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lunedì 6 agosto 2018

"I Pitard" di G. Simenon


Prendete un vecchio lupo di mare, il capitano Emile Lannec. Mettetelo nella condizione, dopo tanti viaggi e traversate a servizio di altri, di avere finalmente una nave sua.
Certo, ci sarebbe il particolare che la firma di garanzia per la restante somma necessaria all'acquisto, sia proprio quella della vecchia suocera, la signora Pitard, ma...l'essenziale è avercelo, un legno proprio, che ti possa far solcare i mari, non vi pare?
E allora via, barra a dritta, e il Tonnerre de Dieu...come? Ebbene sì, la nave si chiama proprio così, come la bestemmia preferita (Tonnerre de Dieu, per l'appunto) del capitano.
Se vi meravigliate del suo ardire è perchè non conoscete la burbera spontaneità di Emile Lannec.
Ma non meniamo il can per l'aia.
Mathilde Pitard, sua moglie, viene ben presto a scompaginare l'equilibrio sulla Tonnerre de Dieu. Non riesce ad accettare i modi spartani, le abitudini "alla buona" che governano fin dal romanzesco quindici uomini sulla cassa del morto, yo-ho-ho, e una bottiglia di rum per conforto, la vita di ciurma.
Ma si sa, lei è una Pitard. Nonostante tutto, lei resta una Pitard. E sì perchè c'è proprio un modo di essere nel mondo, di mettere insieme ore e giorni, che è tipico della schiatta Pitard: la forma, l'etichetta, l'interesse.
Eppure Emile Lannec è felice come un bambino per la sua nuova nave. E continua a esserlo anche in seguito al ritrovamento di un biglietto: Non è il caso di fare il furbo. Uno che sa quello che si dice, t'annuncia che il "Tonnerre de Dieu" non arriverà a buon porto. Questa persona ha l'onore di salutarti insieme con la signora Mathilde.
"Un burlone!" - commenta, noncurante dell'avvertimento, Emilie Lannec.
Sta si fatto che dopo quel messaggio anonimo, le cose, a bordo, iniziano a peggiorare.
Oltre all'insolita, iniziale decisione della moglie di restare sul Tonnerre de Dieu (ma Lannec confida nelle asperità della vita marinaresca per farle cambiare ben presto idea), Mathilde impone che il pranzo venga servito dapprima a lei e a suo marito, e poi a tutto l'equipaggio, rompendo quella tradizione cameratesca che vuole che il capitano pranzi con tutto l'equipaggio.
"Ma si sa," - osserva, ancora una volta rassegnato, Lannec - "Mathilde è una Pitard!"
Quando però, in seguito a una sfuriata, la moglie confessa a Lannec che non ha sposato Marcel il violinista solo perchè la madre si è opposta, e che, ciononostante, ha tradito il marito proprio con Marcel, Emile Lannec non è disposto più a fare spallucce.
Uno schiaffo del capitano confina la moglie, orgogliosa e altezzosa come solo una Pitard sa esserlo, all'interno della cabina.
I giorni passano e finalmente eccolo, l'approdo ad Amburgo in grado, secondo Lannec, di far finalmente scendere dal Tonnerre de Dieu la moglie ("che vada pure a congiungersi con quel violinista da strapazzo!") e di classificare indiscutibilmente quel biglietto come uno scherzo di pessimo gusto: ormai, infatti, la nave è "giunta a buon porto."
Sceso dall'imbarcazione, Emile Lannec accetta la proposta di prendere a bordo del Tonnerre de Dieu un ingente carico di materiale ferroviario da trasportare fino in Islanda in tempi brevissimi.
Non potrebbe anche questo essere un pretesto per non pensare più a quella maledetta Pitard?
In procinto di intraprendere questa disperata avventura, scopre che la moglie è ancora sulla nave.
Perchè?
Mentre raccoglie la segnalazione della Françoise che è in balia di una tempesta di mare e di pioggia, quando è ormai convinto, proprio al vedere la faccia dei marinai che vengono falcidiati dalle onde, che non raggiungerà più in tempo Reykjavík, capisce ogni cosa.
Tutt'intorno è un inferno di lamiere, di uomini inghiottiti con l'illusione di una gomena che si perde nel fondo degli abissi, di bottiglie di Calvados scolate solo per ubriacare la consapevolezza di trovarsi ai titoli di coda.
Alla fine di tutto, quando la morte ha messo in cascina una buona scorta di poveri diavoli, nessuno avrebbe mai potuto immaginare che il rozzo Lannec si fosse, adesso sì, innamorato perdutamente di sua moglie.
Nonostante fosse una Pitard.

giovedì 15 marzo 2018

"Numero Zero", di Umberto Eco


È una redazione raccogliticcia, un rassemblement di nuove e vecchie disillusioni, quella messa in piedi dal dottor Simei. Missione? Confezionare dodici "numeri zero", uno per ogni mese dell'anno, disposti a dire la verità su tutto. 
Piccolo particolare: il giornale verrà stampato in pochissime copie, quante ne basteranno al commendatore Vimercate, editore di "Domani", per dotarsi di una probabile arma di ricatto.
Secondo il suo convincimento, infatti, sarà sufficiente dimostrare di essere in grado di mettere in difficoltà qualche pezzo grosso, per entrare nel salotto buono della finanza, delle banche e dei grandi giornali.
Ovviamente, l'esperimento riuscirà solo se nessuno, a parte il Commendatore, Simei e Colonna, saprà che il giornale non vedrà mai la luce. Tutti, compresi i collaboratori, dovranno pensare che "le rotative scalpitano."
È un giornale, in soldoni, ricavato dalle notizie pubblicate su altri quotidiani e prontamente dimenticate (tutto si dimentica e sempre più in fretta). 
Il linguaggio dovrà essere quelle dell'uomo qualunque, che parla, per esempio, di "occhio del ciclone" per indicare il centro tumultuoso degli eventi, ignorando che è proprio lì, nell'occhio del ciclone, che c'è l'unico punto di calma perfetta.
E via dunque agli oroscopi, alle notizie che sembrano voler comunicare qualcosa ma che, in realtà, fomentano sospetti e retropensieri.
Colonna, la persona scelta da Simei per dirigere "Domani", è un perdente "compulsivo", abbandonato, a cinquant'anni suonati, sulla via della solitudine dopo pochi anni di matrimonio, che non si è mai laureato perchè sapeva il tedesco.
Potrebbe scrivere un libro, ma il suo continuo rimando a situazione letterarie glielo impedisce.
Un cielo nitido e terso? Nella mente di Colonna scatta subito, fino a non lasciar posto ad altra circonlocuzione, il cielo "da Canaletto." Addio, quindi, originalità, e buonanotte velleità da scrittore!
Poi c'è Maia (rimando al "velo di Maya" di Schopenhauer?), trentenne che è in disaccordo con il mondo perchè nessuno, almeno fino all'incontro con Colonna, riesce ad accordarsi con i tempi illuminanti delle sue intuizioni e dei suoi pensieri.
Tra gli altri personaggi di "Numero Zero", non si può non parlare di Braggadocio la cui mente ha come unico filo conduttore il complotto paranoico. Riesce a concatenare tra loro eventi apparentemente lontani e discordanti ricostruendo, così, una fantasiosa(?) storia di cinquant'anni d'Italia. Il fulcro della narrazione è il sosia di Mussolini (quello esposto in Piazzale Loreto) mentre il vero duce se n'è rimasto tranquillo e beato in Argentina fino al giorno della sua morte: il giorno stesso del fallito colpo di Stato di Junio Valerio Borgese. E poi Gladio, la P2 con il venerabile Gelli, l'assassinio di Papa Luciani, la Cia, le Brigate Rosse infiltrate, e via di questo passo.
Macchina del fango? E come mai un giornalista è stato ucciso? E perchè la trasmissione della BBC sembra dare ai fatti un'aurea di veridicità?
Qual è la verità, quale la menzogna?
Colonna, ormai fattosi persuaso del pericolo di morte imminente, vorrebbe scappare via lontano, in un posto dove anche il Male sia riconoscibile come tale e non nascosto tra le pieghe del perbenismo.
"E perchè andar via, allora?" - gli chiede sarcastica Maia (ed eccolo il velo del filosofo che, ormai squarciato, mostra la nuda verità!): l'Italia sta proprio diventando come il paese di sogno in cui Colonna vorrebbe esiliarsi, la nazione in cui non c'è più memoria. Ergo, - è l'amara conclusione di Maia - è inutile andarsene via.
Sarà, ma io non sento più la voce del personaggio del libro che dice queste cose. Quest'ultima frase, la parte finale del romanzo per chi avrà la bontà di leggerlo, è pronunziata con quello scoramento burbero, proprio del piemontese pronto a risalire in montagna per resistere alla barbarie, del Maestro.
Ancora una volta, Prof, c'ha visto giusto.

sabato 17 febbraio 2018

"La paura di Montalbano", Andrea Camilleri


Montalbano, macari l'Andreuzzo Camilleri, to' criatore, s'è addivertito a farti fare l'opira de' pupi.

Gli episodi in cui ti trovi a firriare capitolo appresso a capitolo, infatti, sono addirittura cinque, in questo libro!
In un vidiri e svidiri ti trovi assugliato, in Giorno di febbre, da una febbre malitta e da un termometro che, malgrado la tambasiata casa casa, non s'arrinesci a trovari.
L'unica è passare alla farmacia di Vigata. Ma qui, Montalbano mio, vai per attrovari un termometro e ti trovi a soccorrere 'na picciliddra colpita per sbaglio da un colpo di revorbaro.
Manco il tempo di catafotterti a soccorrerla che un barbone, agginucchiatosi allato alla nicareddra, con troppa perizia le dona adenzia.
E a te, Salvo Montalbano, affascinato dalla calma e dalla precisione dei movimenti del barbone, la cosa ti feta d'abbrusciato. Ti avvicini per spiargli qualcosa ma lui t'implora di farlo andare via, che vuole restare per tutti un barbone.
E allora, tra il paro e lo sparo, non ti resta che chiedergli, in assenza di 'sto fituso di termometro che non s'arrinesci a trovari, quanto, secondo la sua esperienza di medico, puoi avere di febbre.
In Ferito a morte, a causa del nirbuso causatoti da pagine scipite e splapite di un libro che non ti fa pigliare sonno, ti trovi a rispondere all'ennesima telefonata di Catarella. Un usuraio morto ammazzato. La nipote di Gerlando Piccolo che spara il presunto omicida.
Montalbano, la cosa non ti quatra. Te ne dovrebbe fottere picca e nenti di Dindò, il garzone del supermercato che non s'arricampa ma capisci che Dindò, spilungone con il ciriveddro di un picciliddro, ci trasi eccome con la morte dello strozzino.
Ancora una volta, Montalbano mio, c'inzertasti.
In Un cappello pieno di pioggia, per andare a cena da un compagnuzzo delle elementari, di quelli che, all'epoca, ti portavano sulla mala strata ma che adesso è diventato addirittura  proprietario di una catena di negozi fashion (di quelli che, per tre para di quasette, tre cammise, tre mutanni, tre fazzoletti, una cravatta, ti suca una bona metà del tò stipendio di sbirro), sbatti le corna in un cappello che, per lo sdilluvio, è pieno di acqua e di...mistero.
Ne Il quarto segreto, ammucciato dintra a un portone, ti arritrovi a seguire addirittura le mosse di Catarella. E mentre il tuo centralinista camina quatelosamente ranto ranto il muro, un colpo di revorbaro squarcia la notte.
Catarella, con una grossa macchia scura in mezzo al petto, t'assicura che è tutto tiatro.
E' un sogno, Montalbano, eppure al risveglio, ti scopri (e ti scanti, ah quanto ti scanti!) che pure Catarella strascina la gamma mancina. E poi due, tre, addirittura quattro segreti ti troverai ad avere in comune con il tuo agente.
In La paura di Montalbano, ci arrinescì la tò Livia a portarti in montagna, eh, Salvuzzo? Non lo sapi che tia, appena supra i cinquecento metri di altizza, principi a diventare grevio, pronto ad attaccare turilla a ogni minima occasione?
E con le botte di malinconia che, a questa altizza, puntualmente ti fanno addiventare mutanghero e solitario più del solito, come la mettiamo?
Eppure, anche sopra il cocuzzolo della montagna, ti scanti come un picciliddro di scinniri nelle  profondità dell'abisso umano.
Ne Meglio lo scuro, un parrino di quelli regolari, con abito nivuro e crocifisso, ti viene a scassare i cabasisi (come dice il detto, Salvù? Ah, sì: A monaci e parrini, sintitici a missa e stuccatici li rini) con una storia di cent'anni narrè coperta dal segreto del confessionale.
Ma tu, caro Montalbano, ci sciali, nevvero, a parlare con vecchiareddri che macari s'arricordano il prezzo del burro nel 1912 e si sono scordati, invece, come si chiamano?!
Adesso che ci sei, però, ora che ancora una volta sei arrinisciuto ad addrumare la luce nel buio fitto del mistero...non ti prioccupare, Salvo mio, meglio lasciare lo scuro del sonno e della memoria.
Cosa fatta, capo ha.

sabato 3 febbraio 2018

"La doppia vita dei numeri", Erri De Luca

Erri De Luca, irretito da due commedie di Eduardo (Le voci di dentro e Ditegli sempre di sì)  dalle quali "nessun napoletano può prescindere", si cimenta pure lui nel teatro

Si apre il sipario.
Siamo a Napoli dove ogni rituale è un'esibizione, il posto in cui perfino sulle navi borboniche veniva ordinato di "fare ammuina."
Un fratello, alter ego dello scrittore, che guarda disincantato dalla finestra la piedigrotta allestita per il capodanno.
La sorella, caparbia tessitrice di atmosfere, che costringe il fratello a fare pace con la sua napoletanità.
Al centro della tavola una tombola che, come per incantamento, prende vita.
Ci sono due giocatori per quattro cartelle ciascuno: due per il fratello che ne prende in consegna altre due per il padre; due per la sorella, che si sente in dovere di "guardarne" altrettante per la mamma.
E sì, perché la tombola è il contrario del sogno. Nella tombola si estrae dal panariello il numero che non deve cristallizzare un fatto, come nel sogno.
Nossignore, nella tombola avviene l'incontrario: è il numero che sollecita il racconto, che impetra di essere messo in contatto con tutti gli altri numeri, fino a dare vita a un carosello di fattarielli: la trama e l'ordito, cioè, di un intreccio magico capace di evocare presenze.
Mamma e papà, questi fantasmi!
È un dialogo surreale tra due universi (quello dei vivi e quello dei trapassati) che grazie alla doppia vita dei numeri, quella intrinseca e quella del rimando, arrivano a sfiorarsi e, per un attimo solo, a sovrapporsi e a condizionarsi a vicenda.
Dall'album di famiglia riemerge la pernacchia di papà, "arma contundente che si punta contro qualcuno". Manco il tempo di cimentarvisi, che ecco spuntare il capitone di mammà che puntualmente, ogni vigilia di capodanno, viene perso per casa fino a ricomparire sotto la cesta dei panni.
Ci siamo quasi, mancano due minuti alla mezzanotte.
<Tombola!> Mamma e papà hanno fatto tombola con lo stesso numero.
Fuori si scatena l'inferno. Adesso lo scrittore può osare.
<Quando vengo a stare con voi?>
Mamma con il sorriso, papà corrucciato, si trovano ancora una volta d'accordo:<Presto.>
Chi è nato a Napoli sa che la domanda è lecita ma anche che, una volta ottenutane risposta, il colloquio s'interrompe, la dimensione ritorna a essere unica, ogni canale si prosciuga nella banalità del reale.
Visione, una distanza ci divide.
Fuori esplode la poesia di Napoli.
Lo scrittore, adesso sì, si rasserena.
Può finalmente riaccogliere quella napoletanità dalla quale, suo malgrado, non può prescindere.
E il due ridiventa uno, il doppio definitivamente unico.

martedì 30 gennaio 2018

"L'età del dubbio" del Montalbano di Camilleri

Il dubbio è così, un pedi leva e l'autro metti, e te lo trovi a firriare come un satanasso nel ciriveddro.

Montalba', ormai hai cinquantotto anni.
E se il dottor Pasquano è in evidente malafede quando ti scassa i cabasisi ricordandoti la tua età necessariamente da 'ntordonuto; e se ancora il dottor Lattes ("quello con la esse in funno"), dall'alto della sua voce da parrino, non si fa pirsuaso che un uomo, squasi sissantino, non abbia famiglia (e certo che gliel'hai raccontata bene la farfantarìa del figlio malato, eh? A tal punto che pure Livia, se le fossi stato a portata di mano, ti avrebbe preso a pagnittuni), i dubbi restano, Montalbano.
Finanche sulla tua prisenza di pirsona pirsonalmente in questa facenna, ce ne sono, di dubbi.
Che dici? No, non ho gana di babbiare.
Questo libro inizia o non inizia con te che vorresti andare a Boccadasse e Fazio e Catarella che ti dicono che nonsì, che non è cosa possibile perche sei morto aieri a matino alle sette e un quarto pricise?
Va bene, è un sogno, siamo d'accordo.
Ma l'indagine che ti vede alle prese con lo yacht Vanna che si chiama allo stesso 'ntifico nome della piccotteddra con l'ariata da cani vagnato che poi si rivela tutt'altro da quella che appare?
Non è un dubbio che solo troppo tardi riesci a sciogliere, Salvu'?
E che cos'è, se non un altro dubbio che se ne aggiunge ai precedenti, quel nome, Emile Lannec che pur dovrebbe ricordarti qualcosa ma che, come la faccia fracassata ne impedisce il riconoscimento, così la tua vicchizza ormai conclamata non te lo fa collegare al protagonista de "I Pitard" dell'amato Simenon?
E tra l'ennesimo sbarco di clandestini che mannavano quell'aduri che feriva, quello dei "dolori del mondo offeso" del Vittorini e la presenza di un'altra Livia, questa sì, da dare addirittura in pasto (matre santa!), alla libidine mai doma di Mimì Augello, un miracolo: l'amore.
No, Montalbano, vatti a fare un altro giro sullo scoglio chiatto, addrumisciti l'ennesima sicaretta, e non ci pensare: stavolta macari a mia il confine tra il dubbio e la cirtizza appare cosa da mastro d'opira fina.
Ma poi, Salvo Montalbano, te la puoi permettere ancora la gioventù per un sentimento così funnuto? E la to' Livia?
Dubbi, e ancora dubbi.
Eccola, la cirtizza che t'apparalizza:un colpo di revorbaro sparato dal cruiser dell' "Asso di cuori."
Si è principiato con la morte, si finisce con la morte.
No, Montalba', la to', no. Anzi, fattelo dire: sarà stato la vista di Laura in difficoltà, ma hai mostrato coraggio e energia a tinchitè, altro che vecchiaia.
Tanto di cappello, commissa.'
Eppure, adesso che tutto è finito, ora che la morte ha sciolto ogni dubbio sulla tua capacità di amare come un picciotteddro, ti senti di umore nivuro assa'.
Talè, Montalbano, lassa perdiri.
In amuri, la ragione o si dimette o va in aspettativa, e quest'è quanto.

mercoledì 24 gennaio 2018

"Garibaldi era comunista", di Luciano De Crescenzo

Recensire uno degli ultimi libri di Luciano De Crescenzo, è un po' come sognare al cospetto di una finta (parafrasando il pensiero poetico di Luigino 'o poeta del Così parlò Bellavista) del Maradona di oggi

Certo, a te patito del Napoli degli scudetti che fu (e che speriamo...vabbè, ci siamo capiti), costa fatica intravedere il talento del predestinato nelle movenze del Dieguito panzuto e brizzolato che ti sta adesso di fronte.
Eppure, in virtù di quel credito illimitato che il De Crescenzo-Maradona ha acquisito ai tuoi occhi con gli scritti post IBM, ora sei pronto a mentire spudoratamente e a considerare ogni suo libro recente all'altezza della Storia della filosofia greca o de La vita di Luciano De Crescenzo scritta da lui medesimo.
Manco a farlo apposta, Garibaldi era comunista dello scrittore napoletano si pone a metà strada, almeno con riferimento ai contenuti, a queste due opere ineguagliabili.
Si parte con una visita di Publio Cornelio Tacito, storico dell'antichità, e Hieronymus Wolf, suo collega (sia pure con l'aggiunta della qualifica di astrologo) del Cinquecento.
De Crescenzo, fin dalle prime battute, ci presenta l'organigramma della sua opera: dapprima un più o meno accennato abbozzo alle vicende storiche intessute con qualche aneddoto(spesso ripreso paro-paro da un libro precedente) della sua vita; di poi, un colloquio, a metà strada tra l'umoristico e il surreale, con i personaggi via via trattati.
Pronti, partenza, via.
Tra religione e mito, si susseguono, nell'ordine, le figure scimmiesche (tanto per mettere d'accordo evoluzionisti e creazionisti) di Adamo ed Eva; quella linguisticamente ingarbugliata della Torre di Babele con il piccolo Luciano che non comprende i nazisti della sua fanciullezza perché lui ha studiato solo il tedesco "di pace"; infine, non potevano mancare le gesta di Romolo e Remo accompagnati dal dubbio di De Crescenzo su chi fosse il fratello buono e chi quello cattivo.
Con l'imperatore Nerone che canta Voce 'e notte, si varca finalmente la soglia della Storia.
Largo, allora, a un altro imperatore, quell'Adriano col suo Pantheon aperto a tutti (schiavi, cristiani, neri e pure alle donne).
Poi viene il turno di Lorenzo il Magnifico con la sua gotta "pantofolaia" e la teoria degli umori di Ippocrate.
Si approda, così, sulle rive del golfo di Napoli, con il Masaniello nazionale che si fa le scorpacciate di "mastunicòle" (pizza con "'nzogna", formaggio e pepe).
De Crescenzo non può esimersi, malgrado ci avesse provato anche solo "perchè sembra che lui ci debba stare per forza" (in un libro di storia, ndr), dal trattare la figura di Napoleone che "preferisce non discutere."
Si apre, a questo punto, il siparietto tra Camillo Benso Conte di Cavour e Garibaldi su chi abbia fatto davvero l'Italia. Ovviamente Garibaldi, che indossava sempre una camicia rossa come De Crescenzo puntualmente un maglione azzurro, era comunista allo stesso modo in cui lo scrittore appartiene al Calcio Napoli.
L'epilogo è dedicato a Mussolini che, per De Crescenzo, ormai dev'essere considerato un personaggio storico piuttosto che politico, anche per darne un giudizio quanto più obiettivo possibile. Giudizio che (ça va sans dire) l'illustre scrittore stempera nella difficoltà dei fascisti di italianizzare il termine bidet perchè "il pudore, Mussoli', viene prima del fascismo."

domenica 21 gennaio 2018

"La danza immobile" di Manuel Scorza

La danza immobile, libro testamento di Manuel Scorza (lo scrittore peruviano morirà in un incidente aereo lo stesso anno della sua pubblicazione), è un romanzo sulla "impossibilità di scegliere."

E sì perchè la scelta, continuando a parafrasare Soren Kirkegaard, non può che concretarsi in una disperante rinuncia.
Vi è la paralisi, una danza, appunto,"immobile", sterilizzata com'è dall'indecisione: tra l'Amore e la Rivoluzione, cosa scegliere?
Per il rivoluzionario Nicolàs Centenario la danza, dopo una stasi interminabile, riprende a muoversi.
Troppo forte è il ricordo dell'albero della Tangarana, lì nella profonda amazzonia peruviana, a cui decine di compagni sono stati legati.
È bastato un colpo reazionario al tronco con un machete da parte del maggiore Basurco che sì, all'epoca era maggiore prima di essere degradato dopo l'incredibile evasione proprio di Nicolàs, per foraggiare la voracità di milioni di piccole, fameliche formiche.
Riscosse dal tepore dei loro nidi nelle nervature del tronco, le formiche sono diventate armi dell'oppressione.
A piccoli, instancabili morsi, hanno spolpato, disintegrato l'umanità dei rivoluzionari legati all'albero fino a inghiottirne anche il grido di dolore.
Eppure adesso che tutte le lucciole del mondo, proprio ora che la zattera sta oltrepassando l'ultimo posto di blocco, avvolgono il suo corpo intriso dalle sterminate persecuzioni e lo coprono d'oro, Nicolàs pensa alla sua Francesca.
Anche quando lo legano all'albero della Tangarana, il pensiero va a lei e a come abbia fatto meglio Santiago, il compagno Santiago, a scegliere Marie-Claire al posto della rivoluzione.
Pure per Santiago, però, c'è stato un momento in cui la danza è divenuta immobile, un attimo al cospetto del quale lui, nato per la rivoluzione e impossibilitato a concepire altro che non fosse la guerriglia e la liberazione dei popoli oppressi, si è trovato nell'incertezza di scegliere.
Marie-Claire, la dolcissima e fervente Marie-Claire o la missione assieme ai compagni come postremo tributo alla guerriglia?
Santiago sceglie di essere rivoluzionario d'amore.
Anche lui, però, nell'attimo in cui intuisce che la danza non può che essere immobile laddovve l'immobilità non è indecisione che paralizza ma equilibrio che fortifica, pensa al compagno Nicolàs che è partito per l'ultima battaglia di libertà, e lo invidia.
La verità è che una rivoluzione può tradire, o meglio essere tradita, alla stessa maniera di quanto possa tradire o essere tradita una donna.
La danza immobile di Manuel Scorza è un romanzo affascinante in cui l'impegno politico viene difeso con le armi dell'amore e l'amore, dal canto suo, viene protetto e custodito con il fuoco della guerriglia.
Probabilmente è da rintracciarsi in questa contaminazione, solo apparentemente paralizzante, il senso del libro dello scrittore peruviano.

mercoledì 3 gennaio 2018

"Storia della Rivoluzione russa", W.H.Chamberlin

Storia della Rivoluzione russa è un libro che, come ci dice lo stesso scrittore W.H.Chamberlin nella prefazione, "è frutto di dodici anni di studi e di ricerche", principalmente nella ex Unione Sovietica.

Oggetto di studio dello scrittore è quel lasso di tempo, ricco di eventi e di implicazioni future, che parte dalla caduta del regime zarista (marzo 1917) e arriva fino all'introduzione della cosiddetta "nuova politica economica" (marzo 1921).
Il tutto, ovviamente, senza tralasciare la sanguinosa guerra civile che seguì la rivoluzione bolscevica.
La domanda che lo scrittore americano si pone e alla quale, mentre analizza tutte le tappe che hanno portato alla rivoluzione russa (per certi versi, un unicum nel pur ricco panorama di rivoluzioni che l'hanno preceduta e seguita), si sforza di rispondere, è la seguente: come fu possibile a Lenin e alla sua schiera di seguaci relativamente ristretta (da studi attendibili, si parla di circa venticinquemila bolscevichi presenti in Russia al momento della caduta del regime zarista) conquistare il potere?
E soprattutto, come siffatto potere si è potuto conservare contro l'accanita resistenza delle antiche classi dirigenti che al tempo dello zar Nicola II facevano il bello e il cattivo tempo, con l'avallo determinante (in altri contesti) dei governi degli Alleati.
Senza contare, poi, i vari nemici che, a partire dal conservatore Krasnòv, passando per Denikin-Vrangel' con il loro "Esercito volontario" e terminando con l'anarchico Machnò, hanno a più riprese e da diverse posizioni combattuto i bolscevichi.
Le risposte, dopo un'analisi approfondita, quasi scientifica delle fonti in possesso dello scrittore, sono molteplici e diverse.
Per quanto riguardo la fase della conquista del potere, tra le altre, l'autore non può esimersi dal menzionare il sistema di governo degli zar con la sua incapacità di soddisfare il bisogno di terra dei contadini e i suoi metodi repressivi; così come non può evitare di soffermarsi sulla guerra mondiale che accrebbe la miseria nelle città e nelle campagne fino a portarla a un livello insostenibile.
Per ciò che attiene invece al mantenimento del bastone del comando da parte del genio di Lenin, dell'audacia e dell'entusiasmo di Trockij, e della fredda risolutezza di Stalin, i fattori che lo hanno permesso sono diversi.
Come non citare, a questo proposito, la differenza tra i bolscevichi, uniti e compatti tra le maglie del Partito, e le divisioni sempre presenti nei suoi avversari?
Ad esempio il già citato Machnò combattè Denikin e Vrangel', che teoricamente volevano tutti liberare la popolazione dal potere rosso, anche più accanitamente di quanto si scagliò contro i comunisti.
La verità, a conti fatti, è che tra i conservatori e i contadini anarchici non ci poteva essere alcuna collaborazione: troppo diversi per ceto e per aspirazioni sociali.
I bolscevichi, poi, possedevano un'invidiabile posizione (geografica) centrale.
I capi bianchi, invece, succedutisi volta per volta, erano divisi l'un l'altro da grandi estensioni di terra e di mare, nell'impossibilità, quindi, di coordinare le loro azioni.
Inoltre la stragrande maggioranza di armi e munizioni accumulate durante la prima guerra mondiale si trovava depositata in territorio bolscevico, costituendo, quindi, un indubbio vantaggio per i rossi.
Infine i socialisti rivoluzionari, probabilmente l'unica alternativa possibile ai bolscevichi, da un lato si dimostrarono più volte incapaci di imporsi in maniera unitaria e concreta, dall'altra, come i girondini della rivoluzione francese, non riuscirono mai a venir fuori da una posizione di ambiguità sostanziale: troppo a sinistra per la borghesia, troppo a destra per gli operai che stavano acquistando una coscienza di classe. Senza contare, poi, l'errore imperdonabile dei socialisti rivoluzionari di fondare il loro consenso sui contadini russi: su una classe sociale, cioè, ancora troppo acerba e ignorante per essere determinante nella presa del potere.
Ovviamente, sia pure di notevole importanza, questi fattori presi singolarmente, spiegano ben poco.
Solo mettendoli tutti assieme, coordinandoli, si riesce a capirne il ruolo dirimente nella genesi e negli sviluppi del periodo storico preso in esame da W.H.Chamberlin. A patto, ovviamente, di non dimenticare l'elemento cardine senza il quale nessuna rivoluzione, massimamente quella russa con la spietata oppressione dello zar, sarebbe mai potuta scoppiare: l'anelito di giustizia per troppo tempo ignorato e per tanti decenni vilipeso dalla classe dominante.


mercoledì 6 dicembre 2017

"Gialli d'estate", a cura di Marcello Fois


“Gialli d’estate” è una di quelle raccolte in cui è abbastanza agevole distinguere il buon grano dal loglio.

L’incipit contenuto ne la nota dell’editore è di quelle accattivanti, che creano suspence: la stagione migliore per compiere un delitto sembra essere l’estate.
A dimostrazione di questa premessa, ecco dipanarsi davanti agli occhi del lettore di genere o semplicemente di quello che confida nelle fibrillazioni del “giallo” per dare verve alla quotidianità, undici storie di giallisti “griffati” più o meno riuscite.
Il viaggio letterario inizia dai primi giorni dell’estate per terminare alle soglie dell’autunno.

Si parte con Il Sette di cuori di Maurice Leblanc, il creatore del famigerato Arsène Lupin. Il protagonista del giallo rincasa dopo una notte passata con amici al ristorante Cascade, tra maliconici valzer dell’orchestra tzigana e racconti di furti e crimini.

Una lettera che gli ingiunge di non muoversi, di non gridare qualsiasi cosa succeda, lo paralizza.

Quando ormai la quiete è ristabilita e il far del giorno incute la forza per “liberarsi” finalmente, l’ordine nella casa impera. Tutto è come dovrebbe essere, eccezion fatta per un sette di cuori sul pavimento.

Ne L’avventura dell’angelo caduto di Ellery Queen, proprio la scrittrice protagonista del giallo riesce a svelare cosa si celi dietro un alibi troppo perfetto per essere credibile fino in fondo.

Al centro della scena, una casa eccessivamente manierata; di quelle, per intenderci, che possono costare mesi e mesi di psicanalisi per liberarsi dagli “orribili sogni gotici”.

Il picnic del 4 luglio di Rex Stout allieta il lettore con la svogliata ma sempre feconda capacità d’indagine di Nero Wolfe che anche stavolta, nonostante l’arma impropria utilizzata (un coltello per l’arrosto) per l’omicidio, scoverà l’assassino. Nella raccolta c’è anche spazio per un giallo attuale, con i suoi pc e l’immancabile cellulare: quello del curatore del libro, Marcello Fois, che in Dove? ci presenta il commissario Curreli alle prese con un indagine troppo ricca di coincidenze per giungere al suo approdo consequenziale.È nelle segrete dell’ovvio che si cela l’inganno.

Il problema dela rosa rossa di Jacques Futrelle è uno di quei gialli che si prodiga alla ricerca di un metodo nell’apparente follia: 12 rose rosse inviate alla signorina Burdock, di lunedì, mercoledì e sabato.
Solo la dodicesima è quella fatale per la destinataria e per il suo cane. Perché?
Poteva mancare, in una raccolta di gialli, il buon vecchio Edgar Allan Poe? Certo che no, e qui ne Il Mistero di Marie Roget è presente con tutta la criticità del suo metodo induttivo e il suo rigore logico-scientifico.
Ne Il vecchietto delle Batignolles di Emile Gaboriau, la domanda che si rivolge al lettore è sconcertante nell’ovvietà della (presunta) risposta: ”Si può immaginare che un assassino sia tanto stupido da denunciarsi tracciando il proprio nome di fianco al corpo delle vittima?”
La regina del giallo Agatha Christie appare in un’estate ormai inoltrata con il suo Nido di Vespe: un’indagine perfetta, di quelle che non abbisognano di spargimento di sangue per svelare al fine Hercule Poirot autore e movente del delitto.
È la volta di Chaterine L. Pirkis che ne Il fantasma di Fountaine Lane si deve destreggiare tra un fantasma apparso al capezzale di una bambina e la sparizione di un assegno in bianco: dov’è il nesso?
Presente Agatha, non poteva mancare (Elementare!) sir Arthur Conan Doyle.
Il giallo (“statico”) che qui ci viene presentato è L’avventura di una scatola di cartone in cui all’arguto Sherlock basta, per l’appunto, la disamina di una scatola per “farsi un’idea” di come siano andate le cose.
Chapeau, mister Holmes!
L’enigma “testuale” ritorna con Salute e libertà di Fred Vargas in cui cui al commissario Adamsberg e al suo fido Danglard è affidato un compito: decodificare i “pizzini” che arrivano in ufficio con cadenza più o meno regolare, tutti firmati “Salute e libertà.”
E il senso del buon “Vasco De Gama” che continua a stazionare imperterrito di fronte al commissariato?
Undici gialli, gialli “come il sole di Ferragosto.”
“Perché il crimine non conosce vacanza.”

 

lunedì 25 settembre 2017

"Doppio sogno", di Arthur Schnitzler

"Doppio sogno" è il racconto lungo di A. Schnitzler che ha affascinato e intimorito Sigmund Freud.

Il fondatore della psicoanalisi Sigmund Freud ha esitato a lungo prima di decidersi a incontrare Arthur Schnitzler perché, con il suo "Doppio sogno", lo scrittore austriaco ha portato alla ribalta un inconscio "da lettino psichiatrico" così congeniale a quello da lui vivisezionato per tutta una vita.
Si parte da un ballo in maschera a cui i due protagonisti dell'opera, il dottor Fridolin e sua moglie Albertine, hanno partecipato negli ultimi rantoli di un carnevale che sta lasciando il posto alla primavera.
Si finisce con l'apparizione di un'altra maschera che Albertine, in assenza del marito, ha posto tra sé e il cuscino, quasi a voler simboleggiare il volto del compagno "divenutole enigmatico" per un portato di esperienze a cui lei capisce di essere estranea.
E sì perché "Doppio sogno" è il racconto di un'altra vita, probabilmente del tutto diversa da quella che si trovano a vivere i due protagonisti, se solo avessero deciso, in quel tempo e in quel luogo, di recitare la parte che una persona incontrata per caso, un evento apparentemente innocuo, gli hanno offerto.
Così Fridolin e Albertine iniziano a raccontarsi quello che avrebbe potuto essere e non è stato, lasciando a un certo punto spiazzato il lettore: quegli embrioni di opportunità, quella spes vitae, è uno dei tanti sogni che si stanno confidando o, piuttosto, si tratta di esperienze reali? Ma, soprattutto, dov'è il limite, il confine tra la realtà onirica e le occasioni di cambiamento che si sono lasciate cadere?
Anche la conturbante dama che Fridolin incontra in uno scenario di cospirazione e mistero potrebbe essere la signora che adesso giace nella camera mortuaria. Di una sola cosa è sicuro: questa donna qui all'obitorio, ma anche quell'altra "che aveva cercato, desiderato e forse amato per un'ora", non può rappresentare nient'altro che il "cadavere pallido della notte passata, destinato irrevocabilmente alla decomposizione".
Poco male, però. In "Doppio sogno" c'è il tradimento (solo onirico?) della moglie che confessa al marito di aver riso nel momento in cui Fridolin, per professare la sua fedeltà a Albertine, viene crocifisso. Ora lo stesso Fridolin ha il sacrosanto diritto di vendicarsi, indipendentemente se con un altro sogno in cui appare la donna bella della cospirazione oppure attraverso un'esperienza concreta.
Eppure Fridolin torna, di notte, da Albertine che, innocente come ogni donna suo malgrado custode del peccato originale, attira il marito verso di sé dopo che questi le ha raccontato tutto.
"Ma ora ci siamo svegliati..." disse "per lungo tempo."
Fridolin vorrebbe controbattere con  il più rassicurante "per sempre" ma subito la moglie, intuito il suo volere, lo ferma e sussurra come fra sé:" Non si può ipotecare il futuro".
Frattanto, nella stanza da letto di "Doppio sogno", irrompe la quotidianità appena svegliatasi dal sogno.

lunedì 5 giugno 2017

La Compagnia "La Ribalta" e la "Stella" provocatoria

Al Teatro "La Ribalta" di Salerno.

Per esorcizzare l'ovvietà di un sabato sera a via Roma; ma anche per saggiare la bontà di un'intuizione. E sì perché questa riscrittura di "Stella" di J. W. Goethe da parte della regista salernitana Valentina Mustaro, che promette di essere provocatoria e rivoluzionaria, incuriosisce. E come sempre accade quando la novità sovverte canoni ben radicati, indispettisce.
<Ma come, - sbotta il classicista benpensante di turno - si ardisce contaminare il Sacro Spirito de Le affinità elettive del Maestro?>
Eppure la Compagnia "La Ribalta", quando il sipario viene giù a lenire le fatiche e le emozioni dei teatranti, invece di essere incenerita dalla folgore della hybris (tracotanza), raccoglie approvazione e consensi. 
E se l'Io nascosto di ogni personaggio potesse diventare visibile agli occhi dello spettatore?
Eccolo il grimaldello capace di scardinare il perbenismo manierato dei protagonisti di Goethe!
E allora via alla "messa in scena" dei sentimenti, dei pensieri, in una parola della coscienza che si fa epifania, che si riveste di corpo e sangue: il velo dell'ipocrisia è definitivamente squarciato, il filtro delle convenzioni sociali irrimediabilmente saltato.
In questa brillante rivisitazione, la magnanima Cacilie che dovrebbe rinunciare a Fernando per consentirgli di restare definitivamente con Stella, lo fa, lo dice, ma proprio quando manifesta quest'alto proposito, il suo retropensiero, i rigurgiti del suo subconscio, prendono corpo sul palcoscenico: è un altro personaggio che recita, a fianco e in maniera sfasata rispetto a Cacilie, che si scaglia contro Stella e, vero fino alla crudeltà, vuole Fernando tutto per sé.
A questo punto, ogni azzardo è consentito, ogni altare è pronto a essere sconsacrato: finanche il finale tragico della morte di Fernando diventa pretesto per un epilogo ben più leggero, ambiguo e allusivo quanto si vuole, ma sicuramente più libero e maggiormente spendibile per la psicologia del XXI secolo.
In definitiva, questa rappresentata dalla Compagnia "La Ribalta", è la commedia del canto e del controcanto, dell'enigma e della sua cifratura.
E se, parafrasando JungLa gente farà qualsiasi cosa, non importa quanto assurda, per evitare di incontrare la propria anima, i ragazzi de "La Ribalta" sparigliano le carte, si assumono il rischio: "Signori, al di sotto degli infingimenti ipocriti e dei belletti infingardi, eccola, la vostra anima!"
Per concludere, visto che si parla di anima, come non menzionare la mirabile esposizione di tele, all'interno del Teatro "La Ribalta", dell'artista salernitano Andrea Tabacco? Un toccasana per l'anima, per l'appunto.

lunedì 3 aprile 2017

Gli imperatori di Montanelli, apogeo e caduta

Gli imperatori romani di Indro Montanelli raccontati nella Storia d'Italia, vol.III, toccano l'acme del potere imperiale per poi sprofondare nei miasmi dell'irrilevanza storica.

E si parte, dopo una breve parentesi sulla città di Pompei e su Gesù e il cristianesimo, con la prima dinastia illustre, quella de I Flavi (30 a. C.-96 d. C.).
Vespasiano, allora, si staglia all'orizzonte con la sua concretezza di uomo di provincia.
Racconta Montanelli come l'imperatore di Rieti, nell'intento di riorganizzare il fisco, intraprese una via spicciola ma oltremodo efficace: lo affidò ai funzionari più rapaci e dissanguatori sguinzagliandoli, con pieni poteri, in tutte le province dell'Impero.
A rapina consumata (e qui sta il colpo di genio), Vespasiano richiamò a Roma i funzionari ingordi e, dopo averli elogiati per il loro operato, gli confiscò tutti i personali guadagni; soldi, quest'ultimi, che furono utilizzati dal callido imperatore per pareggiare il bilancio e per risarcire le vittime delle ladronerie.
Indro Montanelli, poi, sottolinea la filantropia dell'imperatore Tito che si trovò, nei sue due anni di regno, a fronteggiare catastrofi su catastrofi: l'incendio di Roma, la distruzione di Pompei ad opera del Vesuvio, la tremenda epidemia che devastò l'Italia.
Messo, suo malgrado, di fronte a questo scenario di guerra e disperazione, Tito rispose nel modo più bello e caritatevole possibile, sia pure meno funzionale per le sorti dell'Impero: esaurì il Tesoro per riparare i danni e, per assistere i malati, si contagiò egli stesso, perdendo la vita a soli quarantadue anni.
Domiziano a questo punto pensò bene, quando Tito si ammalò, di affrettarne la morte coprendone il corpo di neve.
Quando si dice "l'amore fraterno"!
Ed eccoci giunti (96-192 d.C.) all'età dei cc.dd. imperatori adottivi.
Nerva, "omaccione alto e grosso", a cui bastarono solo due anni per porre riparo ai torti del suo predecessore; Traiano che passò alla storia come uomo colto solo perché era solito portarsi, sul carro di generale, Dione Crisostomo, celebre retore del tempo, che si prodigava a parlargli ininterrottamente di filosofia. Alla domanda su cosa avesse mai capito delle spiegazioni di Dione, Traiano candidamente confessò che, in realtà, non aveva mai inteso una sola parola delle tante pronunciate dal retore ma che vi si lasciava semplicemente cullare dal loro "suono d'argento", pensando a tutt'altro.
E poi via via, lungo questo itinerario fantastico di grandi imprese e sfiziosi aneddoti, Indro Montanelli ci racconta di Adriano con la sua bella barba bionda, in realtà fatta crescere unicamente per nascondere certe sgradevoli chiazze bluastre che l'imperatore aveva sulle gote; di Antonino Pio, uomo senza nemici eccezion fatta per il nemico che si annidava tra le pareti domestiche: sua moglie Faustina, bella e a dir poco vivace; di Marc'Aurelio, infermiere ante litteram, che non abbandonava nemmeno per un secondo le corsie degli ospedali.
Ora, la narrazione va avanti ancora per molto, dai Severi fino a Costantino e oltre, per poi impaludarsi negli ultimi, insignificanti imperatori di Roma, sempre più estranei alla grandezza dell'Urbe.
Nelle fruttuose scorribande all'interno di questo, come di tutti gli alti volumi della Storia d'ItaliaIndro Montanelli riesce a puntellare la necessaria aridità delle vicende storiche con la curiosità, il "fattariello", che ci rendono più accattivante, più immediatamente fruibile, una narrazione "alta" per il solo fatto di essersi prestata alla penna del grande scrittore-giornalista. E ciò anche quando, per una diversa visione storico-politica, i suoi giudizi non sono pienamente condivisibili con i nostri.
Forse uno dei guai dell'Italia è proprio questo, di avere per capitale una città sproporzionata per nome e per storia, alla modestia di un Popolo che quando grida "forza Roma" allude solo ad una squadra di calcio.