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venerdì 25 settembre 2020

Tra precauzioni e rischio zero

 


Diciamocela tutta, il Covid 19 continua a gettarci in uno stato di prostrazione profonda perché ha minato le nostre sicurezze. I progressi della ricerca, il benessere sociale, infatti, ci avevano persuasi che l’unico pericolo per la sopravvivenza dell’uomo potesse venire da un attacco esterno (guerre, terremoti, terrorismo). Questo non significa, beninteso, che ognuno di noi, almeno una volta nella vita, non abbia dovuto fare i conti con qualche virus. Ricordo ancora con terrore, ad esempio, le lacrime di Pinuccio alla guida del Sì Piaggio trasportate dal vento nelle mie pupille che gli guardavano la schiena (“Sono perduto, mi ha mischiato sicuramente l’Aids!”). Eppure, dopo una prima fase irrazionale che materializzava untori a ogni angolo di strada, subentrava la consapevolezza che, evitando certi comportamenti a rischio, si era pressoché sicuri di scamparla: “Non mi drogo, non vado con gli omosessuali…a parte Giuseppina in odor di santità, non conosco altra donna, evito aghi e trasfusioni…”

Il Covid 19, invece, ci ha sorpresi nudi di fronte all’imponderabile. L’uomo occidentale, ormai relegata l’infezione pandemica a un contesto terzomondista, aveva ripreso a considerarsi arbitro unico e indiscusso della propria esistenza. Fino, appunto, alla nuova pandemia di cui, se solo avessimo avuto più memoria e maggiore senso pratico, avremmo dovuto prevederne l’arrivo e la possibilità che, una buona volta, sarebbe stata orfana del salvifico “rischio zero”. E già, perché è proprio questo il punto: al cospetto del Covid 19, non c’è sicurezza che tenga. Ognuno, per suo conto, può adottare tutte le precauzioni possibili come indossare la mascherina, limitare le uscite a quelle indispensabili, detergersi continuamente le mani, etc. Eppure, tutti questi comportamenti virtuosi, nessuno escluso, non ci garantiscono l’immunità. Basta, per capirci, soffermarci sulle mascherine. Moltissimi di noi la utilizzano male. Praticamente tutti, poi, indossano la stessa mascherina più tempo di quanto dovrebbero (4-6 ore). Quindi è sufficiente che qualcuno della nostra cerchia di contatti indispensabili la usi in maniera non ortodossa, per far andare a farsi friggere il fantomatico “rischio zero”. Se poi si passa alla detersione delle mani subito dopo aver toccato cose o superfici, la concreta impossibilità di farlo sempre, rende ancora più evidente quanto appena affermato.

All’università, il “principio di affidamento” mi aprì un mondo. Mi fece capire che malgrado tutte le cautele apprestate, ad esempio alla guida di un’automobile, per avere la “certezza” di evitare incidenti, bisogna giocoforza fare affidamento sulla uguale prudenza e rispetto del codice della strada da parte degli altri automobilisti. In altri termini, quindi, nemmeno nella vita di ogni giorno possiamo dipendere solo ed esclusivamente da noi stessi. Il che, a ben pensarci, è troppo spesso un bene.

Tornando alla nostra pandemia, dobbiamo adottare sicuramente le precauzioni prescritteci, e farlo in maniera corretta sia pure senza isterismi, ma dobbiamo anche liberarci dal cipiglio di “dalli all’untore” quando c’imbattiamo in un contagiato. A maggior ragione allorché la persona infetta sia stata, suo malgrado, solerte nel cercare di evitare ogni occasione di esposizione al virus.

Buona fortuna a tutti noi.

mercoledì 6 novembre 2019

Vitiligine? No, tatuaggio

Che cosa abbiamo in comune, io, Nanninella ‘a guasta, Michael Jackson, Francesco Cossiga, Winnie Harlow e, ultima in ordine di apparizione, Kasia Smutniak?

La vitiligine. Una malattia autoimmune, cioè, innescata dallo stesso organismo che, bello e buono, decide di strapazzare i melanociti rendendoli, così, incapaci di produrre melanina. Risultato? Comparsa di chiazze bianco-latte, di estensione variabile, che vengono a contaminare l’incarnato uniforme.

Avviso ai naviganti: la vitiligine non è contagiosa ed è una malattia esclusivamente estetica.

La prima volta che mi ci sono imbattuto, è stato quando ho conosciuto Nanninella ‘a guasta. In quell’occasione, la mia sensibilità di bambino alquanto impressionabile, venne urtata dalle sue dita quasi completamente bianche. Senza parlare, poi, di quell’acromia ai lati delle labbra che condannava Nanninella ‘a guasta a una sinistra risata anche quando era del tutto seria.

Ricordo che rimasi interdetto da quella visione. Col senno di poi, anche troppo, quasi come se avessi presagito che a distanza di una quindicina di anni, la stessa sorte, sarebbe toccata pure a me.

Come si reagisce alla vitiligine? Nel mondo-specchio in cui ci tocca vivere, dove qualsiasi imperfezione lede in maniera irrimediabile la nostra autostima, non bene. C’è chi, come il grande Michael Jackson, ha preferito sbiancarsi del tutto per evitare lo stridentissimo (per lui che era «nero») contrasto con le macchie bianche che hanno minato il suo corpo fin dall’adolescenza. E chi come l’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, a suo dire «sbiancatosi» in una sola notte per il fortissimo stress causatogli dal rapimento di Aldo Moro, portava la sua vitiligine con invidiabile disinvoltura.

Poi c’è chi, come la bellissima Kasia Smutniak, un giorno d’estate decide di ostentare sui social le sue macchie finalmente libere dal camoufflage.

«Io, crescendo, » ha scritto l’attrice con la sua vitiligine in bella mostra «ho imparato anche un’altra cosa, accettare non è sufficiente. Bisogna amare i propri difetti!».

Per quanto mi riguarda, da «vitiliginoso», ho imparato gradualmente a convivere con questo inestetismo (per rispetto a chi è affetto da malattie davvero invalidanti, mi sembra irrispettoso chiamare «malattia» questo disturbo della pigmentazione). Certo, ancora adesso, quando ti senti sulle mani, sulle gambe lo sguardo allarmato di chi non conosce la patologia, la prima reazione è quella di metterti le mani in tasca, nascondere la gamba più colpita dalla vitiligine dietro quello meno compromessa. Ma dura solo un attimo. Adesso, dall’alto della mia ultraventennale convivenza con la vitiligine, guardo il mio interlocutore con sorriso beffardo, non prima di offrire io stesso le mie mani e le mie gambe alla sua attenzione: «Non ci fare caso. Poiché tutti si tatuano l’inverosimile e poi se ne pentono, io ho deciso di disegnarmi spazi bianchi da riempire con qualcosa non appena avrò le idee chiare in proposito.»

E giù una doppia, complice risata.