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giovedì 27 agosto 2020

Talento sprecato

 


Dall’inizio dei tempi, si favoleggia di talenti distribuiti agli uomini. Ogni essere umano, anche il meno dotato, si è visto assegnare la sua bella dote di capacità; e ciò fino a quando non c’è stata la necessità, per mettere a frutto il talento avuto in sorte, di avere strumenti, e quindi soldi per concretizzarlo.

La settimana scorsa mi è capitato di assistere a un concerto di pianoforte in piazza. Caso ha voluto che al margine destro dello slargo, ci fosse un teatrino, di quelli itineranti per le marionette.

Mi sono seduto in una posizione strategica, pronto a godermi al meglio le dita funamboliche del pianista. Prima del concerto però, il mio sguardo viene irretito da un ragazzetto. Avrà avuto una decina di anni. Se ne sta appoggiato con la schiena vicino all’impalcatura del teatrino.

Decido che è venuto il momento di dimenticarmi di lui. Cerco di trovare la posizione meno scomoda possibile per consegnarmi alla musica. Chiudo gli occhi. Ogni tanto disarticolo le dita, evitando le occhiatacce dell’accademico sdegnato dal mio dilettantismo ostinato.

Per caso, lo sguardo si sofferma sul ragazzo di poco fa. Ritorno sul pianoforte. Mi attardo ostinatamente sul nero ammaliatore dello Steinway&Sons. Eppure ho bisogno di guardarlo ancora una volta. Non riesco a liberarmi dall’avidità dei suoi occhi.

Il pubblico è rappresentato da una cinquantina di persone. Dalla mia postazione, vedo parecchi spettatori. Nessuno ha nello sguardo la fame di musica di quel ragazzetto. Le sue pupille disegnano pentagrammi e si estenuano negli arpeggi arditi del pianista. Ora non ho occhi che per lui e per la sua bramosia musicale.

Eccolo, il suo talento. Il Demiurgo l’ha intinto in una polla cristallina di musica. Ogni nervatura del ragazzo freme al singolo diesis frenato dal bemolle delle resipiscenza. Eppure quel talento sconfinato rimarrà inespresso. L’età è già relativamente tarda, le lezioni di piano richiedono dei soldi che saranno sempre indispensabili per altri scopi. Il pianoforte, da proiezione verso l’infinito è già, una volta negato, rimpianto che monta nello stomaco. E fa male.

Mi impongo di non guardarlo più. La sofferenza per il suo talento sprecato è troppa. Decido di puntellare lo sguardo su un pari età che sbuffa continuamente mentre la mamma quasi lo costringe a concentrarsi sul musicista.

Eccolo, il pianista del futuro, con un simil talento nutrito dalla rinuncia del talento vero; quello, manco a dirlo, appoggiato allo stipite del teatrino delle marionette.

lunedì 11 maggio 2020

"Canone inverso", di Paolo Maurensig

Un gentiluomo si vede recapitare un pacco all'albergo in cui alloggia. Sa già cosa contiene l'involucro: un preziosissimo violino di Jacob Stainer (uno dei più apprezzati liutai tirolesi del '600) che si è aggiudicato a un'asta di strumenti musicali per una cifra più bassa rispetto al suo valore intrinseco.
Piccolo particolare dello strumento: una testina antropomorfa intagliata sul cavigliere (...) Si sarebbe detto un mammelucco, dai lunghi baffi spioventi, l'espressione feroce, e la bocca spalancata come in un urlo di dolore o di maledizione.
"Dolore" e "maledizione" che ben presto, l'ospite venuto nella camera d'albergo (uno scrittore in cerca di una storia di musica da raccontare) a prendere atto di una sconfitta (avrebbe potuto e dovuto aggiudicarselo lui, il violino) intreccia in una trama puntellata da note musicali e solitudini acuminate come i freddi inverni del nord.
Una notte, in una taverna, un saltimbanco con violino vende la propria musica al miglior offerente. Dopo un po', si dichiara pronto a imbrigliare la melodia del suo strumento con la richiesta musicale che lo scrittore e musicologo vorrà avanzargli: la Ciaccona di Bach (pezzo difficilissimo) al prezzo di mille scellini.
Una provocazione, senza dubbio, che nessuno strimpellatore di strada avrebbe potuto soddisfare. A meno che sotto le mentite spoglie del musico ambulante non si nascondesse un musicista di indubbio talento. Già, proprio così.
E la impervia Ciaccona non solo viene eseguita, ma addirittura eternata da un violinista di prima grandezza.
Quali esperienze traumatiche, quali fallimenti si nascondono nell'animo di chi, per talento, avrebbe potuto calcare i palcoscenici dei teatri più celebri al mondo?
In un'altra notte, davanti a un altro tavolo di un bar, il musicista Jeno Varga si racconta: dall'infanzia povera dove il padre, che prima o poi tornerà con il colbacco ben calzato sulla fronte, la mantellina sulla spalla, in arcione a un baio nervoso, gli ha lasciato un violino in dote, al suo talento musicale che ben presto gli farà spalancare le porte dell'austero e snervante Collegium Musicum; dall'incontro con la travagliata Sophie Hirschbaum che gli ammalierà il cuore, a quello con l'altro da sè collega di studi, Kuno Blau, con la sua grandezza musicale che non può che essere tramandata da geni beffardi, loro sì, verso gli umilissimi natali di Jeno Varga.
Eppure, la posizione del violinista avrebbe dovuto mettere sulla buona strada il lettore un attimino più accorto. A che mi riferisco?
Avete mai riflettuto su quanto sia innaturale la posizione del violinista? Toglietegli lo strumento dalle mani mentre è intento a suonare e guardatelo: quegli arti irrigiditi, quegli occhi semichiusi, quella pronazione dell'avambraccio sinistro e la testa riversa da un lato, non vi ricordano la deposizione dalla croce del Cristo?
E come per ogni croce c'è una testa, così, per ogni melodia, vi è un'imitazione che le si sovrappone progressivamente e fa muovere la voce conseguente in moto contrario alla voce antecedente: il canone inverso, per l'appunto, che viene a unire indissolubilmente le sorti di Jeno Varga a quelle di Kuno Blau.
Sullo sfondo, per tutto l'accattivante romanzo, il filo conduttore della musica ragione di vita che può condurre, in determinati ed estremi casi, anche alla morte. E ciò accade quando il tempo delle marce che apparecchiano l'olocausto mondiale mal si accorda con le atmosfere trasognate del violino.

giovedì 7 maggio 2020

Salerno non è una città per pianoforte

Salerno non è una città per pianoforte. Certo, le iniziative musicali, soprattutto messe in campo dal Conservatorio “Giuseppe Martucci”, non mancano. Ma la mia asserzione , più che ai vari, meritori eventi organizzati anche con il patrocinio del Comune di Salerno, riguarda due parametri essenziali per chi voglia capire quanta cultura pianistica ci sia nella nostra città: le scuole di formazione e i negozi di vendita del pianoforte.
Procediamo per gradi: fino a tre-quattro anni fa, quando mi trovavo in zona, passavo sul trincerone, all’altezza di via Pietro da Eboli, solo per respirare l’aria di solfeggio e per ascoltare le “scale metodiche, tenaci, scorate” della scuola di musica (non ne ricordo manco più il nome) ubicata sopra una filiale di banca.
Più di una volta, quando qualche impegno non era troppo esigente con i miei minuti a disposizione, ho gironzolato sotto il balcone, arricchendo l’animo di ogni nota che l’allievo di turno decideva di regalarmi.
Da qualche anno, via Pietro da Eboli piange una scomparsa. Ovviamente, non della banca che è rimasta lì più indispensabile che mai, ma proprio della scuola di musica a cui mi aggrappavo per disegnare ghirigori di diesis e bemolle che addolcivano le mie pause.
Veniamo al secondo parametro, quello dei negozi di vendita del pianoforte. Alzi la mano il lettore, anche il più distratto, che non abbia notato come all’intersezione tra via Diaz e via Manzo, da qualche anno, l’idra dalle innumerevoli teste del profitto abbia cancellato la presenza di “Napolitano Pianoforti.”
Questo negozio non si limitava solo a vendere pianoforti. Forniva anche personale qualificato per accordare lo strumento oltre che vendere libri di musica.
Uno dei miei primi spartiti che mi fece finalmente mettere le mani sulla tastiera, l’ “Ave Maria” di Schubert, ovviamente in versione semplificata, lo acquistai proprio da “Napolitano Pianoforti.”
Un pomeriggio d’inverno, nonostante la mia arte pianistica sia tuttora appena mediocre, ricordo di aver trascorso in questo negozio più di tre ore a strimpellare il Petrof  marrone e lo Steinway & Sons nero. Allorché scorgevo un smorfia d’impazienza sul titolare del negozio, me ne uscivo con la scusa che stavo cercando la sfumatura di suono che mi avrebbe finalmente convinto ad acquistare un modello piuttosto che l’altro.
Ebbene, quando passo di lì, non posso che considerare la chiusura di “Napolitano Pianoforti” non già come qualcosa che riguarda le vicissitudini di un singolo commerciante, ma, come per la chiusura della “Libreria Internazionale” per ciò che attiene ai libri, un abbrutimento dell’intera città.
Per la cronaca, al posto della storica “Napolitano Pianoforti”, si è aperta un’agenzia immobiliare. Ora, se avete bisogno di acquistare e/o cambiare abitazione, vi basta fare una puntatina qui, in via Diaz, non prima, ovviamente, di aver acceso un mutuo allo sportello in via Pietro da Eboli: nell’altro tempio, quindi, che è sorto sulle rovine di un incommensurabile universo bianco e nero.
Salerno, decisamente, non è una città per pianoforte.

mercoledì 18 marzo 2020

Piccolo spazio, pubblicità


«Piccolo spazio pubblicità» è l’intro dell’allusiva «Bollicine» di Vasco Rossi. E proprio il Blasco, dopo aver permesso che le sue «Senza parole» prima, e «Rewind» poi, facessero da colonna sonora allo spot dell’auto del momento targata Fiat, avrà pensato che le canzoni nascono per veicolare sogni e non per pubblicizzare veicoli. E così il cantautore di Zocca non ha più “venduto” alla pubblicità le sue melodie. Gesto, questo del Komandante, sicuramente non scontato, visto che al fascino (soprattutto economico) della réclame hanno ceduto un po’ tutti i cantanti, sia stranieri (i Rolling Stones, Madonna, Bob Dylan, etc.) sia nostrani (tra gli altri, Zucchero, Lucio Dalla, Claudio Baglioni, Giorgia, Ennio Morricone, Ligabue).
Eppure, forse per non dipingere in maniera troppo edificante chi ha fatto di tutto per non volerlo essere nella vita così come nella musica, mi piace pensare altro in ordine al ripensamento della rockstar italiana sulla pubblicità. Mi stuzzica, cioè, l’idea che, oltre alla nobilissima ragione ufficiale del Blasco (la canzone deve vendere sogni e non prodotti), ci sia anche una motivazione più furba e meno romantica.
Mi spiego. Ipotizziamo, solo per un momento, che la Fiat Punto entrata nell’immaginario collettivo del consumatore medio anche grazie alla «Senza parole» del rocker emiliano, si fosse rivelata da subito una ciofeca. Immaginiamo, cioè, che fosse stata l’auto più difettosa della lunga e gloriosa tradizione della casa torinese. Ebbene, potete giurarci, non sarebbe mancato l’automobilista incazzato verso il Blasco che ha contribuito con la sua canzone a indurlo all’acquisto di quella bagnarola.
Se invece l’acquirente della Punto fosse stato un fan dell’artista, sicuramente non ce l’avrebbe fatta a maledirlo, ma comunque si sarebbe risentito verso il suo idolo che ha sponsorizzato un prodotto scadente. Perché, questo è il punto, chi veicola la pubblicità (con la sua immagine, con la voce, attraverso le sue canzoni, etc.) avalla quel prodotto. È come se dicesse: «Garantisco io.»
E mentre in passato, in termini di credibilità, poteva anche convenire al «volto famoso» fare pubblicità, adesso ci andrei un po’ più cauto. Perché? Per un motivo molto semplice. Qualche decennio fa, il prodotto si affermava prima sul mercato grazie alle sue qualità e poi, quando si avvertiva il richiamo della ribalta nazionale, si faceva la pubblicità. Oggi, al contrario, si punta direttamente a conquistare la visibilità con lo spot, troppo spesso anche a prescindere dalla bontà del prodotto. L’ovvia conseguenza, quindi, è che può capitare al volto più o meno noto di fare da garante a un bene intrinsecamente scadente.
Una vocina, da qualche parte: «T”o vvuo’ mettere ‘ncapo…‘int’a cervella che staje malato ancora e’ fantasia? Al tempo d’oggi dove un politico si vota perché è simpatico, la parola data si dispensa come un saluto, tu cianci ancora di “garanzia”, “responsabilità”, etc.?»
Mi rattristo. Penso a Baumann e alla sua «società liquida», e mi faccio un caffè. Forte. Consolatorio.

martedì 22 novembre 2016

Il caffè, lo specchio, la barca: ah, che rebus!

La canzone Rebus (1979) di Paolo Conte dura poco più di due minuti.

Velocità silenziosa ed esaustiva.
Una pennellata d'autore che sopra un letto di pianoforte e riflessioni, insegue il senso della visione.
La sfida è di quelle che l'avvocato appassionato di enigmistica, tra uno sberleffo compiaciuto e un bemolle sornione, è certo di poter vincere: il rebus, uno dei tanti affrontati e risolti al riparo delle colline astigiane, grazie a una fulminea intuizione.
Sì, proprio un lampo giallo al parabrise.
Mentre rimugina tasti e pensieri, s'impegna ad accordare immagini con significati.
Cercando di te.
Il baffo che custodisce la voce filtrata attraverso sabbia e whisky, biascica il tema del rebus: cercando di lei, per l'appunto.
Un vecchio caffè. Con dentro uno specchio. Nello specchio, il mare. Dentro il mare, una piccola barca.
Gli indizi scenografici sono questi.
La sigaretta abbandonata in preda alla riflessione, s'involve in volute di connessioni.
Seconda quartina.
Un altro caffè. Con dentro uno specchio. Nello specchio, il mare. Dentro il mare, una piccola barca.
Le dita sul pianoforte interrogano con maestria ripetizioni, rimandi.
Una prima barca che porta ad un secondo caffè. Il suggerimento di un'altra traversata, con l'ennesima barca pronta per lui, sempre alla ricerca di lei.
Il sorriso della comprensione. Il tempo di un mugolio risolutore.
Il giro in cerca di lei, è turistico. L'amore agognato, il tema del rebus, è una mistificazione. E già perché, rivela il Maestro, chi affitta le barche è anche il padrone di tutti i caffè.
Conflitto d'interessi incompatibile con la liberalità dell'amore.
Compiaciuto per la soluzione del rebus, il pianoforte tuttavia approda, tra la rabbia e la disillusione della rivelazione, al porto mercantilistico del paga di qua, e paga di là, noleggia una barca e prendi un caffè.
Nell'ultima terzina, l'amara considerazione:
Ah, è meglio star qui a guardare
i pianeti nuotare davanti a me
nell'oscurità del rebus
Malgrado tutto, poco male! Ancora una volta, dall'alto dei suoi ottant'anni di poesia e musica, lo smaliziato Conte troverà conforto nella ricerca di un po' d'Africa in giardino, tra l'oleandro e il baobab. 
Alcuni luoghi sono un'enigma; altri, una spiegazione.