mercoledì 23 ottobre 2024

"Ragionevoli dubbi", di Gianrico Carofiglio

Guido Guerrieri, stavolta la cosa si fa compromettente, e a livello sentimentale, e dal punto di visto professionale.

Andiamo con ordine: Margherita vuole parlargli, e Guido s'immagina già intento a cullare il bambino che verrà. Che dovrà venire. Ma, a volte, si sa, le aspettative vengono tradite dal cinismo della realtà.

La sua compagna ha ricevuto una proposta di lavoro che la porterà via per molto tempo. E nel momento in cui glielo dice, Guido Guerrieri ha la netta sensazione che dietro questa comunicazione c'è già una decisione. Di cui occorre solo prendere atto.

L'avvocato Guerrieri si ritrova solo, in un'età in cui le rotture cominciano a far presagire esistenze spaiate.

Dal passato riemerge una figura, Fabio detto Raybàn, che ha segnato l'adolescenza di Guido. Erano i tempi della contrapposizione tra i picchiatori fascisti e gli idealisti di sinistra e, manco a dirlo, attraverso quel Fabio, il Nostro si è imbattuto per la prima volta nei soprusi al retrogusto di manganello.

Ora, a distanza di tanti anni, il picchiatore viene a chiedere aiuto proprio all'avvocato Guerrieri: è stato sorpreso con un rilevante carico di droga di ritorno dal Montenegro assieme alla moglie Natsu e alla piccola Anna Midori, ma lui giura di non saperne niente. Per giunta il difensore che gli si è offerto con modalità alquanto sospette, un tale Macrì dal passato non proprio adamantino, sembra spingerlo verso una condanna inevitabile.

L'avvocato Guerrieri, scelto perchè, oltretutto, lei è una persona onesta, capisce ben presto che di quel Raybàn della gioventù non è rimasto niente. A ribadirglielo, è la conturbante Natsu. Già, Natsu: una bellezza destabilizzante, che ha il fascino di una promessa di condivisione.

Attento, Guido: la faccenda, con i suoi cortocircuiti, è maledettamente rischiosa. Occorre infatti, nell'ordine, difendere chi per logica appare inesorabilmente colpevole, andare contro il dogma intoccabile della solidarietà tra colleghi e, infine, porre argine alla piena di un trasporto (una donna, la figlia mai avuta che, a questo punto, probabilmente mai si avrà) che tu proprio non ti puoi permettere.

La matassa, alla fine, verrà sbrogliata, sebbene la vittoria processuale si alimenti della rinuncia agli affetti appena lambiti. Non resta che citare la battuta finale di "Casablanca" (Louis, credo che questo sia l'inizio di una bella amicizia) mentre il prezioso Carmelo Tancredi e Guido si perdonano a vicenda una provvidenziale alzata di gomito. Poi, quando si tratterà di fronteggiare malinconie e angosce, ci sarà sempre qualche libro notturno de L'Osteria del Caffellatte pronto alla bisogna.

10 e non più di 10 #16

Ora sei mansueto. Rassegnato.

Gli occhi acquosi che implorano compassione.

Il rivolo di saliva che oltraggia il tuo machismo.

Le botte di una vita che mi hanno deformato le ossa.

La mia volontà annichilita dal tuo dispotismo.

Sono padrona della tua dignità, adesso.

Non c'è vincolo matrimoniale nè carità.

Soffri. E voglio vederti soffrire.

Lentamente. Bene.

Fino alla mia redenzione.

"La scomparsa di Patò", di Andrea Camilleri

Principalmente lettere (dal delegato di p.s. Ernesto Bellavia al Questore di Montelusa e dal Maresciallo dei RR. CC Paolo Giummàro al Capitano), ma anche pagine di giornali, murales, avvisi pubblici, etc. Nelle mani sapienti del Maestro Camilleri, ogni fonte serve allo scopo: provare a spiegare il come e il perchè, subito dopo la rappresentazione del "Mortorio" nel Venerdì Santo del 1890, il ragioniere Antonio Patò, Direttore della locale filiale della Banca di Trinacria, sia improvvisamente scomparso.

Nei panni di Giuda, dopo il suicidio di scena con annessa caduta nella botola del palco, del ragioniere Patò non c'è manco l'ummira: perdita di memoria, omicidio, fuitina?

A indagare, la polizia col delegato Bellavia e i Carabinieri, con il maresciallo Giummàro, dapprima in evidente, scontata competizione; di poi, mano a mano che l'affaire Pato s'ingrossa e che s'appalesa la volontà nella alte sfere di incastrarli, grandi compagni e sodali.

E di comunione d'intenti, per venire a capo della scomparsa, ce n'è bisogno, e pure tanto: tra la sollecitazioni dello zio dello scomparso (nientemeno che un sottosegretario), i conti della banca che, a dispetto della decantata rettitudine del ragioniere, sembrano non proprio in ordine, la mafia che quando si tratta di vicende siciliane, c'entra sempre come il classico cavolo a merenda...insomma, un bel busillisi.

Eppure, per chi ha la costanza di raccogliere e impilare indizio su indizio, le cose cominciano a dipanarsi: c'è il superiore del Patò a casa del quale il ragioniere stesso si reca puntualmente per fare il punto della situazione finanziaria della banca. Tutto normale, se non fosse che il Direttore provinciale soffre di improvvi attacchi di sonno che non gli consentono di presenziare fino alla fine agli incontri col sottoposto, e che la moglie del Direttore, bellissima e sensuale, all'improvviso scompare pure lei.

Ma che c'entra? Per la signora in questione si tratta di morte e non di sparizione, eppure...

Quando ormai la matassa è dipanata, e il Bellavia e il Giummàro redigono rapporto ai propri superiori in cui spiegano ogni cosa, la trappola è pronta per scattare proprio ai danni dei solerti rappresentanti delle forze dell'ordine.

Per non saper nè leggere nè scrivere, occorre prepararsi il famigerato "saltafosso": all'uopo, si può sempre ricorrere a un beccamorto capace di raccattare una salma che abbia fattezze e costituzione assimilabile a quelle del ragionier Patò. Si piazza dove è opportuno farla trovare, e la scomparsa del "Giuda del Mortorio" è bella e spiegata.

D'altronde, se i primi a non voler giustizia (troppo perigliosa e disturbante per il quieto vivere) sono proprio i vertici delle forze dell'ordine che dovrebbero perseguirla senza tentennamento alcuno, tanto vale adeguarsi e attaccare lo scecco dove dice il padrone.

Mosaico di documenti di varia natura, questo La scomparsa di Patò del Camilleri, che supera ben presto il diaframma del burocratese per incantare, ancora una volta, il lettore.

10 e non più di 10 #15

Appena la mia auto arrivava all'incrocio, la coincidenza: un'altra macchina si immetteva sulla strada principale. Da una traversa secondaria. Sempre.

Ho cambiato lavoro. Mi sono trasferito in una città nuova.

Alla guida dell'auto, intraprendo la rotatoria di giornata. Ho appena il tempo di intercettare una scaglia di vernice che un Suv mi precipita addosso.

La morte aveva allestito il set, quello della coincidenza.

La soddisfazione di averla costretta a cambiare location.

"Maigret e il caso Saint-Fiacre", di Georges Simenon (trad. Rosalba Buccianti)

Il commissario Maigret è a Moulins. Probabilmente, se si fosse trattato di un altro luogo, non ci sarebbe neppure andato.

Come infatti prestare fede a quel foglio di carta quadrettata comparso all'improvviso negli uffici del quai des Orfèvres?

Vi informo che sarà commesso un delitto nella chiesa di Saint-Fiacre durante la prima messa del Giorno dei Defunti.

Il castello di Saint-Fiacre che il padre del commissario aveva amministrato.

La contessa che agli occhi del piccolo Maigret rifulgiva di un alone di inarrivabilità.

Il prestigio della casata che sembrava inscalfibile dagli eventi.

Il commissario adesso respira, amareggiato, l'area di decadenza che sembra avvolgere tutto e tutti: il castello, ipotecato fin nelle suppellettili; la contessa di Sant-Fiacre, che cambia segretari su segretari, tutti giovani, tutti scioperati, e nei confronti dei quali il chiacchericcio pruriginoso continua imperterrito.

Alla fine della funzione religiosa, tra un gelo che avvolge ogni pagina del romanzo, effettivamente si verifica quello che è stato preannunciato nel bigliettino anonimo: la contessa muore, davanti al messale squadernato: un ritaglio di giornale (vero?) che qualche mano infida fa scivolare tra un'orazione e una preghiera, riporta la notizia del suicidio di suo figlio, Maurice di Saint-Fiacre.

Il colpo è di quelli ferali.

Frattanto il figlio della contessa, che aveva chiesto alla mamma l'ennesimo prestito per evitare un disdicevole arresto, giunge al castello.

Maigret, com'è sua abitudine, studia i vari personaggi che si trova di fronte: Maurice di Saint-Fiacre, per sua stessa ammissione scapestrato e buono a nulla, eppure con una lealtà di fondo difficile da decifrare; l'attuale amministratore, signor Gautier e il di lui figlio, Emile, impiegato in una banca, che non perdono occasione per rimarcare le difficoltà economiche in cui versano le finanze del castello e della famiglia Saint-Fiacre; il curato, con gli occhi ebbri di una denuncia silente verso i costumi corrotti del tempo; il dottor Bouchardon, che sembra non rassegnarsi all'idea di una morte innaturale.

La sala del castello illuminata dalle sporadiche candele e innaffiata da vino e liquori, è qui. I protagonisti di questa oscura vicenda, Maigret compreso, sono tutti seduti all'imponente tavolo. D'altronde, per ammissione dello stesso Maurice di Saint-Fiacre, "prima della mezzanotte, l'assassino di mia madre sarà morto!".

Al centro del tavolo, a una distanza equanime dai convitati, una pistola che armerà il destino.

Nella sala di sopra, dove non c'è nessuno a vegliare la salma della defunta, a mezzanotte si ode uno sparo: la rivelazione, indiretta e contorta, del vero colpevole per la morte della contessa.

Uno stanco Maigret che forse per la prima volta si è limitato a osservare gli eventi senza indirizzarli in maniera decisiva verso un approdo o l'altro, ha il tempo comunque di intervenire: a seconda della verità che sarebbe trapelata, infatti, ha capito che la versione del piccolo Ernst, il chierichetto nelle vesti del quale era stato nascosto il messale incriminato, sarebbe cambiata. Manco a dirlo, per far ricadere la colpa sull'uno o sull'altro.

Nulla è quello che sembra. O davvero molto poco.

Ancora una volta, un Simenon magistrale.

10 e non più di 10# 14

«Ma ecco un probabile testimone. Cos'ha visto, lei?»

«Io? Niente. Appena sono iniziate le prime schermaglie, mi sono andato a cambiare d'abito»

«Cioè? Non capisco»

«Mi sono vestito bene per essere intervistato da lei. Io sono condannato a mettermi in tiro. Così come a farmi la barba. Sempre».

«O bella, e perchè?»

«Perchè sono nero. Se fossi stato trasandato, altro che intervista! Lei avrebbe evitato l'immigrato che giocoforza è in me. O mi avrebbe rivestito del cono d'ombra dell'irrilevanza»

"Non avevo capito niente", di Diego De Silva

Eccolo qui, l'avv. Vincenzo Malinconico, che nelle sue peregrinazioni tra lo studio ikea di 18 metri quadri e il tribunale delle sempiterne "coreografie del diritto", prova a mettersi a fuoco. E magari ci riuscirebbe pure, se non fosse per la professione inflazionata peggio che l'umarell al cantiere, o per l'amore che non c'è, e quindi provi a fartene una ragione, ma che improvvisamente ritorna e ti imballa il sistema. E sì perchè tra l'assenza e il ritorno del despota del cuore, c'è quell'Alessandra Persiano, star incontrastrata nei palazzi di giustizia, che sembra aspettare proprio un tipo scombinato come il Malinconico.

Ci sarà qualcosa tra i due e, soprattutto, durerà?

Altro giro, altra corsa: il Borsone, con l'edificante ruolo di smembratore di corpi con conseguente seppellitura di arti (distanziati in maniera tale che un piede se ne stia abbastanza lontano da un braccio per evitare collegamenti), si perde una mano. Quest'ultima, guardacaso, viene rinvenuta nel suo giardino: il cane gli ha fatto il servizio. Al Borsone, ovvio.

Malinconico lo viene ben presto a sapere: sarà lui il principe del foro che dovrà difendere il macellaio della camorra. Tutto bene, a parte il fatto che lui, il codice penale, lo deve andare a riesumare da un metro di polvere e più dei brogliacci dell'università.

Il Borsone viene brillantemente scarcerato e, come corollario a questo trionfo, il Nostro si vede assegnato l'efficentissimo Tricarico col ruolo di guardiaspalle, accompagnatore e, all'occorrenza, codificatore del linguaggio della mala: un camorrista "bravo guaglione", il Tricarico, che risolve l'annosa pratica volpino scassacazzi confinato nella stanza adiacente a quella dello studio legale: modi spiccioli, ma con un grado di efficienza altissimo.

E se il segreto di una vita quieta fosse proprio quello di agire unicamente per raggiungere il risultato, a prescindere quindi dalle metodologie adoperate e dai deprecabili effetti collaterali?

Tra elucubrazioni varie, alzate di ingegno, miserie che costellano la professione forense, figli "liquidi" che sembrano si mettano di buzzo buono a creare grattacapi; e ancora, tra strizzacervelli che non hanno le idee chiare (!), tipi gentili che scollinano nella follia, l'Eugenio Finardi che faceva il rockettaro quando gli altri cantautori rifilavano pipponi di testo (molto) e musica (poca), all'avvocato Vincenzo Malinconico non resta, per sopravvivere, che trincerarsi dietro il "non avevo capito niente" del titolo.

Vi sembra poco? A me, e ai tanti lettori del sagace De Silva, no. Decisamente no.