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giovedì 9 luglio 2020

Caro Dante...


Caro Dante,
probabilmente non ti ricorderai di me. Ci siamo incontrati in qualche manifestazione sicuramente non ascrivibile alla destra salernitana.
A volte capita, sai?
Ti confesso, ora per allora, che pur non amando l’attivismo a favor di telecamera, riconoscevo in te una ventata di novità. Non che mi convincessi pienamente, questo no, ma almeno guardavo con favore all’intraprendenza un po’ gigionesca ma efficace che ti contraddistingueva. E, ti dirò, ho continuato a seguirti anche in alcune iniziative che andavano nel solco di quella politica sociale di cui il nostro territorio ha un disperato bisogno (“Ripuliamo Salerno”, “ La casa del diritto alla salute”, “Le piazze del cuore”, etc.).
Poi, qualche settimana fa, la notizia che per combattere “il sistema neofeudale dei De Luca” e “il familismo amorale del Governatore in carica”, hai deciso di varcare il Rubicone: ti sei arruolato armi e bagagli nel centrodestra dell’ex Governatore Caldoro il cui consiglio regionale aveva 57 consiglieri su 60 indagati per “rimborsopoli”.
Non proprio una mossa geniale, direi.
Caro Dante, che dirti? Benvenuto nel carrozzone della “politica politicante”, di quella, cioè, capace di trasformare anche il “fiato sul collo” delle migliori intenzioni, nel vento in poppa dell’affermazione personale.
D’altro canto il tuo ragionamento è a tal punto ovvio, da far impallidire perfino il signore De La Palice. Hai sperato fino all’ultimo che De Magistris si candidasse alla Presidenza della regione. Quando ormai era chiaro che l’ex Pm non sarebbe sceso in lizza, l’unica alternativa che ti si presentava era la seguente: o schierarti con una costituenda lista di sinistra, o farti tentare dalle sirene salvo-meloniane.
Laddove non poté la coerenza, poté il calcolo politico: la forza del centrodestra, pur non in grado, con molta probabilità, di far eleggere Caldoro, riuscirà senza troppi patemi a farti guadagnare la consiliatura.
Caro Dante, la tua conseguenzialità non fa una piega. Una sola obiezione: c’è un popolo, quello della sinistra, che pur troppo spesso disastrato, vituperato, stanco di leccarsi ferite che non sempre si è inferto da solo, ha un orgoglio, una dignità che non può essere calpestata nemmeno, come nel caso che ti riguarda, “a tua insaputa”.
“Onore e rispetto”, come amate dire voi di destra, per la storia di queste donne e di questi uomini.
Si narra che il filosofo Democrito scelse Protagora come suo discepolo per l’abilità con cui quest’ultimo caricava la legna sul dorso di un mulo. Ebbene, caro Dante, parte della tua legna è stata affastellata con giudizio e abnegazione. C’è solo un problema: hai sbagliato clamorosamente il mulo sul quale caricarla.

giovedì 18 giugno 2020

L'act del Jobs, del Family e il Dantedì


Purtroppo conosco poco l’inglese. A scuola infatti, sia perché appartengo alla generazione de “il francese è la lingua della cultura”, sia perché “vuoi mettere l’eleganza del francese?”, ho studiato la lingua “sbagliata”.

Premesso ciò, pur non nascondendo una certa avversione per la fonetica anglosassone così sgraziata e per l’ortografia spesso troppo distante dalla pronuncia, apprezzo chi conosce l’inglese.

Ecco, per l’appunto: la conoscenza!

In Italia, la maggior parte di chi si professa conoscitore dell’inglese, è padrone solo di una trentina di termini e perifrasi “mercantilistici”. E poiché, in fondo, questi nostri connazionali sono consapevoli della loro scarsa preparazione, approfittano di ogni occasione per utilizzare la striminzita batteria di anglicismi.

D'altronde, vuoi mettere la finezza del termine inglese al posto dello stinto e provinciale lemma italiano?

Ci sono, però, due considerazioni da fare al proposito: in primo luogo, troppe persone che utilizzano gli anglicismi lo fanno perché confidano che quel po’ d’inglese imparato alla come viene viene, possa trasformarli d’incanto in persone colte; la seconda considerazione, è che lo stesso abborracciato linguista di cui sopra utilizzi l’inglese anche quando potrebbe attingere al corrispondente italiano quasi sempre più appropriato e più di spessore.

In questo secondo caso, la conseguenza è il depauperamento del nostro immenso e ineguagliabile patrimonio linguistico con lemmi e costrutti sintattici che nulla aggiungono (anzi!) alla cultura del paese là dove 'l sì suona.

Il dramma è che la classe politica che dovrebbe difendere con i denti una delle poche “italianità” in grado di renderci davvero fieri nel mondo (la lingua italiana, per l’appunto), è la prima che la svilisce, prendendo a prestito termini d’Oltremanica di cui non c’è per nulla bisogno.

Perché jobs act, family act, infatti, quando si potrebbe parlare di “piano” rispettivamente per il lavoro e per la famiglia?

Senza contare il fatto che, anche tecnicamente, l’act non ha alcuna cittadinanza giuridica nel nostro ordinamento.

Perché, dunque, jobs act e family act? Perché ‘sti “italiani brava gente” appartengono alla percentuale degli “Azzeccainglesismi”?

Probabile.

Perché non conoscono l’italiano?

Molto probabile.

Certamente perché troppi di loro sono la rappresentazione, fedele fino all'identificazione, del popolo che rappresentano.

Si avvicina il sabato. Buon fine settimana, allora, e non buon week-end, soprattutto a pochi mesi dal “Dantedì” (25 marzo 2021- giornata nazionale dedicata a Dante Alighieri per i 700 anni dalla morte).

 

 

 


giovedì 11 giugno 2020

Certi fatti e il silenzio di Eduardo


Chiunque ha studiato un po’ di musica, sa che il silenzio, le pause sono l’essenza stessa della musica. Senza le pause, ci sarebbe un continuo sonoro che non genererebbe alcun motivo o melodia.

Eppure siamo portati a identificare il silenzio con la rinuncia, la sottomissione, il chinare la testa. Chi non denuncia un misfatto è vittima e, in molti casi, complice.

Il silenzio è inazione, soccombenza, omertà.

Ci sono, però, dei silenzi diversi.

Minneapolis, USA. Tutti abbiamo negli occhi l’immagine del poliziotto che per nove minuti, mano nella tasca e sguardo del buon padre di famiglia, sta uccidendo un nero.

Da circa tre mesi ci bardiamo con mascherine e guanti per proteggere il nostro respiro dal virus e poi, nella civilissima America, lasciamo impunemente che un poliziotto faccia morire di asfissia un afroamericano.

Fortunatamente c’è stata la diffusione social del video dell’omicidio.

E allora via alle sacrosante proteste in tante nazioni del mondo al grido di “I can’t breathe” (non respiro) e “black lives matter“ (le vite dei neri contano).

Sia chiaro, occorre ribellarsi, e farlo con veemenza, al sopruso. Senza il “no” gridato da chi non ci sta, a volte seguito anche da un’azione ferma e decisa, i diritti non si sarebbero conquistati, le battaglie civili non si sarebbero nemmeno combattute.

Eppure, in alcuni casi, come nella vicenda di George Floyd o di Giulio Regeni, c’è spazio, dopo la denuncia e la lotta, anche per il silenzio. Che non significa rassegnazione, rinuncia o accettazione dello status quo.  Nossignore. È un silenzio che sottintende un’avversione così marcata, una delusione a tal punto cocente sulle sorti del mondo, da farci chiamare fuori. Ecco, è il silenzio che ribalta il motto terenziano dell’ Homo sum: humani nihil a me alienum puto (Sono un essere umano: niente di ciò che è umano ritengo estraneo a me). È, in definitiva, il silenzio di Eduardo ne “Le voci di dentro” che capisce finalmente perché zi’ Nicola ha rinunciato a comunicare con i suoi simili, se non sparando petardi che gli varranno il soprannome di “Sparavierzi”.

Sa essere troppo brutto, a volte, l’animo umano per correre il rischio di una comprensione.

 

giovedì 23 aprile 2020

Il paese dai frutti sull'albero


C’era una volta un paese in cui, non appena un frutto s’adagiava sul ramo o un ortaggio s’inturgidiva al sole, non c’era esitazione che teneva: un esercito di barbari, al costo di qualche moneta al giorno, coglieva l’uno e incassettava l’altro.
Poi venne l’orco con corona virulenta e, sortilegio mefistofelico, immobilizzò le braccia operose: “Ti vuoi spostar per campi? Prego, documento attestante lavoro regolare!”
L’antro della tendopoli di San Ferdinando, allora, si richiuse sconfortata, in attesa che qualcuno trovasse l’ “apriti-sesamo” liberatore. E i cinquecento e passa ospiti della baraccopoli (soluzione temporanea per un bisogno permanente) rimasero lì, a piluccarsi il grappolo della quarantena: 8 persone per ogni straccio di plastica blu, per una decina di bagni complessivi.
Frattanto i frutti, ormai rubizzi, se ne stavano in panciolle a ciondolar dal ramo; gli ortaggi, per non esser da meno, si stravaccavano, corpulenti e satolli, all’ombra del solco.
Il contadino, solo e derelitto, già mortificato da un obolo da sempre devoto ad altre tasche, infiacchiva le membra per l’inane sforzo.
L’imprenditore, dal canto suo, starnazzava soluzioni, bestemmiava l’inerzia che avrebbe trasformato ogni terreno arricchito dal “mover de le frondi e di verzure”, nello “scatolone di sabbia” di salveminiana memoria.
Il PIL, l’economia, il debito pubblico: il governante, allarmato da presagi di sventura e maledicendosi per la protezione umanitaria cancellata, si spremeva le meningi ministeriali.
Un accordo con la Romania per far arrivare braccianti dall’Est?
Ottimo, così si sarebbero evitati anche i lavoratori extracomunitari con i loro problemi da permesso.
Prima che l’apprendista malaccorto, ringalluzzito dalla trovata geniale, si approssimasse all’antro per liberare i lavoratori, lo stregone obiettò: “Bravo, bene ma...gli stagionali non arrivano, per la maggior parte, da Marocco, India, Pakistan?”
E ancora, urticante come l’Uriah Heep di Dickens, il mago s’interrogava: “E poi, chi si farebbe carico del loro sostentamento per i 15 giorni di quarantena obbligatoria all’ingresso in Italia?”
All’improvviso, una ventata lusitana: la regolarizzazione degli immigrati in attesa del permesso di soggiorno.
La trovata portoghese, però, sembrò da subito troppo ardita e oltremodo scostumata per le costumate usanze italiche.
C’era una volta un paese in cui, mentre le intelligenze manageriali s’impiccavano a un manipolo di neuroni, i frutti e gli ortaggi se la scialavano a contaminare la terra di polpa e di vitamine, bastevoli a sé stessi e alla rigenerazione della natura. Frattanto, lo spettro della lattuga a 10 euro turbava le notti insonni dei sudditi.
In tutto questo, i braccianti ammassati nell’antro?
Non pervenuti, liberi di estinguersi per contagio in una spicciolata di metri quadri.
E vissero tutti famelici e marcescenti.


giovedì 12 marzo 2020

L'assunzione e l'esempio di Troisi


A volte basterebbe un nonnulla per trasformare una legittima aspirazione personale in una battaglia (sindacale, politica, generazionale) collettiva.
Come sappiamo, una delle tre ricercatrici che hanno isolato il coronavirus, Francesca Colavita, per la “vocazione per la ricerca” e per la “lodevole attività professionale”, è stata finalmente premiata: da vergognosa precaria a meritevole “effettiva” allo Spallanzani di Roma.
Tutto giusto, per carità. Immaginiamo però per un attimo, un attimo solo, che la ricercatrice Colavita avesse reagito diversamente all’assunzione propostale; qualcosa del tipo: “Sono lusingata, ma la mia coscienza m’impone, mio malgrado, di rifiutare. La ricerca è stata portata avanti da tre dottoresse rigorosamente precarie: o ci assumete tutte con contratto a tempo indeterminato oppure…”
Come dite? Una cosa del genere si vede solo nei film o si legge esclusivamente in qualche feuilleton d’infima categoria? Eppure io vi dico che vi sbagliate di grosso.
Nel 1978, un allampanato Massimo Troisi fu avvicinato da alcuni funzionari della Rai. Gli proposero di farlo debuttare in televisione, nello specifico all’interno del programma che avrebbe costituito la fucina per eccellenza della comicità italiana: “No Stop”. A una sola condizione, però: che fosse disposto, senza colpo ferire, ad abbandonare i suoi amici d’infanzia nonché colleghi Enzo De Caro e Lello Arena.
Un dirigente Rai presente alla scena ha sempre dichiarato che la reazione di Massimo fu di una naturalezza sconvolgente: “Cioè io solo senza i miei compagni? No, io vi ringrazio, ma…nun se n’parla proprio. O tutt’e tre, o nisciuno.”
Morale della favola, il trio “La Smorfia” è stata una delle novità più originali, belle e seguite mai apparse in televisione.
Tornando alla nostra vicenda d’attualità, c’è da rilevare anche un altro aspetto: probabilmente, se la dottoressa Colavita si fosse comportata come il rimpianto Massimino, in ogni caso ne sarebbe uscita vittoriosa: se fosse stata assunta insieme alle altre colleghe, infatti, avrebbe lottato e vinto per sé e per le altre, oltre a ricavarne una pubblicità (positiva) di enorme valore; se, viceversa, i dirigenti dello Spallanzani fossero rimasti fermi nel loro aut aut, al momento sarebbe ancora precaria ma il polverone (anche mediatico) che si sarebbe alzato, avrebbe indotto qualche altro prestigioso istituto di ricerca ad assumere lei e pure le altre tre colleghe.
A volte occorrerebbe prendere le distanze dal proprio “particulare” per riportare una vittoria che trasudi riscatto.

giovedì 5 marzo 2020

Saramago ai tempi del Coronavirus


In “Cecità” dell’immaginifico José Saramago, si racconta dell’improvvisa e singolare cecità che colpisce un’intera cittadina. Gli amministratori locali, allora, per evitare oltremodo il diffondersi del contagio, pensano bene di internare i gruppi di ciechi in vari edifici.
Orbene, l’epidemia in atto serve al premio Nobel portoghese per evidenziare l’indifferenza e l’egoismo del genere umano con alcune, isolate eccezioni, come la moglie del medico: ella, infatti, perfettamente sana, pur di restare accanto al marito e di prendersene cura nell’edificio in cui questi è relegato, si finge cieca.
Fuor di metafora, anche l’impazzimento da Coronavirus paragonabile, almeno per ciò che riguarda l’isteria mediatica, alla cecità di Saramago, ci è utile per mettere in luce l’ingiustizia e l’inumanità di sistemi sanitarie e persone.
Osmel Martinez Azcue, un uomo di Miami appena ritornato dalla Cina con sintomi influenzali, ha avuto l’ardire di richiedere al Jackson Memorial Hospital un tampone per il Coronavirus. Ebbene, tornato a casa, l’amara sorpresa: si è visto recapitare una lettera a firma della sua compagnia di assicurazione che gli chiedeva di sborsare ben 3.270 dollari.
È la sanità americana, bellezza, un sistema, cioè, non universalistico, in gran parte in mano ai privati, a cui ha accesso solo chi dispone di coperture assicurative alte o chi può far fronte di per sé agli ingenti costi delle cure.
Poi ci sono le persone. Come l’autista di un bus di Napoli che, avendo visto una coppia cinese in attesa alla fermata, decide di tirare dritto e di lasciarli a terra tra l’ilarità generale dei passeggeri.
L’epidemia da Coronavirus, come nel romanzo “Cecità” di José Saramago, ci ha fornito anche esempi, pure qui di persone e sistemi, stavolta estremamente positivi.
Il giovane medico di Wuhan, Li Wenliang, che, dopo aver notato le analogie fra sette casi clinici, ha lanciato per primo l’allarme sul Covid-19, pagando con la vita il suo altruismo.
Per ciò che attiene al sistema sanitario, invece, l’esempio felice è fin troppo semplice, non foss’altro perché ce l’abbiamo proprio qui, sotto i nostri occhi: la sanità pubblica italiana che, malgrado alcune lacune, sprechi, inefficienze, nonostante la doppia velocità Nord-Sud, è ancora una delle più “giuste” del mondo.
Sta a noi vigilare per impedirne qualsiasi manomissione, soprattutto in chiave privatistica.
A proposito di “cecità”, quindi, teniamo gli occhi ben aperti sulla sanità pubblica.