sabato 7 dicembre 2019

Preziose terre rare


Diciassette metalli, diciassette fottutissimi metalli.

Fino a un centinaio d’anni fa, erano praticamente sconosciuti. Poi la loro scoperta e

un nome atto a qualificarli: «terre rare».

«Terre», perché così si chiamavano, nel XVIII e XIX secolo, i minerali che non

potevano essere modificati dalle fonti di calore; «rare», per la bassa concentrazione

(normalmente meno del 5%) dei loro depositi.

Perché mi è venuto lo schiribizzo di parlare di questi minerali dai nomi impossibili

(scandio, lantanio, ittrio, praseodimio, etc.)? Semplice, perché oggi è praticamente

impossibile che un componente tecnologico nei campi più disparati (cellulari, computer,

cavi di fibra ottica, energia nucleare, aerospazio e difesa, acciaio,

automobili elettriche) non sia costituito da una percentuale più o meno importante di

terre rare.

Per capire meglio la pervasività di questi metalli, portiamo l’esempio dell’automobile:

ebbene, le dozzine di motori elettrici di un’auto tipica, i suoi diffusori audio, i suoi

sensori elettrici, il convertitore catalitico, i fosfori degli schermi ottici, il parabrezza,

gli specchi, le lenti e gli altri componenti di vetro, perfino la benzina o il gasolio

(raffinati con catalizzatori di cracking con lantanio e cerio) contengono o sono trattati

con preziosissime terre rare.

Tutto bene (da qualcosa, il nostro sistema produttivo deve pur dipendere, non vi

pare?) se non fosse che le terre rare sono estraibili solo con manovre altamente

inquinanti e che oltre il 90% delle terre rare utilizzate nel mondo provengono dalla

Cina. In soldoni ciò significa, nell’ordine: a) che stante la fame insaziabile della nostra

società di prodotti soprattutto hi-tech composti da questi metalli, l’inquinamento da

estrazione aumenterà sempre di più; b) che se le terre rare vengono estratte

praticamente in un solo Paese (Cina), presto o tardi il mondo si troverà a dipendere,

economicamente e non solo, da quel Paese.

Ma vi è di più. Si conoscono bene le condizioni di lavoro degli uomini e dei bambini

che ogni giorno estraggono, schiacciati in cunicoli scuri e nauseabondi, i minerali

indispensabili per il display touch del nostro cellulare; quello stesso cellulare che così

frequentemente cambiamo, irretiti dalle novità del mercato e dai diktat rapsodici del

consumismo.

A guardarli bene, questi uomini e bambini non sono altro che schiavi, pedine di un

sistema congegnato per raggiungere due obiettivi: il benessere del consumatore e il

profitto dell’impresa.

Si tratta, citando il sempre (troppo) attuale Marx, di un «esercito di riserva»:

manodopera, cioè, facilmente sostituibile anche per la scarsa specializzazione di cui è

connaturata; lavoratori, quindi, condannati allo sfruttamento più bieco e a una

miseria insopportabile, come lo è sempre quella che permane nonostante la fatica

profusa.

Triplice ordine di problemi, in conclusione: geopolitico (con il monopolio di Pechino

nella estrazione delle terre rare), ambientale e delle condizioni di lavoro: questo è il

portato dei diciassette metalli, per altri versi, importantissimo.

Soluzioni? Tornando al cellulare, basterebbe avere il coraggio di capire che

quell’insignificante graffio sul display non ci obbliga a comprare un telefonino nuovo.

Comportamento rivoluzionario, questo, nel presente monopolizzato dal Black Friday

perenne.


 

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