mercoledì 23 ottobre 2024

"Storia della filosofia greca, I presocratici", di Luciano De Crescenzo

È una storia della filosofia, questa di De Crescenzo, che è ormai diventata una pietra miliare per ogni appassionato di filosofia che si rispetti, soprattutto alle nostre latitudini.

Lungi dal considerarsi filosofo in senso tecnico, il Nostro tiene fede al proponimento che a più riprese ha ribadito: il voler essere come quelle enormi scale semoventi presenti in biblioteca che permettono al Lettore di poter accedere fisicamente anche ai volumi che si trovano lassù in alto. Fuor di metafora, quindi, un tramite tra i comuni mortali e l'empireo dei saggi.

E per tener fede a questo proponimento dedica la sua opera addirittura a Salvatore, il celeberrimo vice-sostituto-portiere di via Petrarca, 58, dove risiede il prof. Gennaro Bellavista.

Senonchè non c'è approfondimento senza innovazione che tenga: al sagace De Crescenzo, infatti, non potevano bastare i filosofi presocratici "canonici", nossignore. E allora ecco aggiungersi agli esponenti della Scuola di Mileto (il Talete che per osservare le stelle cade in un pozzo, meritandosi gli sfottò dalla servetta tracia, l'Anassimandro con il suo "mammasantissima" apeiron che "tiene sotto lo schiaffo" gli altri quattro elementi, l'Anassimene che per raccordare Talete con Anassimandro, sceglie l'Aria come sostanza primordiale) l'eccentrico Peppino Russo che, come tutti i filosofi "ilozoisti", è convinto assertore della presenza dell'anima in ogni cosa, financo nelle bambole che impicca ai rami degli alberti vicino a casa sua.

Luciano De Crescenzo passa poi al Pitagora "superstar", con la sua idiosincrasia per le fave e la pervasiva "aritmo-geometria" finita a carte quarantotto dopo la scoperta dei numeri irrazionali.

Si sofferma così sulla figura dell' "oscuro" Eraclito, con la sua impossibilità di bagnarsi per due volte nelle acque dello stesso fiume e il suo antigrillino "uno val per me diecimila, se è il migliore".

È arrivato il momento di Tonino Capone, il secondo filosofo spurio, che alla serranda della sua officina troppo presto abbassata ha affisso questo singolare cartello: "Avendo guadagnato quanto basta, Tonino è andato al mare".

Il campo d'indagine viene presto a riguardare la Scuola di Elea: c'è Senofane con la sua critica acutissima all'antropomorfismo degli dei; ci si sofferma su Parmenide, "maestro venerando e terribile" e il suo granitico Essere, per poi approdare al cervellotico Zenone con i suoi paradossi contro il movimento e il mutamento, e a Melisso, l'unico ammiraglio filosofo.

È la volta di Empedocle ("mezzo Newton e mezzo Cagliostro") con la sua guerra perenne e instabile tra Amore e Discordia.

Qui si inserisce Gennaro Bellavista con il suo originalissimo piano cartesiano in cui si susseguono il Quadrante del Ribelle, il Quadrante del Saggio, il Quadrante del Tiranno e il Quadrato del Papa.

Anassagora "la Mente" con le sue omeomerie dà la stura a Leucippo col suo atomismo poi perfezionato dall'illuminante Democrito che, una volta divenuto vecchio, si regala la ceceità esponendo i propri occhi addirittura ai raggi del sole riflessi dallo scudo argentato.

Subito dopo un breve excursus sui principali sofisti (degno di menzione è Gorgia da Leontini con l'adamantino l'Elogio di Elena in cui dimostra l'asoluta innocenza di Elena), l'opera si chiude con il campione del relativismo, Protagora di Abdera.

Ma la Storia della filosofia di De Crescenzo non può finire senza il riferimento all'ennesimo filosofo à la carte, nella fattispecie l'avvocato Tanucci, che consente allo scrittore di farsi una affacciatina sul mondo forense con le sue cinque categorie di addetti ai lavori: gli avvocati di grido, gli avvocati normali, i paglietta, gli strascinafacenne e i giovani di studio.

Per evitare che il Lettore più sprovveduto possa scambiare Peppino Russo, Tonino Capone, Gennaro Bellavista e l'avv. Tanucci per filosofi autentici e portarli come materia d'esame, ecco trovato l'espediente tipografico: utilizzare un diverso carattere e racchiudere le loro gesta pratico-filosofiche con una bella cornice.

Anche questo è stato l'impareggiabile Luciano De Crescenzo.

"Storia di chi fugge e di chi resta (L'amica geniale)", di Elena Ferrante

In questa terza parte della fortunata trilogia, la Ferrante si sofferma soprattutto su Elena, sulla sua affermazione sociale (sposa addirittura di un Airota) e professionale (il libro che vende bene nonostante qualche mugugno della intellighenzia).

Ma sono tempi di contestazione giovanile, di fermento politico, di sommovimenti sociali e ambientali. E poi c'è l'influsso barricadero dell'onnipresente Lila che, dopo la sindacalizzazione (più o meno consapevole) dell'azienda di Soccavo, continua nella sua spirale incessante di energizzazione del presente, "come se la necessità di faticare non coincidesse con la necessità di umiliarsi".

Sullo sfondo, gli enigmatici calcolatori che l'hanno fatta approdare nientedimeno che "alle dipendenze" dell'odiatissimo Michele Solara (solo la paga alta può giustificare questa apparente incoerenza?), il disinnamoramento nei confronti del suo Gennaro che si ostina a somigliare sempre di più a Stefano malgrado dovrebbe essere stato concepito con Nino, la rivincita verso l'ex marito che finisce addirittura a ricettare merce rubata per sbarcare il lunario.

La morte, però, furoreggia repentina tra i vicoli del quartiere e nelle diramazioni abitate dai personaggi del libro: il rampollo Soccavo vittima di una spedizione punitiva, il fascistissimo Gino che stavolta è stato lasciato solo dalle sue squadracce, addirittura la mammasantissima Manuela Solara il cui libro rosso, dove sono annotati i nomi dei "comprati" dal potentissimo clan, "è più importante del libro di Mao".

Ed è un'ennesima morte, anche questa volta violenta, che consente a Lila e a Lenuccia, proiettate improvvisamente nel presente della narrazione (2005), di riannodare le fila delle loro vicende: Gigliola infatti, simulacro slabbrato della bella donna che fu, è stata trovata uccisa innanzitutto dall'amore tossico di Michele Solara.

Da qui parte il racconto, ed è una storia di chi resta (Lila) e di chi fugge (Elena): Lila, all'interno del rione, ed Elena lontana, a Firenze.

Eppure chi resta continua a consumarsi nell'eterno fuoco eracliteo del cambiamento mentre chi fugge si porta inevitabilmente appresso l'immobilità tetragona ai colpi di ventura.

Tutto vero, almeno fino a quando non riappare Nino Sarratore.

Che viene invitato dal professore Airota, suo collega, a casa sua, nella casa che condivide con la moglie Elena e le due bambine.

Gli argini incominciano a vacillare, le paratie bestemmiano cedimenti.

L'ispirazione di un nuovo libro, la passione che non s'è mai sopita.

Colpo di scena, stavolta è Lila che deve assistere alla rivoluzione dell'amica del cuore nonostante l'abbia subito bollata col marchio infamante della perdizione.

Ferma un giro e attendi gli eventi, Lila Cerullo.

Sulle miserie del mondo, lì nell'azzurro delle rotte oniriche, un aereo viaggia, direzione Montpellier, sorretto da due mani strette e incuranti del mondo.

Rinascita o annientamento di ogni pretesa di felicità?

"Storia del nuovo cognome (L'amica geniale)", di Elena Ferrante

L'abbiamo lasciata al suo matrimonio, la Lila del primo libro. Occhi sbarrati, volto esangue nel vedere le scarpe, quelle disegnate e costruite dalle sue mani bambine, ai piedi di Marcello Solara.

In quel preciso momento Stefano "si smargina" davanti ai suoi occhi, perde consistenza fino a rifluire nella voracità e nella crudeltà di don Achille, il padre di Stefano che ha ghermito le bambole di Lenuccia e Lila anni addietro.

La giovane sposa realizza da subito che quel matrimonio, a dispetto della casa nel rione nuovo, degli agi e della ricchezza, sarà un'altra pagina nera della sua esistenza. E mentre Lila capisce che "Cerullo in Carracci" è un moto a luogo, "come se fosse una specie di Cerullo va in Carracci, vi precipita, ne è assorbita, vi si dissolve" Elena, pur affastellando tassello su tassello di una brillante carriera scolastica, si interroga perplessa sulle "migliaia di parole della scuola compresse nella testa e non spendibili" tra le strade del rione.

C'è poi il bisogno di "bagni di mare" per invogliare il ventre di Lila a mettersi finalmente all'opera e sfornare un bel pargolo incancrenito dai traffici di Stefano e dagli appetiti dei Solara.

Deve esserci pure Elena a Ischia, Lila ha bisogno di lei per difendersi dalla grettezza della vita.

Appare Nino Sarratore e il cuore di Elena si apre. All'agguato, però, c'è il fascino animale di Lila a cui nessuna intelligenza, prima che qualsivoglia corpo, può resistere.

Lila, spalleggiata proprio da una reticente Lenuccia, si dà anima e corpo al figlio del ferroviere-poeta.

Elena, per quanto brighi per separare le due sorti, non può rompere la simbiosi, per contrasto o affinità, con l'animo dell'amica geniale. E quindi, del tutto casualmente, proprio mentre per la prima volta Lila assapora l'amore vero, lei perde la verginità annichilita dalla sensibilità pelosa e dal sentimentalismo stucchevole di Donato Sarratore, il padre del "suo" Nino.

Le cose cambiano, nel rione e nella testa delle persone.

Lila non riesce a staccarsi da Nino, al punto da abbandonare Stefano e andare a vivere con lui. Non è solo un allontanarsi dal marito, ma è anche un ripiombare nella miseria che stavolta però, nutrita da continui e stimolanti confronti mentali, pare ammantarsi di irrilevanza.

Elena prende la licenza liceale col massimo dei voti, vince una borsa di studio per frequentare la Normale di Pisa.

Lila è costretta a tornare da Stefano col figlio di Nino in grembo, che lo stesso Stefano però decide che debba essere incontrovertibilmente suo.

Elena si laurea col massimo dei voti mentre Lila riesce una volta per tutte a lasciare Stefano e trova in Enzo il suo encomiabile supporto.

C'è una novità che potrebbe essere sconvolgente: la dottoressa Greco sta per pubblicare un libro (il sogno delle due bambine che si realizza). E proprio mentre Elena si reca nella fabbrica di salumi in cui lavora una sgualcita Lila tronfia della sua superiorità di scrittrice, l'amica le racconta della sua nuova passione per i calcolatori e per il linguaggio binario.

L'ennesimo traguardo che nonostante la ricomparsa de "La fata blu" (il libriccino di Lila che, anche a distanza di tanto tempo, fa sentire l'arte di Elena semplicemente uno sviluppo del talento dell'amica) precipita la neolaureata in quell'eterna ammirazione per le curiosità intellettuali e per l'acume dell'indomita "sorella".

Ancora una volta, apollineo e dionisiaco, razionalità e genialità che si intersecano e si allontanano, senza mai essere capaci di stare l'uno definitivamente lontano dall'altro.

"Hercule Poirot, l'ora della verità", di Agatha Christie

Questa voluminosa raccolta della Arnoldo Mondadori Editore del 1975 contiene ben 3 libri della regina del giallo (Poirot non si sbaglia, Dopo le esequie, Corpi al sole) e Sei indagini lampo dall'agenda di Hercule Poirot che, come fa supporre l'aggettivo del titolo, sono deliziosi racconti.

Ne La cassapanca di Bagdad campeggia, per l'appunto, "un mobile che il maggiore Rich aveva portato dall'Oriente" e nel quale, seguendo " una grossa macchia che coloriva il tappeto", si scopre un cadavere. Il corpo è quello del signor Clayton che era stato invitato, assieme alla consorte, a trascorrere una serata col maggiore Rich. Peccato che, causa una improvvisa convocazione in Scozia, mister Clayton ha solo il tempo di recarsi dal maggiore per avvertirlo che lui non ci sarà, a quell'evento.

E allora che ci fa adesso privo di vita nella cassapanca? E, soprattutto, perchè il mobile ha dei buchi sulla parte posteriore?

Il tenente Simpson de L'espresso per Plymouth è colpito dal persistente odore di cloroformio presente nello scompartimento ("Gli ricordava la degenza in ospedale e l'operazione alla gamba"). In seguito, dopo aver prelevato dalla valigia un fascio di giornali e delle riviste, prova a far scivolare il bagaglio sotto il sedile dirimpetto. C'è però un ostacolo che impedisce l'operazione. È il cadavere di una donna pugnalata al cuore.

Il signor Halliday, padre della defunta, si affida all'unico uomo in grado di scoprire movente e colpevole: manco a dirlo, Hercule Poirot.

Cosa ci fa il variopinto Arlecchino steso supino sul pavimento con un coltello nel cuore? Avrebbe dovuto semplicemente partecipare a un ballo, Il ballo della Vittoria, in cui cui una compagnia rappresentava i personaggi della Commedia dell'Arte italiana. Ma si sa: a volte si può recitare pure più parti in commedia come, nel caso specifico, quella di Pierrot e di Arlecchino. Basta sfilarsi un costume per restarsene tranquillamente, almeno fino a quando non interviene l'ometto con le ipertrofiche cellule grigie, con un altro indossato sotto alla bisogna.

Ne L'eredità dei Lemesurier un triste destino sembra incombere sulla famiglia Lemesurier: nessuno dei primogeniti arriverà mai a ereditare le cospicue fortune familiari. E questo perchè un avo aveva negato una paternità che poi sarebbe risultata legittima, condannando a morte la moglie e il figlio.

Le maledizioni però non possono reggere il confronto con la razionalità del Nostro.

La signora Pengelley di Accade in Cornovaglia, una donna con poca avvenenza e alquanto sciupata, è convinta che il marito voglia avvelenarla, probabilmente per rifarsi una vita con l'assistente dello studio dentistico. Poirot sembra in un primo momento non dare eccessiva importanza alla cosa senonchè, quando si decide finalmente a recarsi a casa della signora Pengelley, non gli comunicano che davvero è morta.

E se i timori della donna fossero stati fondati? Il colpevole, anche per la giustizia, sembra essere lui, il dottor Edward. Si arriva a questa conclusione soprattutto per le illazioni del compagno della nipote della defunta. Già, quello stesso signor Radnor che appare alquanto ambiguo nelle sue manifestazioni d'affetto.

Ne Il rubino un avventato principe indiano, poco prima del matrimonio, si fa rubare un prezioso rubino che avrebbe dovuto regalare alla sposa. Lo scandolo è dietro l'angolo. Almeno fino a quando Hercule Poirot, lasciatosi convincere a trascorrere un Natale tradizionale nella campagna inglese, non riesce a trovare la pietra preziosa e ad acciuffare la coppia che si è infiltrata nella compagnia.

La neve, il vischio, il camino e un dolce che avrebbe dovuto essere servito per Capodanno ma che, provvidenzialmente per l'acuto Poirot, è stato presentato al pranzo di Natale.

"L'amica geniale - volume primo", di Elena Ferrante

C'è un'intercapedine nel lungo fluire dei decenni che vanno dagli anni '50 del secolo scorso ai giorni nostri; una terra di nessuno in cui l'umanità bramosa di superare lo stallo (economico, politico, sociale) di un conflitto annichilito dall'olocausto nucleare, ha la necessità di abitare. Vieppiù nella periferia napoletana in cui, da quando si ha memoria, l'umanità è sempre stata divisa tra i vicerè e i lazzari, tra i bassi di Forcella e i villini del Vomero.

C'è sempre un rione dal quale si deve fuggire, soprattutto quando ci si accorge di essere diversi. La vita, però, come la pentola di rame che raccoglie l'ultimo schizzo di sangue di Don Achille e quella che si squarcia al centro per le continue "smarginature", fa il suo corso, incurante delle umane meschinerie.

Elena e Lila, due bambine la cui miseria (più o meno identica, più o meno invalidante) le confinerebbe nei rodati ingranaggi di un'esistenza viscerale, hanno le capacità per uscirne fuori, per andare oltre i traffici dell'usciere (Elena) e le tomaie "tristi" dello scarparo (Lila).

La scuola, come ancora poteva accadere, è lì a portata di mano per attribuire meriti, indicare direzioni, scrollare pesi.

E sono simili, Elena e Lila, pur nella loro diversità. Sono la catapulta "caricata" fino allo stremo per il lancio più lontano possibile dai margini paludosi del rione.

Per Elena c'è una maestra che riesce a vincere le resistenze della mamma con l'occhio fuori fuoco, l'andatura claudicante, il peso del donnone che si è ormai acquattata sugli ancestrali influssi di un brulicare "minimo". Per Lila, invece, è proprio la stessa maestra di cui sopra a fallire nel proposito: Nunzia, la mamma analfabeta, ha avuto l'ordine da Fernando lo scarparo, suo marito, di non piegarsi. Nonostante sua figlia sappia miracolosamente leggere quando gli altri bambini, compresa la bravissima Elena, si destreggiano a fatica tra "mazzarelle" e i primi ghirigori, Lila non ha accesso all'affrancamento dall'ignoranza. Per lei non c'è futuro diverso dallo smarrimento tra gli istinti atavici del rione.

L' "amica geniale", però, non ci sta: strizza gli occhi come quando sta per liberare le sue inesauste energie, e prova a seguire per vie solitarie e accidentate i progressi scolastici di Elena, fino ad anticiparli e addirittura superarli.

Elena legge i libri consigliati a scuola, lei ne legge dieci volte di più, prendendoli a prestito dalla biblioteca del maestro Ferraro anche ricorrendo al nome dei suoi familiari pressochè analfabeti; Elena si iscrive al ginnasio con l'obbligo di essere sempre la migliore pena l'immediato avviamento al lavoro, e Lila le rivela che il grammofono ha un'etimologia greca, e che se ha un po' di tempo, gli scriverà i loro nomi di battesimo con l'alfabeto greco.

Poi c'è la vita reale, quella che intreccia amori, amicizie, ripicche e violenze. Fin da quando le due amiche del cuore si recano da don Achille per farsi giustizia delle bambole rubate, il meccanismo della vita in sincrono si avvia in maniera inesorabile. Eppure gli sviluppi sono destinati a essere completamente diversi: la geniale Lila, costretta a sguazzare nelle piccinerie del quartiere, s'impone di piegare l'esistenza alle sue esigenze, fino a diventare, grazie alla sua bellezza e alla forza di carattere, il modello (odiato-amato) di una resurrezione "interna"; Elena, invece, proprio quando la sua compagna convola a nozze con chi dovrebbe liberarla (assieme soprattutto all'amato fratello Rino) dalla povertà, capisce che la sua resurrezione non può che trovarsi al di là di quel rione che lei e Lila, da piccole, non riuscirono mai veramente a superare.

Alla fine però, tra le meschinità di un matrimonio che immilla le differenze sociali tra i pezzenti e gli arrivati, un paio di scarpe rimette in gioco tutto: le stesse scarpe Cerullo che Lila aveva disegnato e cucito con le sue mani da bambina, condannata a esprimere così la sua indomabile genialità.

"Colpo di luna", di Georges Simenon

Nonostante il grande e meritato successo delle inchieste del commissario Jules Maigret, Georges Simenon non ha mai nascosto la sua predilezione per i "romans-romans", come amava definire lui stesso le opere in cui non era protagonista il predetto commissario.

Malgrado apprezzi molto i libri incentrati sul personaggio di Maigret, se solo penso alla bellezza de L'uomo che guardava passare i treni e allo stesso Colpo di luna, ebbene non riesco a dargli tutti i torti.

Timar è partito da La Rochelle per la sua avventura coloniale in Africa, per la precisione a Libreville, Gabon.

Nelle sue fantasticherie di giovane europeo, il continente nero è un incubatore inesauribile di avventure ed esperienze che aspettano solo il suo arrivo per dipanarsi nelle cangianti sfaccettature di cui sono intrise.

La prima notte all'Hotel Central c'è l'incontro con la razza dei dominatori bianchi, abbrutiti dal whisky che scorre a fiumi e desiderosi di imprimere la loro orma "colona" sul commercio del legname così come sul ventre rassegnato delle giovani africane.

L'entusiasmo, almeno quello iniziale, in Timar però non manca. E poi fin da subito c'è l'incontro con la rassicurante Adele, la moglie del proprietario, che osserva il suo corpo pressochè adolescenziale con una concupiscenza tra l'ironico e il materno.

Sfruttando le sue credenziali di europeo con protezioni di una certa importanza, Timar entra nell'inclito circolo dei mediocri e corrotti funzionari e fino a quando agisce in base a canoni coloniali, gode di una stima e di una protezione considerevole.

Poi però avviene l'omicidio di Thomas. A tutti è chiaro chi sia stato a premere il grilletto. Anche Timar ne è perfettamente consapevole e sarebbe pure disposto ad accettarla, questa verità sussurrata ma che è destinata ad essere ribaltata nelle sedi giudiziarie.

Tuttavia, è cosa risaputa, le notti africane sono popolate di bisbigli, di fantasmi, di singulti di coscienza.

Madido di sudore, stremato dalla febbre che cova da qualche parte nella sua anima e con il corpo di Adele accanto finalmente libero dalla consueta veste nera sotto la quale non è solita indossare biancheria intima, non riesce a trovare pace.

Perchè, appena partito da quella Libreville nella quale si stava finalmente ambientando, la sua Adele si è fermata nella capanna del capo tribù? E perchè, dopo aver conosciuto il passato della donna con cui si è messo in affari e che indubbiamente ama, la stessa gli lascia un biglietto nel quale comunica di star via qualche giorno, chiedendogli di rimanere tranquillo?

L'unica è partire con una piroga, malgrado il caldo del mattino già inoltrato sconsiglierebbe vivamente il viaggio. Ma Timar è deciso. Si prende dodici uomini, dodici neri che s'impegnano fino allo stremo per rendergli meno gravosa possibile la traversata, e inizia a risalire il fiume. Destinazione Libreville.

C'è il processo. La verità di comodo da dare in pasto al pubblico è già bella e confezionata. A sparare non è stata la sua donna, ma un povero indigeno scelto, dietro una grossa somma promessagli proprio da Adele, da quel capo tribù nella capanna del quale si era fermata al suo arrivo.

I bianchi l'avranno ancora una volta vinta.

Quando però Timar riconosce nei tratti del capro espiatorio lì di fronte a lui una qualche somiglianza con la giovane vergine che si è arrendevolmente concessa a lui; quando intuisce che Adele probabilmente è andata a letto con un altro importante funzionario per imprimere alle indagini il corso voluto; quando infine capisce che colui che sarà condannato altri non è che l'ennesimo appartenente alla razza vessata e spogliata di tutto dalla prepotenza bianca, non ce la fa più.

Grida finalmente la verità. Svela il nome dell'omicida.

D'altronde, si sa: "ai bianchi, soprattutto a quelli giovani, fragili e sprovveduti come Joseph Timar, capita, quando arrivano nelle colonie, si prendere un colpo di luna".

"Ci vuole orecchio", di Gino Vignali

Siamo a Rimini, in un maggio che sta studiando con profitto per diventare giugno.

Sul peschereccio Aurora dell'avvocato-pescatore (binomio interessante, specie di 'sti tempi di magra!) Valentino Costanza, campeggia una targa in rame: "Il giorno ha occhi, la notte ha orecchie"; ed è proprio l'udito il senso che più degli altri servirà per risolvere almeno una delle due indagini che cadranno sul capo dell'avvenente vice questore Costanza Confalonieri Bonnet e dei componenti della sua pittoresca squadra omicidi: l'ispettore Orlando Appicciafuoco detto Seneca per la sua abitudine di infarcire pressochè ogni dialogo con aforismi latini; Emerson Leicher Palmer Balducci "nel quale ignoranza e simpatia per prevalere all'ultimo quindici e ogni mese finisce al tie-break"; Cecilia Cortellesi, morosa di Emerson, giovane nerd e con una raggiera di conoscenze di tutto rispetto.

Un trolly pescato dall'Aurora: fattura vecchia di almeno un anno e, all'interno, lo scheletro che apparentemente sembra di un bambino, tanto ridotte appaiono le sue dimensioni. Abbaglio: le ossa sono quelle di una piccola contorsionista da circo, a cui è stato spezzato l'osso del collo. E il circo, in questa storia, c'entra eccome: a partire dal conflitto, tutto circense, tra il clown bianco (l'apollineo) e il clown augusto (il dionisiaco) e la magia del maestro Fellini che proprio di circo in molti casi si nutre.

Più o meno contestualmente al ritrovamento del trolly, una seconda gatta da pelare per la squadra omicidi di Rimini: una ricchissima ed enigmatica donna, Diamante Brandolini, viene uccisa davanti al portone di casa. Tutti gli indizi, finanche una telefonata lasciata nella segreteria telefonica dell'eccentrico patrigno di Costanza Confalonieri Bonnet Leo Liverani, convergono suil marito di Diamante, l'avvocato Nico Capresi.

Ma se per risolvere il primo caso ci sarà bisogno di una lente a contatto rigida trovata nel trolly oltrechè dell'infiltrazione del pratico Emerson nell'ambiente del Circo Kodra, per venire a capo della seconda indagine servirà proprio un orecchio assoluto e...una partita di calcio della Champions League in tv (succede anche questo!).

Ci vuole orecchio è la seconda, garbata e riuscita parte della tetralogia riminese di Gino Vignali nome, quest'ultimo, indissolubilmente legato a quello di Michele Mozzati (i celeberrimi Gino&Michele tra i fondatori, tra l'altro, della Smemoranda).