Dall’inizio dei tempi, si favoleggia di talenti distribuiti agli uomini. Ogni essere umano, anche il meno dotato, si è visto assegnare la sua bella dote di capacità; e ciò fino a quando non c’è stata la necessità, per mettere a frutto il talento avuto in sorte, di avere strumenti, e quindi soldi per concretizzarlo.
La settimana scorsa mi è capitato di assistere a un concerto di pianoforte in piazza. Caso ha voluto che al margine destro dello slargo, ci fosse un teatrino, di quelli itineranti per le marionette.
Mi sono seduto in una posizione strategica, pronto a godermi al meglio le dita funamboliche del pianista. Prima del concerto però, il mio sguardo viene irretito da un ragazzetto. Avrà avuto una decina di anni. Se ne sta appoggiato con la schiena vicino all’impalcatura del teatrino.
Decido che è venuto il momento di dimenticarmi di lui. Cerco di trovare la posizione meno scomoda possibile per consegnarmi alla musica. Chiudo gli occhi. Ogni tanto disarticolo le dita, evitando le occhiatacce dell’accademico sdegnato dal mio dilettantismo ostinato.
Per caso, lo sguardo si sofferma sul ragazzo di poco fa. Ritorno sul pianoforte. Mi attardo ostinatamente sul nero ammaliatore dello Steinway&Sons. Eppure ho bisogno di guardarlo ancora una volta. Non riesco a liberarmi dall’avidità dei suoi occhi.
Il pubblico è rappresentato da una cinquantina di persone. Dalla mia postazione, vedo parecchi spettatori. Nessuno ha nello sguardo la fame di musica di quel ragazzetto. Le sue pupille disegnano pentagrammi e si estenuano negli arpeggi arditi del pianista. Ora non ho occhi che per lui e per la sua bramosia musicale.
Eccolo, il suo talento. Il Demiurgo l’ha intinto in una polla cristallina di musica. Ogni nervatura del ragazzo freme al singolo diesis frenato dal bemolle delle resipiscenza. Eppure quel talento sconfinato rimarrà inespresso. L’età è già relativamente tarda, le lezioni di piano richiedono dei soldi che saranno sempre indispensabili per altri scopi. Il pianoforte, da proiezione verso l’infinito è già, una volta negato, rimpianto che monta nello stomaco. E fa male.
Mi impongo di non guardarlo più. La sofferenza per il suo talento sprecato è troppa. Decido di puntellare lo sguardo su un pari età che sbuffa continuamente mentre la mamma quasi lo costringe a concentrarsi sul musicista.
Eccolo, il pianista del futuro, con un simil talento nutrito dalla rinuncia del talento vero; quello, manco a dirlo, appoggiato allo stipite del teatrino delle marionette.