mercoledì 25 gennaio 2017

"Alessandro Magno Ieri e Oggi", di A. Cecchi Paone

Alessandro Magno, dopo tredici anni di regno che hanno sconvolto il mondo, si trova nella sua reggia di Babilonia.

L'uomo che, come racconta Plutarco, tiene la testa lievemente piegata a sinistra come se cercasse una prospettiva diversa per osservare le cose, muore ad appena trentatré anni.
Muore, così, l'uomo Alessandro che da piccolo riesce, lui solo, a capire cosa spaventa il per altri versi coraggiosissimo Bucefalo: la sua ombra.
Da questa comprensione, nasce un sodalizio con il suo cavallo che addirittura spingerà il sovrano macedone a dedicargli una città sulle rive dell'Idaspe, Bucefalia.
Resta invece in vita, a distanza di ventitré secoli, l'Alessandro fondatore di una città (Alessandria, per l'appunto) costruita su indicazione onirica di Omero davanti all'isoletta di Faro; la polis che, tra l'altro, ospita nella sua biblioteca tutto il sapere dell'epoca accumulato anche grazie all'obbligo per tutti gli stranieri di passaggio di lasciarvi copia di ogni scritto che portano con loro.
Vive l'Alessandro conquistatore che, partito dalla "barbara" Macedonia (così definita dai civilissimi ateniesi perché abitata da stranieri che balbettavano insicuri nell'idioma di Omero), si spinge fin dove nessuno ha osato mai andare, neanche il dio Dioniso nelle sue farneticanti peregrinazioni: il fiume Idaspe.
Eppure il leone di Pella sa che il mondo non finisce lì. Oltre il fiume, ne è certo, si estende la misteriosa India e dopo, chissà quale altra terra incognita. 
Alessandro il condottiero, però, che ha sempre combattuto in prima linea e non si è mai risparmiato nessuna sofferenza, guarda in faccia i suoi uomini segnati dagli anni e dalle sofferenze, e capisce ogni cosa: il mondo, per loro, finisce lì. Non l'avrebbero seguito oltre.
Mortificato, quindi, nella sua brama di oltrepassare ogni limite che, a ben vedere, lo rende ostaggio di un demone senza nome, acconsente a ricondurre il suo esercito in patria.
Resta in vita l'Alessandro cosmopolita che seguendo l'insegnamento di Aristotele avvia, anche in contrasto con parte dei suoi uomini che non vedono di buon occhio la fusione con i riti e costumi orientali, la globalizzazione c.d. virtuosa alimentata dall'insopprimibile amore per la conoscenza. Lo stesso amore che, se da un lato lo spingerà a dormire, ogni notte, con il capo appoggiato su una copia dell'Iliade e dell'Odissea gelosamente custodite anche sui campi di battaglia, dall'altro, lo invoglierà a ricondurre nel pantheon greco le divinità locali incontrate nelle innumerevoli città conquistate.
Sopravviverà, ancora, l'Alessandro mistico che ammirando qualsiasi indefesso viaggiatore, anche quelli che compiono il viaggio negli anfratti bui della propria anima, non tarderà a spostarsi quando Diogene di Sinope gli dirà che l'unica cosa che desidera da Alessandro Magno, è che se ne stia fuori dalla sua luce; così come sicuramente resta l'Alessandro indomito che, al cospetto della complessità del nodo di Gordio non esita, per preannunciare la prossima conquista dell'Asia, a tranciarlo con un colpo netto di spada, in barba alla sua proverbiale inestricabilità.
Infine sopravviveranno ancora altri cento Alessandro, tutti reali e immaginari, tutti umani e divini. E quando si tratterà di farsi proclamare figlio di Zeus, sarà lo stesso condottiero macedone a sfruttare un errore di pronuncia dell'oracolo che anziché appellarlo paidìon (figlio), lo chiamerà paidiòs (figlio di Zeus), per assurgere al rango che gli spetta, quello di dio.
In questo romanzo ben cesellato di Cecchi Paone, c'è tutto Alessandro, la sua storia, il mito, la grandezza delle sue azioni da cui trasuda un'umanità che ancora oggi affascina il mondo intero. E come in un gioco di specchi che si rimandano luce riflessa da ben ventitré secoli, il Nostro è visto anche dalla prospettiva di oggi, oltre che di ieri: la Storia e la Divinità del re macedone, quasi per soddisfare, entrambe diversamente esigenti, i due colori (chiaro e scuro) che avevano gli occhi dell'inarrivabile Alessandro Magno.

lunedì 16 gennaio 2017

"La casa dei sette cadaveri", di J. Farjeon

Metti un cancello, di quelli cesellati, che cigolano svogliati lasciando intravedere una casa indifesa.

Metti che questa casa sulla costa dell'Essex trasudi ricchezza da ogni mattoncino avvinghiato dall'edera.
Metti, ancora, l'assenza di qualsivoglia movimento intorno alla casa così come di tracce di fumo che escano dal comignolo. Se poi a tutti questi segni di abbandono aggiungi anche la mancanza di cani a difesa della proprietà e, soprattutto, una finestra senza imposte che sembra dirti "vienimi ad aprire", beh, allora lo possiamo ben capire, Ted Lyte. E sì perché quella casa deserta potrebbe significare qualcosa da mettere sotto i denti a digiuno da quasi una settimana oltreché, sia chiaro, una dozzina di posate d'argento da rivendere al miglior offerente.
Un salto sul davanzale della finestra, e Ted Lyte non ci pensa più. Ma ecco la tentazione di una porta chiusa a chiave e lo sciagurato ladruncolo che non riesce a resistervi. Gira la chiave lasciata nella toppa e apre, convinto di trovare un muro di tenebre a inghiottire le pareti di quella stanza.
Nulla di tutto questo: la sua vista viene sferzata da un'abbagliante luce elettrica.
Ted, vattene via, lasciati bruciare le pupille da quel bagliore artificiale e abbandona di corsa la casa.
Troppo tardi: la sua vista e la sua ragione vengono incatenati da sette cadaveri disseminati in quel sudario di morte.
Lo scenario che si squaderna davanti agli occhi del giornalista free lance Hazeldean e dell'ispettore Kendall, nel frattempo accorsi in casa, è di quelli che richiedono un acume investigativo sicuramente non comune. E si badi bene, non ci si riferisce ai malcapitati sette cadaveri, ché quello è un dato la cui gravità può essere, e infatti lo è stata fin da subito, tranquillamente rilevata anche dal povero Ted Lyte. Nossignore, il riferimento è al foglietto stropicciato su cui c'è scritto: "Con le scuse del Club dei Suicidi" e sul retro dello stesso, stavolta aggiunto a matita, "Particolari all'indirizzo 59.16S 4.6E An". Ma ancora, altro elemento che richiede approfondimenti, Hazeldean e Kendall trovano un foro di proiettile proprio al centro del cuore di una bambina, che poi si scoprirà essere Dora Fenner, ritratta nel quadro in fondo alla parete.
Infine, su una mensola anonima della casa, fa bella e inquietante mostra di sé una logora palla da cricket che porta impressi i segni di un accordo violato.
Rigurgito di quale passato è l'insolito oggetto e perché ci si è presi la briga di sfondare un vetro per farlo arrivare fin lì, quasi firma in calce a quelle sette morti?
La casa dei sette cadaveri di Farjeon è un congegno dagli ingranaggi ben incastonati nel corpus narrativo.
Lontano dagli eccessi e dagli stereotipi di troppa letteratura di genere, l'opera riesce a "tenere in tensione" il lettore per gran parte del libro, in un crescendo di (mai banali) colpi di scena.
L'escamotage del diario che incontriamo alla fine del romanzo, poi, sia pure certo non una novità nel filone mistery, ha il merito di riannodare le fila degli eventi che potrebbero sfuggire al lettore.
Non è un caso che, tra gli estimatori dello scrittore, ci fosse Dorothy L. Sayers, uno dei grandi nomi della letteratura gialla, che ne apprezzava le trame ingegnose e i personaggi "intriganti".

lunedì 9 gennaio 2017

"L'oro di Napoli", di Giuseppe Marotta

L'oro, per rilucere, richiede una certa distanza: solo così l'occhio umano potrà saziarsi dei mille bagliori che vi si irradiano.

Già, proprio come accade con l'albero di limoni di Montale: è solo nelle città rumorose e, quindi lontano dalla campagna, che dal malchiuso portone possono scoppiare le trombe d'oro della solarità.
Giuseppe Marotta, da Milano, da una città e da una condizione economica per molti versi opposte a quella di vicoli e stenti di Napoli, riesce a catturare e a capire l'oro di Napoli dell'immediato dopoguerra.
L'oro è il pane con sale e olio a cui si ricorre quando tutto è perduto: finito il denaro, finito il credito, finite le avemarie, infatti, resta soltanto la poesia del pane con sale e olio.
L'oro!
E come non trovarlo pure nelle pizze a giorno a otto che don Rosario Pugliese prepara gonfie di fondente ricotta e non prive di qualche truciolo di prosciutto in Vico Lungo Sant'Agostino? Si mangiano adesso e si pagano solo fra otto giorni, circostanza, questa, che incoraggia, stimola e potenzia il consumatore. E sì perché, a ben vedere, in otto giorni possono accadere tante cose, non ultima la morte, senza eredi, dello stesso pizzaiolo.
E oro è pure il brodo di polipo di don Gennarino Aprile in cui c'è solo un frammento di polipo che sarebbe opportuno sputare prima di andare a letto ma che, all'occorrenza, si può ricominciare a masticare anche l'indomani mattina e per sempre, in saecula saeculorum: insomma, chiosa un divertito Marotta, il frammento di polipo è il verace antenato del chewing-gum americano.
E come, poi, non rivestire d'oro il culto dei napoletani per gli spaghetti? E già, perché, chi entra in paradiso da una porta, non è nato a Napoli dal momento che, il napoletano, il suo ingresso trionfante nel palazzo dei palazzi lo fa solo scostando delicatamente una tendina di spaghetti. Ma...
Ma l'oro di Napoli è anche il guappo che era un criminale e non lo era. Più che mettersi fuori dalla legge egli le opponeva una sua legge; e lo sberleffo di don Pasquale Esposito? D'oro, anch'esso, si capisce, soprattutto nella sua distinzione tra pernacchio (forte o debole, lungo o corto, massiccio o sdutto, aquilino o camuso ma è sempre maschio, ma è costruttivo e solerte, ma insomma lavora) pernacchia che è molle e pigra, tumida, bianca, sdraiata; insomma, come un'odalisca sui tappeti: femmina.
Aurea, di poi, è la nonna dello scrittore che, se le avessero fatto l'autopsia, le avrebbero trovato una spina dorsale fatta di grani di rosario, sette poste e misteri, così come la gobba di don Ignazio Ziviello che si vanta di tenerci, lì dentro, un angelo custode chiuso a chiave.
Ma anche l'amore a Napoli, capace di generare un figlio dalla prima guagliona con cui ci si è fatto l'amore ben tredici anni addietro, è d'oro; così come lo è la verde e accigliata Porta Capuana, palpitante tra i vapori diffusi dalle immense teglie delle friggitorie. E i Quartieri che Dio creò per sentirvisi lodato e offeso il maggior numero di volte nel minore spazio possibile? Certo che son dorati, ci mancherebbe!
L'oro di Napoli, inoltre, non risparmia nemmeno le divinità: la mamma schiavona di Montevergine, dove gli squarcioni, tra una preghiera e un voto, fanno a gara a chi ostenta più lusso; San Giuseppe, che nel mese di giugno,  siede con gli scugnizzi sul marciapiede o sulla stanga di un carretto di cocomeri o su una ringhiera o su niente.
Nella Napoli d'oro di Marotta, raccontata senza stereotipi o stupido folklore, senza pietismo e senza retorica ma solo con sentita partecipazione, è d'oro la stessa Morte perché ogni uomo, a Napoli, dorme con sua moglie e con la morte; in nessun paese del mondo la morte è domestica e affabile come laggiù tra Vesuvio e mare.