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giovedì 30 luglio 2020

Il mare risarcito

L’ultimo bagno nel mare di Salerno, l’ho fatto a diciassette anni. Poi l’avvistamento di una blatta che ratta s’infratta nel chiavicone insieme al ferro arruginito che per poco non mi “spertusava” il piede, mi hanno fatto esclamare: “Mai più!”; non prima, ovviamente, di aver mandato giù un bestemmione che solo la distrazione del buon Dio mi ha impedito di espiare con la dannazione eterna.

Da qual momento, ho preferito la faticosa qualità alla comoda quantità: piuttosto che andare al mare tutti i giorni e scialarmela tra

Se a tutto questo ci aggiungi la nervatura che inevitabilmente monta per il viaggio in queste condizioni e il

Sabato scorso, però, “ e che cazzo!”, e giù l’ennesimo bestemmione (ancora una volta il buon Dio, per consentirmi di riportare il motivo di tanta rabbia, dev’essersi distratto): dopo il bagno ricco di tutte gli appesantimenti di cui sopra, nessuno escluso, mi dirigo, stanco ma soddisfatto, alla macchina. Mi blocco:

No, stavolta no, non ho bestemmiato. La mia lucida incazzatura ha scatenato il mio indomito diritto: agirò contro l’

Non esiste una

Il risarcimento

Vuoi mettere la soddisfazione di ricongiungersi con il proprio mare, finalmente pulito e ospitale, dopo ben ventisei anni di allontanamento?

giovedì 9 luglio 2020

Caro Dante...


Caro Dante,
probabilmente non ti ricorderai di me. Ci siamo incontrati in qualche manifestazione sicuramente non ascrivibile alla destra salernitana.
A volte capita, sai?
Ti confesso, ora per allora, che pur non amando l’attivismo a favor di telecamera, riconoscevo in te una ventata di novità. Non che mi convincessi pienamente, questo no, ma almeno guardavo con favore all’intraprendenza un po’ gigionesca ma efficace che ti contraddistingueva. E, ti dirò, ho continuato a seguirti anche in alcune iniziative che andavano nel solco di quella politica sociale di cui il nostro territorio ha un disperato bisogno (“Ripuliamo Salerno”, “ La casa del diritto alla salute”, “Le piazze del cuore”, etc.).
Poi, qualche settimana fa, la notizia che per combattere “il sistema neofeudale dei De Luca” e “il familismo amorale del Governatore in carica”, hai deciso di varcare il Rubicone: ti sei arruolato armi e bagagli nel centrodestra dell’ex Governatore Caldoro il cui consiglio regionale aveva 57 consiglieri su 60 indagati per “rimborsopoli”.
Non proprio una mossa geniale, direi.
Caro Dante, che dirti? Benvenuto nel carrozzone della “politica politicante”, di quella, cioè, capace di trasformare anche il “fiato sul collo” delle migliori intenzioni, nel vento in poppa dell’affermazione personale.
D’altro canto il tuo ragionamento è a tal punto ovvio, da far impallidire perfino il signore De La Palice. Hai sperato fino all’ultimo che De Magistris si candidasse alla Presidenza della regione. Quando ormai era chiaro che l’ex Pm non sarebbe sceso in lizza, l’unica alternativa che ti si presentava era la seguente: o schierarti con una costituenda lista di sinistra, o farti tentare dalle sirene salvo-meloniane.
Laddove non poté la coerenza, poté il calcolo politico: la forza del centrodestra, pur non in grado, con molta probabilità, di far eleggere Caldoro, riuscirà senza troppi patemi a farti guadagnare la consiliatura.
Caro Dante, la tua conseguenzialità non fa una piega. Una sola obiezione: c’è un popolo, quello della sinistra, che pur troppo spesso disastrato, vituperato, stanco di leccarsi ferite che non sempre si è inferto da solo, ha un orgoglio, una dignità che non può essere calpestata nemmeno, come nel caso che ti riguarda, “a tua insaputa”.
“Onore e rispetto”, come amate dire voi di destra, per la storia di queste donne e di questi uomini.
Si narra che il filosofo Democrito scelse Protagora come suo discepolo per l’abilità con cui quest’ultimo caricava la legna sul dorso di un mulo. Ebbene, caro Dante, parte della tua legna è stata affastellata con giudizio e abnegazione. C’è solo un problema: hai sbagliato clamorosamente il mulo sul quale caricarla.

giovedì 25 giugno 2020

La bambola che si taglia la pancia


A Pastena, all’inizio del muro che mena dritto al porticciolo, c’è un’opera d’arte. Il soggetto raffigurato è una bambina. Se ne sta seduta, con i capelli lunghi e lo sguardo serioso, mentre con la mano sinistra impugna le forbici. Con la mano destra, invece, agguanta un rigurgito di ciccia che viene prontamente catturato dalle due lame.
Sì, la sensazione è proprio quella della bambina che sta per tagliarsi quel sovrappiù di pancia.
L’autore di quest’opera di street art è il corrosivo inSerra. È inutile che cerchiate di appioppare un volto all’artista. In pratica, nessuno sa chi sia. Per lui, parlano le opere, diffuse soprattutto nel salernitano.
L’ultima a far discutere, è stato il Gesù crocifisso a un hastag: manco a dirlo, immediatamente censurata.
La prima volta che ho posato lo sguardo sulla bambina del porticciolo, sono rimasto spiazzato: possibile che una mocciosetta possa già rifiutare il suo corpo? E restavo a guardarla mentre, conoscendo lo stile provocatorio e di denuncia di inSerra, riflettevo sulla nostra società in grado fin dall’infanzia di inculcare modelli.
E sì perché quelle forbici aperte sulla pancia della bambina interrogano spietatamente ognuno di noi. Ci mettono di fronte all’impresa titanica, vissuta giorno per giorno, di discostarci quanto meno possibile da tutto ciò che è regolare. La diversità, anche quando si concreta in un arricchimento, fa paura, diventa un fardello da immolare sull’altare della nostra serenità.
Si sta bene quando si è in sintonia con l’esteriorità del mondo, allorché si rientra nei parametri di ciò che è consueto.
Il “monstrum” latino era sia la diversità che incute repellenza (Polifemo) sia la differenza che cova il prodigioso (la pianta nata dal cadavere di Polidoro le cui foglioline, strappate da Enea, gocciolavano sangue).
In italiano, quando si parla di “mostro”, si allude quasi esclusivamente a qualcuno, a qualcosa a tal punto diverso dall’ordinario, da risultare inaccettabile per i nostri canoni. Proprio come, a ben vedere, il grasso di cui si vuole disfare la bambina di inSerra.
Del miracoloso, non c’è rimasto praticamente niente.
Il diverso, in soldoni, presuppone un volo troppo ardito per le nostre comode ali di cera.

giovedì 4 giugno 2020

Giovi, la strada per il parto


C’è una strada, a Giovi. Oddio, detta così la cosa, sembrerebbe che ce ne fosse solo una, di strada a Giovi.  E invece no.

Quello che voglio dire, è che c’è una strada in particolare, a Giovi: quella che si snoda tra l’unico ufficio postale di Piegolelle e l’ultima curva panoramica di Bottiglieri. Ebbene, questa strada è un unicum per tutta Salerno. È si asfaltata, ci mancherebbe, ma lo strato di asfalto presenta, in ordine sparso, fossi, balze, crateri, dislivelli, gobbe, pantani, grattugie bituminose. Il tutto, manco a dirlo, amalgamato dalle bestemmie più o meno peccaminose di chi si trova a percorrerla.

Eppure, da circa un mese, anche questa strada ha trovato la sua ragion d’essere. Dopo infatti che gli autisti, i ciclisti, i cinghialotti multistrato del footing hanno rotto, nell’ordine, semiassi, ruote e caviglie, a Marcovaldo il tabaccaio si è accesa la lampadina.

Come tutte le cose destinate a cambiare il mondo, l’idea è nata per caso

“Tu vuoi favorire le contrazioni di tua moglie, che così te la sgrava presto presto la nennella? Venite in macchina con me e, senza nemmeno il tempo di dire “Madonna mia, aiutami!”, la femmina tua sarà già in sala parto.”

Com’è come non è, davvero la signora Brigida, dopo aver percorso il tratto di strada tra Piegolelle e Bottiglieri a bordo dell’auto di Marcovaldo, tra un dosso e un fosso, è stata assalita dalle contrazioni. A tal punto che se il tabaccaio non fosse stato lesto di acceleratore, avrebbe visto la sua tappezzeria a coste blu naufragare nelle “acque rotte” della signora Brigida.

È bastato quest’evento a far spargere la voce. E adesso, quando la gravida all’ultimo stadio si danna col maschio per ‘ste benedette contrazioni che non ne vogliono sapere di venire”, si sente addosso lo sguardo sornione del “mo me la vedo io.”

E così, dopo aver percorso la strada incriminata, non c’è altra via che non sia quella dell’ospedale o della clinica.

In conclusione, se all’ormai rinomata “passeggiata della partoriente” aggiungiamo anche l’avida lobby dei meccanici (ogni settimana almeno un giovese, cascasse il mondo, bussa alla loro saracinesca per il semiasse andato alla malora), non ci saranno santi che tengano: la strada che da Giovi Piegolelle mena a Bottiglieri rimarrà sempre così, sgarrupata da far ribrezzo, per omnia saecula saeculorum.

Requiescat in pace.

 

 

giovedì 7 maggio 2020

Salerno non è una città per pianoforte

Salerno non è una città per pianoforte. Certo, le iniziative musicali, soprattutto messe in campo dal Conservatorio “Giuseppe Martucci”, non mancano. Ma la mia asserzione , più che ai vari, meritori eventi organizzati anche con il patrocinio del Comune di Salerno, riguarda due parametri essenziali per chi voglia capire quanta cultura pianistica ci sia nella nostra città: le scuole di formazione e i negozi di vendita del pianoforte.
Procediamo per gradi: fino a tre-quattro anni fa, quando mi trovavo in zona, passavo sul trincerone, all’altezza di via Pietro da Eboli, solo per respirare l’aria di solfeggio e per ascoltare le “scale metodiche, tenaci, scorate” della scuola di musica (non ne ricordo manco più il nome) ubicata sopra una filiale di banca.
Più di una volta, quando qualche impegno non era troppo esigente con i miei minuti a disposizione, ho gironzolato sotto il balcone, arricchendo l’animo di ogni nota che l’allievo di turno decideva di regalarmi.
Da qualche anno, via Pietro da Eboli piange una scomparsa. Ovviamente, non della banca che è rimasta lì più indispensabile che mai, ma proprio della scuola di musica a cui mi aggrappavo per disegnare ghirigori di diesis e bemolle che addolcivano le mie pause.
Veniamo al secondo parametro, quello dei negozi di vendita del pianoforte. Alzi la mano il lettore, anche il più distratto, che non abbia notato come all’intersezione tra via Diaz e via Manzo, da qualche anno, l’idra dalle innumerevoli teste del profitto abbia cancellato la presenza di “Napolitano Pianoforti.”
Questo negozio non si limitava solo a vendere pianoforti. Forniva anche personale qualificato per accordare lo strumento oltre che vendere libri di musica.
Uno dei miei primi spartiti che mi fece finalmente mettere le mani sulla tastiera, l’ “Ave Maria” di Schubert, ovviamente in versione semplificata, lo acquistai proprio da “Napolitano Pianoforti.”
Un pomeriggio d’inverno, nonostante la mia arte pianistica sia tuttora appena mediocre, ricordo di aver trascorso in questo negozio più di tre ore a strimpellare il Petrof  marrone e lo Steinway & Sons nero. Allorché scorgevo un smorfia d’impazienza sul titolare del negozio, me ne uscivo con la scusa che stavo cercando la sfumatura di suono che mi avrebbe finalmente convinto ad acquistare un modello piuttosto che l’altro.
Ebbene, quando passo di lì, non posso che considerare la chiusura di “Napolitano Pianoforti” non già come qualcosa che riguarda le vicissitudini di un singolo commerciante, ma, come per la chiusura della “Libreria Internazionale” per ciò che attiene ai libri, un abbrutimento dell’intera città.
Per la cronaca, al posto della storica “Napolitano Pianoforti”, si è aperta un’agenzia immobiliare. Ora, se avete bisogno di acquistare e/o cambiare abitazione, vi basta fare una puntatina qui, in via Diaz, non prima, ovviamente, di aver acceso un mutuo allo sportello in via Pietro da Eboli: nell’altro tempio, quindi, che è sorto sulle rovine di un incommensurabile universo bianco e nero.
Salerno, decisamente, non è una città per pianoforte.

martedì 17 marzo 2020

Melissa e Vinicio



Non c’è un modo giusto di reagire alle disgrazie. Ancora di più quando il dolore che ci colpisce trancia di netto le nervature della nostra umanità. Eppure ci sono delle persone che trasudano dignità pure nella disperazione più cupa.
Questa riflessione l’ho maturata appena dopo la morte di Melissa. Avrei voluto scrivere di lei subito, sull’onda della commozione per la sua tragica fine. Poi, però, mi sono detto: «Non puoi parlare di Melissa. Non l’hai mai conosciuta.» Ho desistito quindi, ma una parte della mia mente è rimasta vigile sulla vicenda, come se avessi un inspiegabile debito nei confronti della giovane salernitana. Ho letto gli articoli sui giornali. Ho seguito i post degli amici colmi di rabbia e disperazione. Ho assistito al cordoglio di una città afflitta per l’assurda morte di Melissa.
A un certo punto, del tutto involontariamente, ho iniziato a focalizzare la mia attenzione sul padre della ragazza.
Premetto: conosco Vinicio da molto tempo. Abbiamo giocato qualche partita di calcetto assieme e mi ha sistemato, un po’ di tempo fa, un dente ballerino.
Eppure mi sono ben presto convinto di non conoscerlo affatto, nemmeno superficialmente.
E così ho letto i suoi post su facebook. Ho raccolto le sue dichiarazioni sui giornali. Poi, il giorno dei funerali di Melissa, malgrado normalmente accampi mille scuse per non partecipare a simili celebrazioni, qualcosa mi ha obbligato a essere presente lì, in una San Mango gremita, per tributare l’ultimo saluto a Melissa.
Vinicio ha ricordato dal pulpito sua figlia con una sensibilità che mi ha toccato da subito le corde dell’anima. Ci ha reso partecipi del sorriso dei «tutto a posto!» con cui Melissa era solita stigmatizzare le piccole e grandi inquietudini della nostra quotidianità. Ci ha fatto vedere le sue dita emozionate che stringevano i biglietti per la partita dell’amata Juventus. Ci ha svelato la bramosia di una figlia che non può essere incanalata nella palude stagnante della morte. Ecco, a questo proposito, seguendo le suggestioni delle parole del padre, ho soppiantato immediatamente l’immagine statica della palude con quella di un oceano sferzato dai flutti. Già, proprio cosi: l’unico aldilà in grado di incamerare l’energia coinvolgente di Melissa, probabilmente è proprio un guazzabuglio di onde che s’impennano al ritmo delle sue esplosioni di vita.
Il feretro è scivolato via come una nave su un mare di teste fluttuanti. A un certo punto, Vinicio è stato assalito da un nugolo di persone che gli si stringevano attorno, lo baciavano, gli manifestavano in ogni modo il loro cordoglio.
Io non ho avuto il coraggio di avvicinarmi a lui. Non ho avuto la forza di affrontare quel padre che, pur annientato dal dolore, rincuorava lui chi era venuto lì per rincuorarlo ma che non era stato forte abbastanza da portare a termine il suo compito.
Il mio debito verso Melissa è saldato. Oggi posso scrivere di lei perché oggi finalmente la conosco. E conosco Melissa proprio attraverso la dignità e la compostezza di Vinicio, un padre e un uomo di cui la figlia sarebbe stata, ancora una volta, orgogliosa.