Il camminare presuppone che a ogni passo il mondo cambi in qualche suo aspetto e pure che qualcosa cambi in noi. (Italo Calvino)
lunedì 9 gennaio 2017
"L'oro di Napoli", di Giuseppe Marotta
domenica 30 ottobre 2016
"La Camorra e le sue storie", Gigi Di Fiore
Ieri sera, alla libreria Feltrinelli di Salerno, per iniziativa dei Meridionalisti Democratici, è stato presentato il libro del giornalista e saggista Gigi Di Fiore, La camorra e le sue storie, UTET, 2016.
martedì 6 ottobre 2015
Maurizio Sarri e i calli del pianista
Maurizio Sarri…e lo so che mo voi, lettori assidui di questo scribacchino, volete sapere che c’azzecca l’allenatore del Napoli con i calli del pianista, ma se avete soltanto un briciolo di pazienza (cosa non si fa per generare un po’ di suspence!), il busillis “l’è bello” che chiarito.
Procediamo per gradi. La prima volta che sento associare il nome di Sarri al Napoli, è da parte di Pasqualino, napoletano pur residente ad Angri, avvocato nonostante il suo cursus studiorum si sia incagliato nelle secche delle due procedure.
Ebbene il caustico Pasqualino così sentenzia alla ferale notizia: <Allenatore mediocre, squadra mediocre: chi si assomiglia, si piglia.>
Al mio cervello alternativo, invece, Maurizio Sarri evoca due aneddoti. Il primo, sicuramente vero perché raccontato da lui stesso, quando Samuel Eto’o, al termine della partita Empoli-Sampdoria, si dichiara onorato di conoscere il mister e Sarri, con quel brio toscano contaminato da franchezza tutta napoletana, chiede esterrefatto al giocatore se per caso non lo stia “prendendo per il culo” (“Lui è Samuel Eto’o!”).
Il secondo episodio che si affaccia alla mia memoria, non del tutto accertato ma comunque rivelatore dell’uomo Sarri, è la reazione che pare avesse suscitato in lui la raccomandazione di un giornalista:<Mister, se vuole fare colpo su Berlusconi, si presenti sulla panchina ben rasato (il cavaliere odia i visi trascurati) e in giacca e cravatta.>
Non so cosa abbia risposto Sarri. Mi piace immaginarlo mentre pianta lo sguardo sornione, inutilmente camuffato dalla montatura sgraziata, sulla faccia a culo di gaddrina del Pippo Ragonese di turno.
Com’è e come non è però, sta di fatto che alla partita contro il Milan, mister Sarri si presenta in tuta (cosa che, peraltro, fa sempre) e con una barba così lunga da far impallidire il fosco Barbanera.
E, anche da questo episodio, ecco farsi strada la vulgata dell’allenatore comunista. Diceria, quest’ultima, che troverebbe conferma nelle sue affermazioni oltreché nei suoi comportamenti.
A chi gli chiede, velenoso, se non sembra strano che molti allenatori, nonostante risultati più modesti dei suoi, guadagnino di più, lui risponde secco:
Non scherziamo veramente. Sono figlio di operai, ciò che percepisco basta e avanza. Mi pagano per fare una cosa che avrei fatto la sera, dopo il lavoro e gratis. Sono fortunato.
Ai colleghi che vanno in panca agghindati che manco la star del momento sul red carpet, mister Sarri oppone la tuta da operaio del calcio magari inzaccherata un attimo prima da uno sberleffo di Insigne.
Agli altri mister che diventano tali per naturale cooptazione dal sistema senza, in molti casi, aver mai conosciuto la panchina, Maurizio Sarri risponde con una gavetta chilometrica partita su una panca di Seconda Categoria del paesello di Stia fino ad arrivare, alla rispettabile età di 56 anni, al Napoli di Higuain e Insigne.
Certo, a completare la disamina del personaggio, ci sarebbe l’intelligenza mostrata nell’abbandonare, dopo appena un paio di partite, lo schema di gioco che tanta fortuna gli ha procurato ad Empoli per sostituirlo con un altro, il 4-3-3, più rispondente al “materiale umano” a sua disposizione (Benitez, tanto per fare un esempio, che pure è una persona intelligente, non ha mai neppure preso in considerazione l’onta di disconoscere il suo credo tattico).
Come non parlare, poi, della personalità di mister Sarri che, al cospetto di un top player come Higuain, addirittura lo stuzzica dicendo che solo impegnandosi di più riuscirà a diventare (e Higuain lo fa!) uno dei migliori attaccanti del mondo.
Qualora tutto questo non fosse
sufficiente per apprezzarlo (per me lo è stato fin da subito, checché ne
dicesse l’altezzoso Pasqualino), c’è da registrare la risposta che
Maurizio Sarri ha dato, non più di qualche settimane fa alle critiche, anche gratuite, di Maradona
(“Giocando così, il Napoli non arriverà neanche a metà
classifica.”):<Maradona resta il mio idolo, – ha precisato Sarri
– può pensare e dire ciò che vuole.”. Una risposta, a ben
vedere, figlia dell’intelligenza, della “cultura da libri” e di
quell’essere, con tutto il rispetto possibile, figlio ‘e zoccola che solo il popolo napoletano può capire.
Ah, già, dimenticavo: e i calli del pianista?Tu guardi Sarri, le sue spalle strette,
la sua tuta a mo’ di seconda pelle, e pensi, sulla falsariga di
Pasqualino:”Allenatore perdente.”
Tu guardi una mano tozza, piena di calli, le unghie sporche, e pensi:”Mano da fravcatore.”
In entrambi i casi, sbagli. Il primo è un signor allenatore, il secondo, proprietario di quelle improbabili mani, è un valente pianista.
lunedì 5 gennaio 2015
Il respiro di Napoli (su Pino Daniele)
Il respiro di Napoli, arrochito dalla pietra lavica del Vesuvio, affannato dai miasmi dei roghi tossici, eternato dagli squarci di storia infinita…
Nei polmoni abusati eppure capaci di sempre nuovi immagazzinamenti di vita, vi è stato un momento di pucundria. Una pausa che ha atrofizzato, sia pure solo per un attimo, gli alveoli che incamerano l’addore ‘e mare e lo trasformano in mille culure.
Il respiro di Napoli si è strozzato in gola. È morto Pino Daniele.
Per trenta secondi, la città si è cristallizzata in un dagherrotipo del tempo presente, eppure già imbrigliato nel passato di un’assenza.
Napule è ‘na carta sporca…
Ogge è deritto, dimane è stuorto, e chesta vita se ne và…
E nui passammo e uaie e nun puttimmo suppurtà e chiste invece e rà na mano s’allisciano se vattono se magniano a città…
E ancora, perché i trenta secondi dei grandi si misurano in emozioni, il blues napoletano di un nero a metà, l’oggi è sabato, domani non si va a scuola di ogni ultima ora di religione, il quanto costa la felicità delle prime riflessioni sul senso della vita; infine, l’a me me piace chi dà ‘nfaccia senza ‘e se fermà’, rimuginato davanti a ‘na tazzulella ‘e cafè, quanno chiove e avresti voglia di mettere tutti ‘nfaccia ‘o muro.
Al respiro di Napoli basta anche solo questo primo universo di musica di Pino Daniele, per avvertire l’esigenza di fermare il cuore del suo microcosmo.
Come le era capitato di fare anche per Massimo Troisi, che aveva rivestito di immagini le semiminime e gli accordi della chitarra di Pino Daniele.
Il respiro di Napoli, però, inizia a insufflare aria non appena viene solleticato da un altro garage del Rione Sanità, dove un giovane cerca il riscatto tra le corde di una chitarra; quando viene pungolato da un ennesimo scugnizzo che imbraccia uno strumento troppo pesante di fatica per essere studiato nelle aule leggere del Conservatorio.
Il gorgoglio di vita chiede di poter sfociare in un rigurgito di aria allorquando assiste all’incontro tra un chitarrista e un attore che continueranno a declinare, servendosi di musica e celluloide, il genio di Napoli nel mondo.
Troppa aria viene immagazzinata nei polmoni. È giunto il momento di riattivarsi.
Il respiro di Napoli riprende ancora una volta a dare senso alla vita.
E cammina, cammina vicino ò puorto / e rirenno pensa a’ morte / se venisse mò fosse cchiù cuntento / tanto io parlo e nisciuno me sento…
Addio Pino, e quanto ti sbagliavi nel pensare che la morte potesse rendere afona la tua voce di chitarra e poesia!
martedì 16 dicembre 2014
“Vita di Luciano De Crescenzo scritta da lui medesimo”, di Luciano De Crescenzo
Vita di Luciano De Crescenzo scritta da lui medesimo”
Un’esistenza, infine, irriverente alla stregua dell’ingegnere regimental della IBM che si fa rivoluzionare la vita dai filosofi presocratici.
La vita di De Crescenzo ti esplode tra le mani come un carillon di musica e magia abbandonato tra i titoli di Borsa di Piazza Affari. E tra una piroetta della ballerina che da cinquant’anni si ostina a seguire quelle scarne, acute note metalliche e lo sguardo ammirato del rampante finanziere allevato a play station e virtualità, eccoti squadernare davanti agli occhi la serie di personaggi, a tal punto strabilianti da non poter essere altro che veri, della vita dello scrittore: la mamma, che dopo aver criticato un attimo prima l’esibizione in RAI di Ella Fitzgerald (“secondo me, i negri dovrebbero cantare per i negri e i bianchi per i bianchi”), risponde all’intervistatrice telefonica che le chiede un giudizio sull’artista che questa cantante le piace moltissimo perché “se io dicevo che non mi piaceva, quella poi la RAI la licenziava e questo non sta bene: chella è già accussì nera!”; il padre, anticonsumista sfegatato, che impone l’acquisto delle scarpe solo nel negozio di Stefanino Buontempo che, poiché quest’ultimo “aveva mollato, praticamente sull’altare” una loro parente, adesso è obbligato a praticare lo sconto del 30%, “vita natural durante, su tutti gli articoli del negozio”; e poi, ancora, come non citare zio Luigi, ‘o pallista, che giura e spergiura che Hitler non è tedesco, ma nato a Predappio come Mussolini (“…ma può essere che non t’accorgi che è un travestito! Hai visto i capelli che tiene? (…) E il baffetto posticcio dove lo mettiamo? Andiamo: (…) quello è na macchietta, a me me pare Charlot!”)?!
Ma la vita di Luciano De Crescenzo è ricca anche di aneddoti legati al sesso come il racconto della disarmante prima volta, nell’agognato bordello vagheggiato fin dall’adolescenza, in cui “le residue speranze di una già improbabile erezione svanirono di colpo” non appena la puttana di turno, “dopo un rapido sopralluogo per vedere se avessi piattole o altri insetti”, prese il flit “e mi stantuffò tra le gambe una fredda nuvola di disinfettante”; così come di frammenti di vita relativi al primo amore, anzi, ai “primi quattro amori” (da bambino, da adolescente, da giovanotto, da adulto) “e non quattro amori diversi (…), perché credo di essermi innamorato sempre della stessa persona”.
Sullo sfondo, poi, campeggiano, reclamando a gran voce cittadinanza in questo scritto, il paragrafo intitolato “il ventre della vacca” in cui anche trovare un paracadute, negli anni della Grande Guerra, può essere una fortuna (“a Napoli, la signora Santommaso, con la stoffa di un paracadute si è fatta ventidue camicie di seta”) e quello de “la fame” dove, sempre durante il conflitto bellico, ascoltando estasiati uno dei racconti mirabolanti di Zio Luigi, Luciano De Crescenzo e il cugino staccano i parati della cucina perché le carte da parati “si attaccano con la colla”; “e la colla come si fa?” “Con la farina.” E se Totonno ‘o Pizzaiuolo, come ha appena raccontato zio Luigi, impastò la polvere con l’acqua fino a ricavarne delle pizzette niente male, perché non possono provarci anche loro, Luciano e il cugino, a fare una cosa simile?
La vita dell’inclito scrittore prosegue con l’esperienza lavorativa in IBM e con lo scetticismo dei napoletani verso il futuro avveniristico promesso dalle macchine:
"Ma ti pare che a Napoli, con tutti i disoccupati che ci sono, quelli vanno a comprare le macchine tue? Secondo me, queste società sai che faranno? Chiameranno i disoccupati e gli daranno una moltiplicazione a testa, e quelli in quattro e quattro otto ti fanno tutti i conti. Secondo me era meglio se t’impizzavi nel Banco di Napoli!"
Dopo un breve accenno all’esperienza cinematografica, l’attenzione di De Crescenzo si sposta, non senza qualche timore per la complessità dell’argomento, sul “Dubbio positivo” che lo porta, da lì a poco, ad interrogarsi sull’eterna ed annosa quaestio del fine vita. E, pur trovandosi necessariamente a suo agio perché approdato alla “preparazione alla morte” che i suoi amati filosofi praticavano fin dall’età della comprensione, l’arguto scrittore non può evitare di suscitare nel lettore un moto di disarmante dolcezza quando si richiama al finale del film “I clown” di Federico Fellini.
Tra le pieghe del bianco e nero di siffatta pellicola il pagliaccio protagonista, all’affermazione del direttore del circo circa la morte del compagno di numero Fru-Fru che gli deve ancora restituire dieci salsicce dall’anno scorso, obietta che “uno non può mica sparire così: da qualche parte deve pur stare.” E convinto di ciò, il pagliaccio prova a suonare la canzone del proprio numero: “ebbene, non appena attacco una nota, ecco che lui mi appare, come per incanto, e mi risponde suonando”.
Una vita in musica, anche quella di De Crescenzo, che pur nei limiti di questo libro (troppo trascurata, ad esempio, la svolta che l’ha portato ad abbandonare la professione di ingegnere per la fortunata carriera di scrittore), è stata capace di farci sorridere con ironica, intelligente e colta partecipazione.
E speriamo, infine, che la preziosa ballerina del carillon di cui sopra ce la faccia ancora una volta (è da troppo tempo ormai che, vuoi per le sue condizioni di salute, vuoi per un probabile prosciugamento della vena artistica, De Crescenzo non riesce a regalarci nuovi spunti letterari) a deliziarci con le sue poetiche e pregne di umanità piroette d’amore.
In questi tempi tristi, ne avvertiamo davvero il bisogno, come ugualmente sentiamo la necessità di aforismi del calibro di questo contenuto proprio in “Vita di Luciano De Crescenzo scritta da lui medesimo”: “La pubblicità sarà il veleno preparato dall’omologazione e la televisione il bicchiere dentro il quale ce lo fanno bere“.
Ad Maiora, Lucia’!
sabato 6 settembre 2014
Chi ama Napoli?
mercoledì 11 dicembre 2013
Intercettazione di 2 particelle inquinanti nella Terra dei Fuochi.
A:<Peccato il soggiorno duri troppo poco.>
martedì 4 giugno 2013
A Massimo Troisi
Ormai per me il trapasso è ‘na pazziella;
E quanno s’è stutata ‘a lampetella
significa ca ll’opera è fernuta
e ‘o primm’attore s’è ghiuto a cuccà