Visualizzazione post con etichetta Recensioni. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Recensioni. Mostra tutti i post

martedì 6 dicembre 2022

La ferocia dello Strega



Non c’è tregua, nessuna redenzione. È un gorgo pestilenziale, una cloaca che alimenta squittii e occhi rossi. E non è un caso che topi intossicati da miasmi e reflui industriali fanno capolino più volte in questo libro.

Siamo in Puglia. Vittorio Salvemini è il più scontato dei palazzinari. Dal niente, con spregiudicatezza e spirito della fiera, mette su un impero. Ci sono ostacoli da rimuovere, persone da persuadere, scorie da smaltire. D’altronde, ogni uomo ha un prezzo, tutte le idee possono essere addomesticate. E Vittorio fa tutto questo, senza accorgersi delle tossine che i corpi a lui più vicino, quelli cementizi del complesso turistico di Porto Allegro e quelli viscerali dei suoi figli, accumulano oltre la soglia di tolleranza. Per i primi, c’è il sequestro conservativo che è necessario scongiurare, per i secondi il Minotauro dell’ambizione che esige il suo tributo di carne e sangue: Clara, la tormentata Clara, che nel momento in cui ha preso coscienza dell’emarginazione di Michele da parte della famiglia, si è lasciata andare. Tradimenti continui, cocaina, rapporti equivoci. Fino a quando, nutrita di quelle botte che a volte il sesso malato esige, non viene scorta, nuda e sanguinante, sulla statale Bari-Taranto. L’impatto. La morte. Che non può essere quella che appare. E allora, via al caravanserraglio di perizie addomesticate, di certificati farlocchi, di un suicidio che rimetterebbe tutto a posto.

Ma c’è Michele: il fratellastro di Clara, il figlio di Vittorio e di una scappatella che non ha mai chiesto niente. Che, nel risolvere i problemi di geometria, si fermava sempre a metà del compito perché perseguiva nuove strade per arrivare alla stessa conclusione. Michele che, a un certo punto, vive in simbiosi con Clara e che, all’improvviso, lo troviamo a parlare da solo davanti a una piantina della serra. Impazzisce, Michele. Poi sembra rinsavire, ma non perde mai il filo che lo lega alla sorella oltraggiata.

Dopo la morte di Clara, spetta a lui rendersi esecutore testamentario delle sue volontà. È Michele che rovista nel marcio della famiglia e degli affari, ma sono Michele e Clara, entrambi carne morta nutrita dal fallimento della stessa esistenza, a portare alla luce la verità.

Il giudice per le indagini preliminari rigetta la richiesta di sequestro di Porto Allegro. La famiglia Salvemini tira un respiro di sollievo. Si prepara a riprendere la vita di sempre, quell’esistenza apparecchiata sulle membra vilipese della derelitta Clara.

Michele è lì, acquattato appena ai margini del ritorno ai fasti di un tempo. Sorride, perché sa che proprio lui, il più improbabile dei vendicatori, ha il detonatore per far deflagrare tutto. Ormai è chiaro, solo ricacciando la bestia famelica nelle fogne da cui la ferocia l’ha evocata, due vite, quella finita di Clara e l’altra disadattata di Michele, potranno continuare ad avere un senso.

“Corri in una piazza piena di colombi e li vedrai volare. Trovami il colombo che non vola”.

Ecco, Michele e Clara, al di qua e al di là delle rispettive esistenze, hanno smesso di volare.

 

  

mercoledì 26 agosto 2020

"Il cane giallo", Georges Simenon

 


Siamo in pieno inverno. L’orologio si prepara a battere le 11. Un uomo, evidentemente brillo, esce dall’Hotel de l’Almiral. Sente l’esigenza di accendersi l’ultimo sigaro. Le folate di vento, però, puntualmente gli spengono un fiammifero dopo l’altro. L’unica è trovare riparo in un portoncino. All’improvviso, il fumatore vacilla, ed è già disteso con la testa nel rigagnolo fangoso. Unico testimone, a parte il doganiere che assiste alla scena da lontano, un cane giallo.

Pane per i denti per l’arguto Maigret.

L’indagine ha come fulcro l’Hotel de l’Almiral con il suo gruppetto di avventori abituali: il viceconsole di Danimarca Le Pommeret, il dottor Michoux, il giornalista Jean Servieres. Al netto delle professioni e delle cariche più o meno altisonanti, i frequentatori dell’Hotel de l’Almiral appartengono alla genia dei perdigiorno convinti di poter fare il bello e il cattivo tempo a Concarneau.

Quando fa ingresso per la prima volta all’hotel, Maigret scorge il cane giallo accucciato ai piedi di Emma, la cameriera del locale,  impigliata nelle meschinerie che spesso ingannano l’attesa del grande amore.

Maigret, nei pochi giorni di permanenza, assisterà, nell’ordine, a un tentativo di avvelenamento, a una scomparsa che si rivelerà una messinscena, a un altro avvelenamento, stavolta riuscito.

Sullo sfondo, le ire del sindaco alla ricerca di un colpevole “purchè sia”, la masnada di giornalisti che affollano le sale dell’Hotel de l’Almiral per informare dell’ultimo colpo di scena, la popolazione di Concarneau atterrita per quell’atmosfera mortifera che sembra aleggiare sulla città.

L’apparizione di un energumeno che ha le stimmate del colpevole, di una mamma pronta a fornire l’alibi al figlio, saranno ulteriori nodi, loro malgrado, della matassa che il buon Maigret saprà dipanare. E tutto ciò, facendo ricorso a quella sua metodologia di lavoro così poco ortodossa, fondata com’è sull’intuizione piuttosto che sulla deduzione.

“Arrivando qui,”- spiega sornione al giovane ispettore Leroy che rimane spiazzato dal suo modo di fare – “mi sono trovato davanti a una faccia che mi è piaciuta e non l’ho più mollata”.

Il compassato Maigret, ancora una volta, sembra prendersi gioco di tutti gli investigatori “scientifici” in grado di poter incastrare il colpevole con la sola disamina dell’usura del vestito che indossano.

Il giallo è risolto, facendo ricorso anche a una copertura che consente all’ “umano” Maigret di risarcire un amore per troppo tempo, e con troppa malvagità, avversato.

 

 

giovedì 25 giugno 2020

La bambola che si taglia la pancia


A Pastena, all’inizio del muro che mena dritto al porticciolo, c’è un’opera d’arte. Il soggetto raffigurato è una bambina. Se ne sta seduta, con i capelli lunghi e lo sguardo serioso, mentre con la mano sinistra impugna le forbici. Con la mano destra, invece, agguanta un rigurgito di ciccia che viene prontamente catturato dalle due lame.
Sì, la sensazione è proprio quella della bambina che sta per tagliarsi quel sovrappiù di pancia.
L’autore di quest’opera di street art è il corrosivo inSerra. È inutile che cerchiate di appioppare un volto all’artista. In pratica, nessuno sa chi sia. Per lui, parlano le opere, diffuse soprattutto nel salernitano.
L’ultima a far discutere, è stato il Gesù crocifisso a un hastag: manco a dirlo, immediatamente censurata.
La prima volta che ho posato lo sguardo sulla bambina del porticciolo, sono rimasto spiazzato: possibile che una mocciosetta possa già rifiutare il suo corpo? E restavo a guardarla mentre, conoscendo lo stile provocatorio e di denuncia di inSerra, riflettevo sulla nostra società in grado fin dall’infanzia di inculcare modelli.
E sì perché quelle forbici aperte sulla pancia della bambina interrogano spietatamente ognuno di noi. Ci mettono di fronte all’impresa titanica, vissuta giorno per giorno, di discostarci quanto meno possibile da tutto ciò che è regolare. La diversità, anche quando si concreta in un arricchimento, fa paura, diventa un fardello da immolare sull’altare della nostra serenità.
Si sta bene quando si è in sintonia con l’esteriorità del mondo, allorché si rientra nei parametri di ciò che è consueto.
Il “monstrum” latino era sia la diversità che incute repellenza (Polifemo) sia la differenza che cova il prodigioso (la pianta nata dal cadavere di Polidoro le cui foglioline, strappate da Enea, gocciolavano sangue).
In italiano, quando si parla di “mostro”, si allude quasi esclusivamente a qualcuno, a qualcosa a tal punto diverso dall’ordinario, da risultare inaccettabile per i nostri canoni. Proprio come, a ben vedere, il grasso di cui si vuole disfare la bambina di inSerra.
Del miracoloso, non c’è rimasto praticamente niente.
Il diverso, in soldoni, presuppone un volo troppo ardito per le nostre comode ali di cera.

martedì 9 giugno 2020

"Non so", di Lorenzo Licalzi


Ci sono dei libri che, in situazioni normali, non compreresti. Poi ti soffermi a leggere la quarta di copertina color Tex Willer, e scopri che tu e il protagonista avete in comune un’esperienza che merita approfondimenti. E così, senza nemmeno accorgertene, il libro di Lorenzo Licalzi diventa il tuo nuovo compagno di viaggio.

Mario Dominici, fin dalla fanciullezza vissuta in periferia, “sa di non sapere”. E di questo “non so” si fa scudo per approcciarsi alla vita.

Io faccio parte di quella percentuale minima di italiani che ai sondaggi risponde non so.

Michel, il suo amichetto immaginario, lui sì che sa come si affronta la realtà. E tutta la vicenda di Mario, dalle angheria infertegli dal disadattato Solinas (a volte ritornano!) fino al riconquistato rapporto con il piccolo Leonardo, può essere vista come la necessità, lui eterno Willy il Coyote, di acciuffare finalmente l’inafferrabile Beep Beep.

Dall’amore per la musica dell’adolescenza che lo porta a lavorare e a dormire in radio, alla necessità del viaggio on the road anche nelle condizioni più estreme.

E come non parlare, poi, dell’amore della sua vita, quella Giulia che, pur partendo da un retroterra socio-culturale assai distante dal suo, si spoglia delle sue sovrastrutture fino a rivelarsi l’incastro perfetto per l’immaturo Mario? Senza contare, infine, l’improvvisa paternità che costringerà il protagonista a fare finalmente i conti con la sua vera natura e a imporgli un corso accelerato di crescita. È un percorso iniziatico, il suo, che non potrà fare a meno delle cadute che il tragitto porta inevitabilmente con sé: il viaggio in Giappone per mettersi alla prova e osare di più rispetto al comodo posto in banca confezionatogli dal suocero. Ma qui, ecco apparire la conturbante e mistica Naoko che sembra uscita pari pari da un libro di Murakami e che probabilmente sarà decisiva per salvare la vita di Giulia.

Sarà vero che in un’altra vita è stata l’anima gemella di Mario?

Alla fine, tra la voglia di dare una sorellina a Leonardo, la ripresa di quel viaggio rimandato alla soglia delle responsabilità e un lavoro che è finalmente confacente alla passione del protagonista, Giulia e Mario sono, ora sì, consapevoli dell’indispensabilità dell’una per l’altro.

E il “non so” di Mario, da autentica indecisione, si trasformerà in un’invincibile arma politica  (basterebbe questo per creare scompensi inimmaginabili alla cosiddetta società capitalistica avanzata).

Un libro giovane e fresco, questo di Licalzi, che incuriosisce e crea complicità tra scrittore e lettore; a tal punto da poterne trarre un film (i tempi cinematografici ci sono tutti) anche meno leggero di quelli che, di solito, vengono ispirati da opere del genere.

martedì 26 maggio 2020

"Regalo di nozze", di Andrea Vitali


Eccolo qui, Ercole Correnti. Ha ventinove anni, e tra qualche giorno pronuncerà il fatidico sì.

Frattanto s'affretta a raggiungere mamma Assunta per la consueta cena. Oddio, a esser sinceri, più che attratto dal desco non propriamente da gourmet (“sua madre ai fornelli non ci sapeva fare”), Ercole vuole arrivare in tempo per celebrare, come si conviene, la sua ultima domenica da scapolo.

Sul lungolago, però, all’improvviso una visione: una 600 bianca precisa’ntifica a quella di suo padre Amedeo. A un tempo, la prima e unica autovettura acquistata da suo padre e la prima e l’ultima che lo zio Pinuccio aveva guidato.

Già, lo zio Pinuccio!

Aveva trentott’anni ma ne dimostrava al massimo trenta. Cacciaballe impunito  soprattutto “quando aveva sottomano qualche donna da circuire”, arbiter elegantiarum (“per me l’eleganza è tutto”), quella sera di vent’anni addietro se ne uscì con la proposta monstre: mentre la famiglia era impegnata nel rituale (“rito coordinato, quasi che dietro ci fosse una regia”) del gettare gli avanzi ai gatti del quartiere, infatti, dall’angolo delle proposte indicibili sgaiattolò fuori un:«Perché domani non ce ne andiamo a fare una bella gita al mare

Dopo un attimo di sconcerto, tra lo scuotere della testa della mamma “come per scacciar via delle mosche” e le braccia allargate del papà, il «sì» entusiasta del raggiante Ercole ebbe la meglio.

Anche lui avrebbe visto finalmente il mare.

La 600 bianca, dopo mille giri a vuoto, qualche conato di vomito del piccolo Ercole e le imprecazioni post strada immancabilmente sbagliata, porta la famiglia Correnti a destinazione. Manco il tempo di godere, trafelati e spossati, di quell’enorme distesa d’acqua, che una foto scattata solo per finta riporta Ercole, Amedeo, Assunta e Pinuccio nei circuiti delle piccole manie di provincia.

Una mancanza, fulminea, inaspettata (“Allo zio Pinuccio non bastò passare tutta la notte in veglia per comprendere che…era davvero morto”). Il tempo per elaborare il lutto, e la decisione inaspettata di sposarsi: "era giunta l’ora di mettere la testa a posto."

La 600 bianca, ancora lei, che assume le vesti del regalo di nozze per lo zio Pinuccio, ex “nato gagà”. Eppure le acque del lago, a volte, sanno essere davvero voraci. Una curva, un fuoripista, e le gesta dello zio Pinuccio vengono consegnate, armi e bagagli, alla leggenda di Bellano.

Di fronte alla mamma, alla vigilia del suo matrimonio, Ercole Correnti aggiunge l’ultimo tassello alle mirabilia dello zio Pinuccio: la leggendaria gita al mare di vent’anni addietro era stata architettata e posta in essere per sfuggire a un altro, di matrimonio; stavolta e per sempre, avvolto nelle nebbie dell’irrimediabilità. E purtuttavia, senza rancore, come dimostra quella foto che adesso Ercole si trova a rigirarsi, sorridente, tra le mani.

“Di fronte a uno che sa raccontare, che ha la felicità del racconto, ti senti grato” (A. Camilleri)

 

 

lunedì 11 maggio 2020

"Canone inverso", di Paolo Maurensig

Un gentiluomo si vede recapitare un pacco all'albergo in cui alloggia. Sa già cosa contiene l'involucro: un preziosissimo violino di Jacob Stainer (uno dei più apprezzati liutai tirolesi del '600) che si è aggiudicato a un'asta di strumenti musicali per una cifra più bassa rispetto al suo valore intrinseco.
Piccolo particolare dello strumento: una testina antropomorfa intagliata sul cavigliere (...) Si sarebbe detto un mammelucco, dai lunghi baffi spioventi, l'espressione feroce, e la bocca spalancata come in un urlo di dolore o di maledizione.
"Dolore" e "maledizione" che ben presto, l'ospite venuto nella camera d'albergo (uno scrittore in cerca di una storia di musica da raccontare) a prendere atto di una sconfitta (avrebbe potuto e dovuto aggiudicarselo lui, il violino) intreccia in una trama puntellata da note musicali e solitudini acuminate come i freddi inverni del nord.
Una notte, in una taverna, un saltimbanco con violino vende la propria musica al miglior offerente. Dopo un po', si dichiara pronto a imbrigliare la melodia del suo strumento con la richiesta musicale che lo scrittore e musicologo vorrà avanzargli: la Ciaccona di Bach (pezzo difficilissimo) al prezzo di mille scellini.
Una provocazione, senza dubbio, che nessuno strimpellatore di strada avrebbe potuto soddisfare. A meno che sotto le mentite spoglie del musico ambulante non si nascondesse un musicista di indubbio talento. Già, proprio così.
E la impervia Ciaccona non solo viene eseguita, ma addirittura eternata da un violinista di prima grandezza.
Quali esperienze traumatiche, quali fallimenti si nascondono nell'animo di chi, per talento, avrebbe potuto calcare i palcoscenici dei teatri più celebri al mondo?
In un'altra notte, davanti a un altro tavolo di un bar, il musicista Jeno Varga si racconta: dall'infanzia povera dove il padre, che prima o poi tornerà con il colbacco ben calzato sulla fronte, la mantellina sulla spalla, in arcione a un baio nervoso, gli ha lasciato un violino in dote, al suo talento musicale che ben presto gli farà spalancare le porte dell'austero e snervante Collegium Musicum; dall'incontro con la travagliata Sophie Hirschbaum che gli ammalierà il cuore, a quello con l'altro da sè collega di studi, Kuno Blau, con la sua grandezza musicale che non può che essere tramandata da geni beffardi, loro sì, verso gli umilissimi natali di Jeno Varga.
Eppure, la posizione del violinista avrebbe dovuto mettere sulla buona strada il lettore un attimino più accorto. A che mi riferisco?
Avete mai riflettuto su quanto sia innaturale la posizione del violinista? Toglietegli lo strumento dalle mani mentre è intento a suonare e guardatelo: quegli arti irrigiditi, quegli occhi semichiusi, quella pronazione dell'avambraccio sinistro e la testa riversa da un lato, non vi ricordano la deposizione dalla croce del Cristo?
E come per ogni croce c'è una testa, così, per ogni melodia, vi è un'imitazione che le si sovrappone progressivamente e fa muovere la voce conseguente in moto contrario alla voce antecedente: il canone inverso, per l'appunto, che viene a unire indissolubilmente le sorti di Jeno Varga a quelle di Kuno Blau.
Sullo sfondo, per tutto l'accattivante romanzo, il filo conduttore della musica ragione di vita che può condurre, in determinati ed estremi casi, anche alla morte. E ciò accade quando il tempo delle marce che apparecchiano l'olocausto mondiale mal si accorda con le atmosfere trasognate del violino.