lunedì 21 ottobre 2024

"Lo straniero", di Albert Camus

 Meursault è un modesto impiegato che vive ad Algeri. Gli muore la mamma ("Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so") ricoverata in uno ospizio.

A chi gli chiede l'età, Meursault risponde che sua madre avrà avuto "una sessantina d'anni".

Giunto alla casa di riposo in una giornata torrida (il sole a picco avrà tanta parte negli sviluppi della storia), non ritiene importante vedere la mamma prima che la cassa venga sigillata.

Da questo momento in poi, il protagonista della storia inanellerà una serie di passi lungo il cammino dell'indifferenza. Sia ben chiaro, indifferenza per lui perchè per la percezione degli altri, si riveleranno di una pregnanza spropositata.

Si fuma una sigaretta subito dopo la veglia. Per soprammercato, la sera esce con una ragazza e la porta al cinema a vedere addirittura un film comico, con protagonista l'osannato Fernandel.

Maria avrebbe intenzioni serie con lui ("mi ha domandato se l'amavo. Le ho risposto che era una cosa che non significava nulla, ma che mi pareva di no"), ma Meursault le confessa che potrebbe anche sposarla, o magari no: sarebbe stata la stessa cosa.

La sua vita si snoda attorno a un nugolo di personaggi che abitano la sua quotidianità: il signor Salamano e il cane che finiscono con l'assomigliarsi pur nel loro rapporto di dispetti reciproci; l'equivoco Raimondo che ha un conto aperto con il fratello della donna malmenata; il gruppo di arabi tra cui spicca quello che incamererà, come un sacco vuoto, i "quattro colpi secchi che battevo sulla porta della sventura".

I luoghi poi, finiscono con l'assumere più importanza dei fatti così come i silenzi di Meursault maggiore intensità delle accuse del pm e della difesa accorata dell'avvocato.

Anche nell'aula del processo, così come sulla spiaggia del delitto, un caldo ottundente attraversa corpi e invischia pensieri.

Alla lettura della sentenza (la decapitazione in pubblica piazza), il Nostro capisce che nessuna fede potrà estorcergli un pentimento, non foss'altro perchè stridente con il meccanicismo al quale sente di abbandonarsi come il naufrago alla corrente.

In una sola occasione, l'urlo di Meursault che scaccia il prete, sembra far presagire una ribellione. Ma è solo un fastidio sopra le righe, tutto qui.

Il silenzio che incanala meravigliosamente le coincidenze verso un epilogo ferale, ritorna per non abbandonarlo mai più.

Meursault adesso si è liberato perfino della speranza, in un florilegio inarrestabile di continue sottrazioni.

"Napoli nessuna e centomila", a cura di O. Ragone e C. Sannino

E sono ben cinquanta gli scrittori del calibro di Raffaele La Capria, Roberto Saviano, Walter Siti, Maurizio de Giovanni, Nicola La Gioia, Valeria Parrella e tanti altri, che s'interrogano sull'essenza di Napoli e della napoletanità. Tutti con un unico intento: guardare a Partenope senza la lente deformante del luogo comune.

Si parte da Boccaccio e il suo Andreuccio da Perugia che, caracollando tra il quartiere Malpertugio, la Rua Catalana e la ressa del Mercato, "ha conosciuto se stesso e la vita, è diventato uomo ed è tornato a casa sua più accorto e smaliziato". Insomma, si è fatto napoletano.

Viola Ardone, poi, scomoda la maternità per rimarcare come Napoli si modifichi "per accogliere ogni corpo come gli organi interni della madre si spostano e si adattano alla forma del nascituro durante la gestazione".

Sara Bilotti, dal canto suo, favoleggia di "una strana corrente, anch'essa a lungo dimenticata, che era come un fiume di lava sotto l'asfalto" a rappresentare l'energia di tutti coloro che attraversano le strade di Napoli e che qualcuno riesce, quasi per una sorta di predestinazione, ad assorbire meglio di altri.

E come dimenticare la "città bifronte" di Raffaele La Capria "che può essere al contempo disperatissima o felicissima"? Definizione, quest'ultima, che fa il paio con "la città dove un giorno Dio e il diavolo si sono seduti in riva al mare a giocare una partita a scacchi", del cinese Tu Hua.

Non possono mancare i "capitoni sfastiriati" di Antonella Cilento: quelli, cioè, costretti a nuotare, evidentemente stressati, nelle vasche, "uno 'ncuollo a n'ato, fino alla vigilia. Quando i capitoni sono belli e guizzanti, vengono ignorati dagli avventori che li trovano improvvisamente attraenti non appena diventano, per l'appunto, sfastiriati.

Il paragone con il napoletano che si riduce sempre all'ultimo momento negli acquisti (e non solo), è fin troppo chiara.

Una verità tra le tante, forse, è quella della Napoli "città tuareg" di Antonio Pascale: come infatti i tuareg si scoprono il viso quando incontrano gli sconosciuti perchè in quanto sconosciuto tu non puoi capire quello che penso così, di converso, se lo coprono quando si imbattono in persone intime: se sei un amico, infatti, puoi ben interpretare i segni del mio volto, onde per cui è necessario che io lo copra.

C'è infine la santa Patrizia di Antonella Ossorio demoralizzata perchè declassata da San Gennaro ("lui è proprietario di un tesoro da fare invidia alla regina d'Inghilterra, io invece...") e la modernità che a Napoli è già arrivata, "ma con il fegato schiattato e con la febbre alta: e ora è in fase di decomposizione", di Giuseppe Montesano.

In questo libro ci sarebbe tanto altro dell'anima di Napoli ma ci piace chiudere, non ce ne vogliano gli scrittori le cui testimonianze sono state ignorate solo per ragioni di spazio, con Roberto Saviano. Lo scrittore napoletano, dopo essersi chiesto retoricamente come si faccia ad amare una città che ti ha cacciato senza una condanna precisa, ribadisce che "Napoli ti insegna a vivere, alle sue regole, alle sue condizioni e quando te ne separi a te resta una moneta preziosa che però altrove non ha mercato".

"Il meccanico Landru", di Andrea Vitali

Sei forestieri, dall'apetto per nulla rassicurante, scendono alla stazione di Bellano. Ad accoglierli, il capostazione Amedeo Musante che si sente subito rispondere "Siamo i meccanici della SACR". E sì perchè, nella cittadina lacustre del 1930, è giunto il momento di installare i telai elettrici al cotonifico: il progresso impone i suoi rituali, e pazienza se un'ottantina di operai si troveranno dall'oggi al domani disoccupati!

A prevedere l'emorragia di posti di lavoro, è lo stesso direttore del cotonificio, ing. Luigi Galimbelli che, forte delle sue convinzioni (c'è chi ha la tessera e chi ha la testa), si vede ridimensionato nelle ambizioni professionali con la direzione del cotonificio in quel di Bellano anzichè in una fabbrica più prestigiosa.

Frattanto il ballo in onore delle nozze del principe Umberto con Maria Josè, è bello e organizzato. Ci ha pensato, manco a dirlo, il segretario ciitadino del Fascio, Aurelio Pasta, che però, al momento di far rispettare quell'ordine assicurato anche al maresciallo Rodinò, si è "trasferito in Val Passera".

Zuffa e botte da orbi che hanno visto sugli scudi cinque dei sei meccanici perchè il sesto, quel tale Landru protagonista del libro, è astemio e se ne sta in disparte. Almeno fino a quando non arriva il suo momento: e allora via alla conquista dell'ingenua Emilia Personnini, segretaria fino a quel momento integerrima dell'ingegnere, ammaliata dal mito dell'Argentina.

Un tipetto, il bel meccanico, a cui raddrizzare le ossa da parte della squadra fascista (e non solo) senz'ombra di dubbio ma...c'è un "ma" che impone calma e ponderazione: quel diavolo di Landru è un attaccante di razza. E all'orizzonte incombe la partita con la coriacea squadra del Dervio.

Contr'ordine, camerati, allora: il Landru diventa una risorsa da coccolare e da mantenere addirittura a spese del partito fino alla disputa dell'epico scontro calcistico . Poi, però, per un motivo o un altro, il macht storico si rinvia, lasciando tutto il tempo al meccanico di far guai. Eppure l'aveva avvertito al Pasta l'Eumeo Pennati, il numero due nel PNF cittadino destinato a soppiantare il segretario in pectore, che quel Landru prima o poi ti s'incula.

Dal canto suo Don Ascani, il prevosto, deve trovare marito all'indifesa Maddalena mentre il maresciallo Rodinò, con il prezioso aiuto dell'ing. Galimbelli, ha da venire a capo di un losco traffico di buoni pasto degli operai del cotonificio che ruoterà, guarda caso, ancora attorno alla figura del gaucho dal nome strano.

La partita sta per disputarsi e il cerchio si stringe attorno a Landru. Il conto della Personnini, nel miraggio dell'Argentina, si assottiglia sempre più e il Pennati, esponente della stirpe dei "caporali" nella celeberrima distinzione di Totò (uomini o caporali), da fervente fascista negli anni in cui conveniva esserlo, si adegua allo spirito dei tempi frattanto mutati con tanto di fazzoletto rosso stretto al collo, a salutare la lapide in memoria di Giacomo Matteotti.

Perchè a lui, come aveva ribadito al suo ex segretario prima di ciullargli il posto, non lo incula nessuno.

"Riccardino", di Andrea Camilleri (recensione in vigatese)

 Caro Nenè,

lo sapivo che sarebbi finito tutto in un colpo di tiatro. E tu, mastro d’opira fina, non hai fagliato manco stavota.

Sono squasi le cinco del matino. Sona il tilefono. E il tò Montalbano, mezzo ‘ntordonuto dal sonno piombigno, addimanna cu minchia è.

Dall’autro capo del filo, “Riccardino sono” gli arrispunne ‘na voce squillanti e festevoli al contrario della sò. Gli conta che sono tutti ad aspittarlo davanti al bar Aurora e che, a malgrado il cielo tanticchia nuvolo, cchiù tardo sarà una jornata bellissima.

Riccadino non ci ‘nzerta. In primisi pirchì scangia pirsona (non voliva tilifonare al commissario ma a uno dei “tri muschitteri”, i compagnuzzi sò), in secunnisi, pirchì la jornata finisce nivura, in quanto che l’ammazzano cu dù colpi ‘n facci.

Livia, dal canto so, s’è amminchiata cu ‘na vacanza ‘mproponibili ed è un pirsonaggio sempre chiù spaplito.

Catarella s’intorcina ancora chiossà, e le porte che primma sbattevano perché la mano gli sciddricava, ora addiventino bumme a ‘ralogeria.

Fazio, ‘nveci, si catamina quatelosamente per circari di accapire indovi il commissario, stracangiato e con poca gana di travagliare, voli andare a parari.

Mimì Augello, vattelappesca: s’è ammucciato nel virivirì di n’autra trama.

La virità, Nenè, è che Salvuzzo tò si sente assugliato dalle vicchiaglie, e che ‘sta malitta indagine avi qualcosa che non lo pirsuade: il politico in odor di mafia che addiventa sottosegretario alla Giustizia; il pispico Partanna che voli, senza dire né ai né bai, suggerire soluzioni ‘nteressate della facenna (“monaci e parrini, sinticci la missa e stoccaci li rini”); il pm Tommaseo e il signori e guestori a cui faglia evidentementi il coraggio di mettirisi contra il Governo e la Chiesa.

Ma chesta, Nenè caro, è la mezza missa: la vera virità è che tu, Autore dei tanti libbri di Montalbano, si trasuto a gamma tisa in “Riccardino” e hai scassato i cabasisi al poviro Salvuzzo. E sì pirchì Montalbano voli arrivari fino in funno, secutanno ‘na loggica senza compromissi. Tu, ‘nvece, non solo a iddru, ma a taci maci puro al signori e guestori, vuoi suggerire ‘nu finale per nesciri fora dal busillisi dell’ultima indagine. Cu tutto il rispetto, Nenè, stavota hai pisciato fora dall’orinale. La tò creatura, il tò pirsonaggio, non voli calarisi le mutanne e lasciari che tutto vada a scatafascio: lui, Salvo tò, è omo di parola e non po’ tirarsi narrè, macari davanti ai sottosecretari, parrini e piscopi, masannò che fiura ci fa con il Lettore?

La rottura Autore-Personaggio è ‘nsanabili. Mejo è che tu, Nenè, te ne acchiani indove il genio tò è nisciuto fora e che il Montalbano de noautri (pirchì, lo sai Nenè, ogni pirsonaggio del libbro si catamina sulle gamme del Lettore) venga ammucciato, petra priziosa, nel cori di chi l’ajo amato.

Caro Nenè, c’ajo miso parecchie mesate prima d’accatarimmi il tò ultimo libbro. E mo, assittato macari io supra a un terrazzo indovi de la pilaja non si vede manco l’ummira, cu ‘na sicaretta astutata (chiedo pirdonanza, Nenè, ma nunn’aio mai saputo fumari) e cu allato il tilefono de la bonarma, guardo ‘na stiddra e aspetto.

Il tilefono finalmenti sona.

Mi libbiro, allora, dalle filinie del sonno ‘mpiccicate nel ciriveddro, e con l’occhi ancora a pampineddra: «Cu è? Io» arrisponno chiangenno como a ‘nagniddruzzo «Montalbano, sugnu!»     

"La macchia umana", di Philip Roth

 Tutto parte dall’appellativo di “spettri” che lo stimato professor Coleman Silk rivolge a due studentesse latitanti fin dal primo giorno di corso. Il caso vuole che queste due ragazze siano anche nere e che il lemma “spettri”, tra i numerosi significati secondari, ha pure quello di “negri”.

Sotto i piedi di Coleman Silk, che durante tutta la sua carriera ha trasformato il college di Athena in una fucina di talenti e nel paradigma del buon insegnamento, si apre la voragine della perdizione. Accusato ingiustamente di razzismo, dà le dimissioni evidentemente sdegnato da questo stigma infamante. Proprio lui che…certo, c’è la vita familiare e professionale fondata sul rinnegamento delle proprie origini; a tal proposito, com’è che gli faceva il verso suo fratello Walter? “Bianco più bianco del giglio”, sì, ma questa è l’impalcatura su cui il professore costruisce tutta la sua irreprensibile vita. Fatti più o meno privati, insomma.

Frattanto, la bulimica macchina del fango non si arresta: ben presto, all’interno del college e poi immancabilmente all’esterno, viene diffusa la notizia che il brillante Coleman Silk approfitti sessualmente di una donna di circa quarant’anni più giovane. Ma non basta: Faunia, la femmina in questione, ha avuto una vita travagliatissima (dalla violenza subita dal patrigno, alla morte dei suoi due figli; dalla iattura di un marito affetto da disturbo da stress post traumatico…ancora il maledetto Vietnam!, a una condizione di povertà intellettuale imbarazzante) e non trova di meglio, per campare, che fare la bidella al college, le pulizie in un ufficio postale e lavorare presso un allevamento di vacche.

I troppi benpensanti non riescono ad accettare l’idea che pure a settant’anni suonati, anche dall’alto della propria posizione sociale, ci si possa innamorare visceralmente di una donna con la metà dei propri anni, per di più pressochè analfabeta.

Neppure la morte si sottrae alla speculazione sul conto del professor Silk: un gioco erotico imposto alla derelitta Faunia, l’ancella delle sue perversioni, e dritti giù nel fiume a folle velocità.

Eccola l’ufficiosità di un referto che diventa pietra tombale su cui sotterrare perfino la memoria di Coleman Silk.

Eppure, c’è qualcuno che non ci sta: Nathan Zuckerman, scrittore e amico per un breve periodo del professore, vuole ristabilire la tante verità che sono mancate nella sequenza dei fotogrammi relativi alla vita dello studioso. Ma dovrà farlo in solitaria e in silenzio perché il solo indagare su una fine che vede accostati i nomi di Coleman Silk e Faunia Farley, appare di una ereticità imperdonabile.

"Noi lasciamo una macchia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c’è altro mezzo per essere qui".

"Magia e Fantasia", a cura di V. Sacchi ed E. Visalberghi

Di fiabe hanno scritto, oltre a Charles Perrault, i fratelli Grimm, Hans Christian Andersen, anche altri scrittori insospettabili del calibro di Luigi Capuana, Oscar Wilde, Aleksandr Puskin e Antonio Gramsci. E in "Magia e Fantasia", Ghisetti e Corvi editori, una selezione di letture per la scuola media (oggi si direbbe "scuola secondaria di primo grado"), sono presenti anche le fiabe di questi ultimi.

È un mondo fantastico quello racchiuso in queste pagine, dove accanto al celeberrimo gatto che fa passare il povero padrone addirittura per il marchese delle Carabattole (curiosità: prima di Perrault, dell'astuto gatto aveva favoleggiato Giambattista Basile nel "Gagliuso" del Cunto de li cunti ), e passando per il terribile Barbablù e la sua chiave insanguinata, ci sono una serie di anime candide (Giovannin Senzapaura, Gian Babbeo, Giacomo il sempliciotto) che, del tutto inaspettatamente, si riveleranno più astute di Belzebù e delle streghe che furoreggiano in molti racconti.

Questo libro presenta alcuni tra i più celebri e significativi esempi del patrimonio fiabesco europeo, corredato dagli immancabili topoi di ogni fiaba che si rispetti: ci sono le fatiche a cui sono sottoposti i vari protagonisti (la cattura dell'Uccello di fuoco, la liberazione della principessa dal perfido drago, etc.), le astuzie a cui si ricorre per garantirsi la vita o per lasciarsi alle spalle una via di fuga purchessia, le donne che, quando non vestono i panni di presenze mefistofeliche o delle abusate svampite, diventano la chiave di volta per salvare capre e cavoli (in Tom Tit Tot la ragazza ottiene l'aiuto del diavolo per farsi beffe del marito e quello del marito per mettere nel sacco il diavolo).

"Magia e Fantasia", poi, nella parte finale, prevede delle "esercitazioni" consistenti in test oggettivi di comprensione, inviti alla riflessione e proposte di lavoro, senza dimenticare quelle "riflessioni sulla lingua" che approfondiscono alcune parole incontrate nella lettura ("salario", "scacchi", "astrologo", etc.).

In questo mondo asettico in cui gli ingranaggi della consequenzialità debbono essere ben rodati e oliati, com'è rassicurante, a volte, perderci in un certo reame di un certo stato! Non foss'altro perchè solo grazie alla magia e alla fantasia possiamo essere oggetto di trasformazioni strampalate e meritarci delle fortune improvvise.

E la morale? C'è anche quella in queste fiabe. Sissignore:

Quella curiosità che tanto spesso

Costa dolori e gravi pentimenti

È un futile piacere (non spiaccia al gentil sesso)

Che, una volta raggiunto, finisce immantinenti.

"La presa di Macallè", di Andrea Camilleri

È un viaggio iniziatico, questo del Michilino di Camilleri. Sullo sfondo, la guerra in Abissinia ("baggiana criminalata") e la presa, tra le altre postazioni, di Macallè da parte di uno sgangherato esercito imperiale ("una minchiata solenne").

Tra il padre Giugiù, segretario cittadino del Fascio che lo consacra al culto del Duce, la mamma e padre Burruano che gli inculcano il sacro furore contro le cose vastase, il picciotteddro di appena sei anni si approssima a una morale distorta e alfine omicida, suo malgrado.

Figlio della lupa, scolaro apparentemente dotato che si deve abbeverare a una fonte altra rispetto alla scuola pubblica (il professore Gorgerino che lo sodomizza in nome di un famigerato stile spartano stretto parente di quello fascista), Michilino esplora il sesso con la vedova Sucato prima di agguantarlo in tutta la sua complessità con la cugina Marietta. Il fatto è che, al sesso, il nicareddro sembra votato (angilu minchiutu): l'aciddruzzo sò, infatti, è di dimensioni notevolissime per un bambino e il suo attisarsi come un palo della luce ogni volta che sente a tutto volume i discorsi di Mussolini che erompono dal grammofono, fa di lui un predestinato alle cose tinte.

Poi ci sono i Maraventano, il padre sarto e suo figlio Alfio, che in ossequio al travisamento dell'insegnamento di Gesuzzo (Un comunista non è un omo, ma un armàlo e perciò se s'ammazza non si fa piccato), possono essere sacrificati, il primo indirettamente, il secondo impugnando il moschetto fuori ordinanza (Libro e moschetto fascista perfetto).

Il primigenio tributo di sangue al Duce, è bello che pagato. Adesso, a Michelino, resta il conto aperto con il Signoruzzu e le cose di chiesa. A tal proposito, padre Burruano e la mamma, grazie a una lettera anonima di quelle con cui, a certe latitudini, si allestiscono tragedie, vengono scoperti in una "penetrante" conversazione dal papà.

La cugina Marietta, dopo il compito di nave scuola espletato egregiamente, duna adenzia non più al dotato Michilino, ma a suo padre che conciato per le feste il parrino e cancellata la mamma dalla vita del figlio, ha bisogno di rasparsi le corna con carne fresca.

C'è un problema, però: quando ficcano un uomo maritato e una donna schetta, piccato mortalissimo è.

A Michilino, manco a dirlo, spetta il compito di rimarginare la ferita di Gesù per le cose vastase del papà e della cuscina. E lo farà in un modo tragico e pirotecnico.

L' "infanzia sabotata" di Michilino trova il suo compimento nel "Tu sei mio" del Gesuzzo che vola sopra le fiamme e dell' "Io sono tuo" del picciliddro che trase nel foco vivo.