembre 2019

Amazon, la vicina e la gatta

È la quarta, indebita citofonata di questa settimana. E sì perché la fretta dell’omino delle consegne è sempre troppa: due, tre secondi non si possono perdere per leggere il nominativo giusto cui citofonare.

Ci sono due pulsanti, uno sopra e l’altro sotto, e tanto vale schiacciarli entrambi contemporaneamente: il destinatario della consegna verrà comunque a ritirare il pacco.

Poco importa che quel destinatario non sarò mai io ma unicamente la mia vicina di casa.

Sempre lo stesso siparietto. La doppia citofonata imperiosa. Lo sguardo allarmato all’orologio da parte del corriere un secondo dopo il «c’è un pacco per la signora…». La sua mano libera che tamburella spazientita sulle grate del cancello. L’attimo di sollievo quando la cliente si appalesa. Il risolino tra il soddisfatto e il bramoso di possesso della vicina di casa. Il lancio del pacco con contestuale penna per firmare la ricevuta. Una smorfia di disapprovazione non appena la firma richiede più di due secondi per essere apposta. Il zompo dell’omino nel furgone vecchio quanto il crucco. La partenza a razzo. Il fumo zavorrato dalle particelle inquinanti.

Altro giro, altra corsa, necessariamente in ritardo sulla tabella di marcia del consumismo.

Stavolta, però, il rituale ha subito una spiacevole variante.

Nella foga di scappare via incontro all’ennesimo bisogno compulsivo d’acquisto, il furgone si è trovato a tu per tu con la colonia di gatti del condominio.

L’Inps (così soprannominato perché fin da piccolo ha sempre avuto qualche acciacco), Ipazia (gatta nera che richiama le fiamme del rogo sul quale fu immolata la brillante, omonima matematica) e gli altri felini della combriccola, hanno schivato il furgone alienato.

Amazzone, che poi è la micia preferita dalla mia vicina, pure, ma mentre si cimentava in un triplo avvitamento per scansare il copertone invasato, è finita contro una ringhiera, procurandosi qualche leggera ammaccatura.

Mi sono precipitato a prestarle soccorso.

Quando ho spiegato alla mia vicina che Amazzone era stata vittima di…Amazon, mi ha giurato che non avrebbe fatto più acquisti on-line.

Proprio oggi, però, a distanza di un paio di settimane dall’incidente che ha coinvolto la sua amata gattina, un altro omino delle consegne ha ripreso a schiacciare entrambi i pulsanti del citofono, ovviamente all’unisono.

Amazon ha sconfitto, nell’ordine: le imprecazioni del papà della mia vicina contro gli acquisti on-line che gli avrebbero fatto chiudere bottega; la sua partecipazione ai venerdì del Friday For Future che, tra l’altro, imporrebbero una limitazione negli spostamenti delle merci; la paura che, dopo la povera Amazzone, qualche altro gatto potesse essere asfaltato dalle ruote del cabinato delle consegne.

Amazon omnia vincit.

 

 

mercoledì 25 gennaio 2017

"Alessandro Magno Ieri e Oggi", di A. Cecchi Paone

Alessandro Magno, dopo tredici anni di regno che hanno sconvolto il mondo, si trova nella sua reggia di Babilonia.

L'uomo che, come racconta Plutarco, tiene la testa lievemente piegata a sinistra come se cercasse una prospettiva diversa per osservare le cose, muore ad appena trentatré anni.
Muore, così, l'uomo Alessandro che da piccolo riesce, lui solo, a capire cosa spaventa il per altri versi coraggiosissimo Bucefalo: la sua ombra.
Da questa comprensione, nasce un sodalizio con il suo cavallo che addirittura spingerà il sovrano macedone a dedicargli una città sulle rive dell'Idaspe, Bucefalia.
Resta invece in vita, a distanza di ventitré secoli, l'Alessandro fondatore di una città (Alessandria, per l'appunto) costruita su indicazione onirica di Omero davanti all'isoletta di Faro; la polis che, tra l'altro, ospita nella sua biblioteca tutto il sapere dell'epoca accumulato anche grazie all'obbligo per tutti gli stranieri di passaggio di lasciarvi copia di ogni scritto che portano con loro.
Vive l'Alessandro conquistatore che, partito dalla "barbara" Macedonia (così definita dai civilissimi ateniesi perché abitata da stranieri che balbettavano insicuri nell'idioma di Omero), si spinge fin dove nessuno ha osato mai andare, neanche il dio Dioniso nelle sue farneticanti peregrinazioni: il fiume Idaspe.
Eppure il leone di Pella sa che il mondo non finisce lì. Oltre il fiume, ne è certo, si estende la misteriosa India e dopo, chissà quale altra terra incognita. 
Alessandro il condottiero, però, che ha sempre combattuto in prima linea e non si è mai risparmiato nessuna sofferenza, guarda in faccia i suoi uomini segnati dagli anni e dalle sofferenze, e capisce ogni cosa: il mondo, per loro, finisce lì. Non l'avrebbero seguito oltre.
Mortificato, quindi, nella sua brama di oltrepassare ogni limite che, a ben vedere, lo rende ostaggio di un demone senza nome, acconsente a ricondurre il suo esercito in patria.
Resta in vita l'Alessandro cosmopolita che seguendo l'insegnamento di Aristotele avvia, anche in contrasto con parte dei suoi uomini che non vedono di buon occhio la fusione con i riti e costumi orientali, la globalizzazione c.d. virtuosa alimentata dall'insopprimibile amore per la conoscenza. Lo stesso amore che, se da un lato lo spingerà a dormire, ogni notte, con il capo appoggiato su una copia dell'Iliade e dell'Odissea gelosamente custodite anche sui campi di battaglia, dall'altro, lo invoglierà a ricondurre nel pantheon greco le divinità locali incontrate nelle innumerevoli città conquistate.
Sopravviverà, ancora, l'Alessandro mistico che ammirando qualsiasi indefesso viaggiatore, anche quelli che compiono il viaggio negli anfratti bui della propria anima, non tarderà a spostarsi quando Diogene di Sinope gli dirà che l'unica cosa che desidera da Alessandro Magno, è che se ne stia fuori dalla sua luce; così come sicuramente resta l'Alessandro indomito che, al cospetto della complessità del nodo di Gordio non esita, per preannunciare la prossima conquista dell'Asia, a tranciarlo con un colpo netto di spada, in barba alla sua proverbiale inestricabilità.
Infine sopravviveranno ancora altri cento Alessandro, tutti reali e immaginari, tutti umani e divini. E quando si tratterà di farsi proclamare figlio di Zeus, sarà lo stesso condottiero macedone a sfruttare un errore di pronuncia dell'oracolo che anziché appellarlo paidìon (figlio), lo chiamerà paidiòs (figlio di Zeus), per assurgere al rango che gli spetta, quello di dio.
In questo romanzo ben cesellato di Cecchi Paone, c'è tutto Alessandro, la sua storia, il mito, la grandezza delle sue azioni da cui trasuda un'umanità che ancora oggi affascina il mondo intero. E come in un gioco di specchi che si rimandano luce riflessa da ben ventitré secoli, il Nostro è visto anche dalla prospettiva di oggi, oltre che di ieri: la Storia e la Divinità del re macedone, quasi per soddisfare, entrambe diversamente esigenti, i due colori (chiaro e scuro) che avevano gli occhi dell'inarrivabile Alessandro Magno.

martedì 13 gennaio 2015

Due uomini armati in satira

Due uomini armati fino ai denti, con i proiettili eccitati all’idea dell’esplosione imminente, irrompono in una redazione di giornale

In qualsiasi altra redazione di ogni diverso giornale del mondo, i due uomini avrebbero provocato una carneficina.

Due uomini armati fino ai denti, con l’odio bramoso di essere vomitato sui cani infedeli, irrompono in una redazione di un giornale…satirico: Charlie Hebdo.

In questa redazione di siffatto giornale, i due uomini avrebbero voluto provocare una carneficina.

Le cose sono andate diversamente.

Il 07 gennaio 2015, due uomini hanno scelto il giornale e la redazione sbagliati.

Fanno irruzione, con “geometrica potenza di fuoco”, in una sala vuota.

Certo, ora è facile parlare di due sprovveduti che lasciano la carta d’identità in macchina; che hanno sbagliato l’indirizzo della redazione. Troppo facile ricorrere al dilettantismo di due uomini che, in un altro giornale, in una diversa redazione, avrebbero potuto uccidere 12 persone e ferirne altre, anche gravemente.

Ma torniamo all’assalto dei nostri due uomini.

Allah è grande”.Primo piano, niente.

“Allah è grande”. Secondo piano, manco un’ “ummira”.

“Allah è grande?”. Oh, sìììììì, “Allah è grande” perché si sono imbattuti finalmente in una porta chiusa che puzza di maiali in riunione.

I due uomini si scambiano un cenno d’intesa.

Le bocche dei kalashnikov crivellano la porta di fuoco.

Si fermano. Non si ode un lamento. Non si sente un grido manco a pagarlo oro.

I due uomini si guardano. L’intesa è rinnovata.

Uno di loro sferra un calcio a quel che resta della porta sbrindellata. L’altro aggredisce, con arma a tracolla sputacchiante fatwa e sura a gogò,…una scrivania.

L’inferno di fuoco si estingue per la sorpresa.

I due uomini pensano che Allah dev’essere per forza grande. E mentre se lo ripetono per evitare di dimenticarselo, qualcosa si muove.

Una matita, che pur negli spari senza soluzione di continuità se n’era stata ferma, si alza indispettita.

I due uomini, addestrati a non farsi infinocchiare dalla zizze virtuali di you porn, a non prestare fede alle grandi opere che nascondono grandissime tangenti, sono spiazzati.

La matita si mette all’opera.

Un leggero movimento a destra, poi a sinistra, in su e in giù. Una mazurka di ghirigori. Un fischio prolungato. Arrivano due colori, il rosso e il giallo.

“Ma dove cazzo stavano i colori un minuto fa?”- pensa uno dei due uomini.

“Ma tu vuoi vedere – si chiede il secondo attentatore – che a forza di gridare ‘sto minchia di “Allah è grande”, ci siamo persi i colori? La matita, nessuno la mette in dubbio. Ma ‘sti sfaccimma di colori?”

Due uomini, armati fino ai denti, avrebbero potuto provocare una carneficina.

Si trovano, invece, voltati verso la Mecca dei fanatici con il culo a poppa, con le braccia inchiavardate da un nugolo di puntine da disegno uscite dal cassetto di vattelappesca.

La matita armeggia con i loro culi che ti piange il cuore a vederla. All’improvviso si ferma. I colori, allora, seguendo quei cerchi tracciati in maniera mirabile, si danno da fare eccitati dall’idea di completare l’opera.

I due uomini, spogliati dalle armi, incapaci di capire cosa stia accadendo, avvertono solo un armeggiare di punte di diverso spessore sui loro fondoschiena.

Il bersaglio è bell’è colorato.

La matita allora, dopo aver gonfiato il petto per l’onore che da lì ad un momento le toccherà, si reca di nuovo sulla scrivania. Da qui alla parete in cui sono immobilizzati i due uomini, vi è una bella distanza.

Penne, colori, gomme per cancellare, forbici, puntine e chi più ne ha più ne metta, si piazzano ai lati, in due ali in tripudio festante, dell’Arc de Trionphe  in cui si materializzerà la vittoria.

I due uomini, inconsapevoli e persi, si predispongono ad accogliere la marcia trionfale della redazione di Charlie Hebdo.

Pronti, partenza via. Manco il tempo di ripetere per l’ultima volta “Allah è grande” che la matita si sdoppia: compaiono due punte affilate come la lama di un rasoio.

Una nel culo dell’uomo a destra, l’altra nel culo a dell’uomo a sinistra.

La satira, parafrasando l’ombrello del nostro Altan, è entrata nel cu…ore del fondamentalismo fino a seppellirlo in una caterva di risate.

JE SUIS CHARLIE !