mercoledì 23 ottobre 2024

"L'intermittenza", di Andrea Camilleri

Al lavoro che nobilita l'uomo.

Questo è l'esergo che Camilleri ha scelto per introdurre L'intermittenza.

E sembrerebbe quasi una provocazione.

E sì perchè nel mondo mirabilmente tratteggiato dal maestro - la grande finanza, gli ingranaggi del potere manageriale, le dismissioni brandite come arma di ricatto - il lavoro edificante è faccenda che riguarda gli ultimi, i disperati costretti a salire su una ciminiera dello stabilimento di Nola per rivendicare la propria soggettività.

Frattanto, tutt'intorno...

Mauro De Blasi, direttore generale della Manuelli, sta per firmare un accordo segreto per fagocitare l'ennesima azienda, all'oscuro del vecchio Presidente e di quell'impiastro di suo figlio.

Sarebbe solo una delle tante trame tessute dal direttore generale che si risolverebbe in un altro, consequenziale successo. Eppure una mattina, mentre si sta facendo la barba, una scritta appare in sovraimpressione sullo specchio: Fu allora che ebbe lacerante certezza della prossimità della sua morte.

È una frase che non appartiene al vocabolario di De Blasi e che nemmeno sarebbe coerente con il suo vitalismo esasperato. E allora?

Semplice, si tratta del primo accenno di quell'intermittenza che il suo cervello soffrirà altre volte. D'altronde, quando una mente di poco più di quarant'anni è logorata dalle dinamiche del potere, le ischemie sono un rischio da mettere in conto.

Sodale del De Blasi, e non solo per la qualifica rivestita all'interno della Manuelli (nel caso specifico, vicedirettore generale con delega al personale), è Guido Marsili con una sovvertitrice passione per la poesia.

La poesia...il varco è qui?

Purtroppo no.

Quando infatti la donna da sedurre assume le sembianze della moglie del suo direttore generale, la conturbante Marisa, ebbene finanche la poesia diventa arma di prevaricazione e di soddisfazione di istinti beceri.

La signora De Blasi, però, si ricorderà di un suo vecchio, "pulito" amore di qualche tempo addietro che adesso ha conseguito addirittura i gradi di commissario di polizia, per vendicarsi a un tempo di suo marito (il perdono al prezzo della costante degradazione) e dell'amante "lirico" (il consumo violento e libidinoso del corpo di Marisa).

Nemmeno la signora De Blasi, però, è una figura su cui poter costruire la redenzione, incastonata com'è nella degenerazione di quel mondo da cui alla fine prende le distanze, sia pure solo per salvare se stessa e la sua vita dorata.

Tra le filigrane del racconto ne emerge un'altra, di donna: Anna, la segretaria di Mauro De Blasi, ormai donna attempata, sola (persino il figlio si dimentica sistematicamente del suo compleanno), la cui vita privata coincide con quella lavorativa. E ciò almeno fino a quando si trova a subire le attenzioni di un uomo.

Già, un uomo: troppo bello, giovane e prestante per essere disinteressato. Eppure Anna vuole allentare i freni inibitori nell'ubriacatura del vero amore.

È un lusso che, e dovrebbe saperlo, non si può permettere. Eppure...

La valigetta con tutti i documenti importanti che, dopo l'ennesimo furto in azienda, il direttore generale ogni sera le consegna, si apre sotto i polpastrelli che non appartengono ad Anna.

Sono dita belle, giovani, prestanti. E maschili.

Troppo dolore per la segretaria di De Blasi. Il fiume raccoglierà l'ultima sua imperdonabile disillusione.

Alla fine, quando ogni trama è tessuta in maniera magistrale da Mauro De Blasi, l'intermittenza si riaffaccia.

Stavolta non ci sarà una seconda possibilità.

E proprio nell'attimo di raccogliere il frutto del proprio magistrale, sfiancante lavoro, eccolo l'ultimo black-out.

La genialità di Andrea Camilleri, straripante anche in un contesto che non dovrebbe rientrare propriamente nelle sue corde (gli ingranaggi deleteri della grande finanza), è un sempiterno viaggio nelle profondità dell'animo umano: potere, odio, desiderio, vendetta, egoismo.

Viaggio, immersione in profondità proibitive per gli altri uomini, anche in quest'opera.

Ancora una volta.

10 e non più di 10 #5

 A Più libri Più liberi un'insegnante ha dissuaso i suoi studenti dall'acquisto di libri di fantasia.

"Inutili".

Alle elementari del mio grembiule ingiallito, un'altra insegnante s'inventò un baule da cui poter estrarre, alla bisogna, occhiali e penna.

Baule, occhiali e penna, tutti rigorosamente inesistenti.

Eppure, una volta inforcati gli occhiali, Gino leggeva meglio.

Anche Claudia, impugnata la penna, scriveva senza errori.

La fantasia, quando non salva la vita, è utile anche a questo.

"Il re di Girgenti", di Andrea Camilleri

Nella nota di quest'opera fantasmagorica, il Maestro ci rivela che nel giugno del 1994 gli capitò di sfogliare, "nella libreria romana quotidianamente frequentata", un libretto intitolato Agrigento. Ebbene, in questo libercolo si accenna a un episodio del 1718 in cui addirittura viene proclamato re di Girgenti un viddrano, tale Zosimo.

Tanto è bastato alla fantasia fecondissima di Camilleri per "filare" la trama de Il re di Girgenti.

Gisuè Zosimo, padre del futuro re Zosimo, si trova un giorno a salvare la vita a un povirazzo che se ne sta stracafottuto in uno sbalanco. Ma c'è cosa: il povero è un nobile, e la caduta nel burrone è volontaria per via di una fortuna dilapidata al gioco.

Ora non ci stanno santi, tocca uccidere davvero il principe don Filippo Pensabene. E Gisuè Zosimo vi provvede dietro lauta ricompensa.

Il duca Pes y Pes, lo spagnolo che imbrogliando al gioco il principe è addivintato il patrone, sente feto d'abbruciatu nella facenna. Prima fa incarzerare Zosimo con l'accusa di aver ucciso il principe e poi gli promette la libertà. A una condizione, però: che ficchi con la sua bellissima moglie dal momento che lui, omo con sperma friddo come il ghiaccio, non è capace di metterla prena.

Il jornatante si presta al patto riuscendo, con l'aiuto degli altri contadini e omini di fatica, a pigliari po' culi il duca Pes y Pes e a liberarsi.

Frattanto Gisuè Zosimo e so' mogliere Filonia ci danno dentro e nasce il loro secunno figlio mascolo, Michele Zosimo, da tutti chiamato solo Zosimo.

Filonia, radunata tanticchia di paglia vicino al pozzo, si spoglia nuda e vi si stinnicchia supra.

Una capra girgentana le dona il latte per nutrire il picciliddro e una gaddrina le arrigala un uovo per rimettersi in sesto.

Fin dalla nascita, Zosimo si mostra un bambino precoce: invece di piangere appena nisciuto dal ventre materno, si mette a ridere come un omo granni. A sette mesi poi, è gia in grado di parlare.

Nella sua infanzia si susseguono personaggi singolari (reali e immaginari) che sono un lievito formidabile per quella che sarà la personalità del Nostro: il mago Apparenzio che gli predice un futuro da re, il brigante che firrìa campagna campagna per affermare una giustizia altra e, soprattutto, Patre Uhù: parrino con la vita da asceta e la sua croce ad altizza d'omo che mulinella come un'arma quando si tratta di scacciare via i diavolazzi e le sue creature, Patre Uhù si ritira sovente in una grutticeddra con una pozza d'acqua nella quale vattiare bambini (lo stesso Zosimo vi viene battezzato) e ricarricare le energie quando ce n'è bisogno.

Il parrino intuisce le potenzialità di Zosimo e lo prende per un periodo a suo servizio, insegnandogli il leggiuto e lo scrivuto. Lo inizia altresì tanticchia ai misteri della natura, per farne un omo pronta alla bisogna.

Durante la carestia che si abbatte come una mannaia su Montelusa (la futura Girgenti), l'ormai giovane Zosimo incendia tutti i libri che don Aneto Purpigno, frattanto insediatosi nella dimora abbandonata dal duca Pes y Pes, gli ha arrigalato dopo averli letti uno per uno: accussì tutte le parole gli entrano nel ciriveddro e non l'abbandoneranno più.

La peste avanza nelle campagne e nelle città, e i chiesastri anzichè limitare le occasioni di contagio, si dannano l'anima per organizzare processioni dietro l'ennesima, improbabile reliquia scovata da qualche parte.

Zosimo e i so' compagniuzzi, dopo aver approfittato del funerale di Patre Uhù per fare un po' di pulizia di nobili e chierici e in seguito a uno stratagemma per far ripristinare il culto di santo Campagnaro, sentono che è arrivato il momento di prendere in mano le redini della storia. Manco a dirlo, chi è in grado di capirlo e di farlo intendere agli altri, è proprio Zosimo.

C'è una lotta intestina tra papato e nobiltà con evidenti ripercussioni nella vita quotidiana. Nel frattempo, dopo gli spagnoli, a seguito del Trattato di Utrecht, sono i savojardi a dettare le regole del gioco in tutta la Sicilia.

Zosimo, pur muovendosi in anticipo rispetto a quanto sarebbe stato opportuno, prende il potere e viene incoronato re su una putruna requisita al marchese Boscofino e con una corona di spine arrigalatagli da un mendicante.

Il programma è presto fatto: abolizione della nobiltà, espropriazione di metà dei feudi del notabilato da donare a chi ci ha davvero travagliato in quelle terre, la pace da salvare, quando proprio non si può fare altrimenti, mutuando la vicenda degli Orazi e dei Curiazi dell'antica Roma.

Il capitano Montaperto, omo d'aunuri, l'ha accapito macari lui: progetto troppo rivoluzionario per poter resistere agli egoismi del tempo. Il re e i suoi scammisati viddrani hanno pisciato fora dal rinale.

Bih, che camurria! D'altra parte, per realizzare il prototipo di uomo vagheggiato da Zosimo (la dignità dell'omo consta di quattro attributi: il travaglio, la littra, l'aunuri e la parola data), per forza di cose doveva finire a schifio.

Zosimo viene condannato a morte. Nella sua via crucis cristallizata dai cinque graduni e dalla sommità della scalinata che lo portano al patibolo, rincontra molti personaggi della sua vita e rivive tante suggestioni che l'hanno accompagnato fino all'ultimo momento.

In tutto questo, la comerdia che ha fatto volare poco prima di venire decollato, gli si piazza a perpendicolo sulla testa.

Lui stesso sale in groppa all'aquilone e, una volta preso il volo, talia verso terra: in mezzo alla piazza, vitti macari il palco e una cosa, una specie di sacco, che pinnuliava dalla forca dunnuliando.

Rise e ripigliò ad acchianare.

10 e non più di 10 #4

«Ma certo, sfonda una porta aperta: oggettivamente più belle di quelle griffate, di qualità artigianale a fronte di plastica e un po' di fuffa delle altre, di un design accattivante che quelle marcate se lo sognano».

«Senza contare il prezzo, decisamente più basso rispetto a quelle firmate».

Esco fuori dall'ottica con i miei occhiali nuovi. Che sono proprio quelli meno belli, di peggior qualità, con un design compassato e più cari.

Ovviamente griffati.

10 e non più di 10#3

Stilettate di gelo nonostante il riscaldamento h24.

Mi arrotolo nella coperta che asseconda i tremori del corpo.

L'occhio cisposo segue le intermittenze dell'albero di natale.

Il corridoio. La cucina. La soglia del salone.

La coperta che m'avvolge cade a terra.

A una ventina di metri, la sagoma iridescente di mio figlio.

Di spalle, la sua testolina reclinata prende la mira.

Un fucile della mia fabbrica puntato sul presepio.

"La regola dell'equilibrio", di Gianrico Carofiglio

Guido Guerrieri è un avvocato penalista. Uno bravo, per intenderci, a tal punto che avrebbe potuto fare anche altro nella vita.

Separato e attratto dalle lusinghe del vegetarianismo, trascorre le giornate tra le udienze in tribunale e degli edificanti "dialoghi" con il suo sacco da boxe.

Nel giro di pochi giorni passa da una possibile, destabilizzante diagnosi di leucemia, alla difesa del giudice Larocca (magistrato a soli ventiquattro anni con le stimmate del predestinato) dall'infamante accusa di corruzione.

Le regole del gioco appaiono chiare, e in questa trasparenza di azioni e reazioni, il Nostro sa di potersi muovere a suo agio. Tanto più che il suo cliente è un giudice di prim'ordine, al di sopra di ogni sospetto, che qualche malaccorto pentito vorrebbe evidentemente colpire nella reputazione e nella carriera.

Nello studio legale arricchito dal fascino sudamericano di Consuelo e dalla figura discreta del versatile Pasquale, l'avvocato Guerrieri prepara la sua difesa.

Il teorema accusatorio si dimostra da subito ben congegnato, a tal punto che si rende indispensabile l'aiuto di Annapaola.

Chi potrebbe infatti raccogliere informazioni preziose in contesti inaccessibili se non l'ex conturbante giornalista prestata alle investigazioni private?

Eppure qualcosa comincia a incrinarsi. E se, a dispetto di quello che pensa finanche Guerrieri, il giudice Larocca non fosse così onesto come tutta la sua vita, umana e professionale, sembrerebbe testimoniare?

Per Guido sarebbe un cortocircuito intollerabile: l'imputato deve essere difeso dall'avvocato al cospetto di un giudice terzo e imparziale. Si può vincere o perdere, poco conta, se non per l'ammontare della parcella.

Quando però la corruzione investe chi è chiamato a fare e a dare giustizia, il banco salta, l'equilibrio è irrimediabilmente compromesso.

Tra accattivanti dubbi esistenziali, una attenzione maniacale dello scrittore alla pregnanza delle parole (d'altronde Carofiglio resta pur sempre l'autore del mirabile La manomissione della parole), le insidie vischiose di una "fluida" Annapaola, Guido Guerrieri prova a ripristinare le regole del gioco.

Alla fine di tutto, dopo l'ennesima puntatina insonne alla Osteria del caffellatte di Ottavio (la meravigliosa libreria di Bari che apre verso le dieci di sera e chiude poco prima dell'alba), una motocicletta impaziente è pronta a condurre l'avvocato Guerrieri fuori dalle pastoie di un mondo malato.

10 e non più di 10 #2

«Franco, ti ricordi? Gli sganascioni alla zoccola di turno e poi, di ritorno nel cuore della notte, quei cazzottoni ben assestati nelle orbite rampognose delle nostre mogli.

E dove sei stato? E ti sembra questa l'ora di ritirarti?

Un calcio tra gli incisivi, e fatti i cazzi tuoi!

Sei donna? Patisci, e non ci rompere i coglioni!

Che c'è? Che vuoi? Come dici, mia figlia?

Se quel figlio di puttana l'ha solo sfiorata, quanto è vera la Madonna, lo squarto».