Nonostante il grande e meritato successo delle inchieste del commissario Jules Maigret, Georges Simenon non ha mai nascosto la sua predilezione per i "romans-romans", come amava definire lui stesso le opere in cui non era protagonista il predetto commissario.
Malgrado apprezzi molto i libri incentrati sul personaggio di Maigret, se solo penso alla bellezza de L'uomo che guardava passare i treni e allo stesso Colpo di luna, ebbene non riesco a dargli tutti i torti.
Timar è partito da La Rochelle per la sua avventura coloniale in Africa, per la precisione a Libreville, Gabon.
Nelle sue fantasticherie di giovane europeo, il continente nero è un incubatore inesauribile di avventure ed esperienze che aspettano solo il suo arrivo per dipanarsi nelle cangianti sfaccettature di cui sono intrise.
La prima notte all'Hotel Central c'è l'incontro con la razza dei dominatori bianchi, abbrutiti dal whisky che scorre a fiumi e desiderosi di imprimere la loro orma "colona" sul commercio del legname così come sul ventre rassegnato delle giovani africane.
L'entusiasmo, almeno quello iniziale, in Timar però non manca. E poi fin da subito c'è l'incontro con la rassicurante Adele, la moglie del proprietario, che osserva il suo corpo pressochè adolescenziale con una concupiscenza tra l'ironico e il materno.
Sfruttando le sue credenziali di europeo con protezioni di una certa importanza, Timar entra nell'inclito circolo dei mediocri e corrotti funzionari e fino a quando agisce in base a canoni coloniali, gode di una stima e di una protezione considerevole.
Poi però avviene l'omicidio di Thomas. A tutti è chiaro chi sia stato a premere il grilletto. Anche Timar ne è perfettamente consapevole e sarebbe pure disposto ad accettarla, questa verità sussurrata ma che è destinata ad essere ribaltata nelle sedi giudiziarie.
Tuttavia, è cosa risaputa, le notti africane sono popolate di bisbigli, di fantasmi, di singulti di coscienza.
Madido di sudore, stremato dalla febbre che cova da qualche parte nella sua anima e con il corpo di Adele accanto finalmente libero dalla consueta veste nera sotto la quale non è solita indossare biancheria intima, non riesce a trovare pace.
Perchè, appena partito da quella Libreville nella quale si stava finalmente ambientando, la sua Adele si è fermata nella capanna del capo tribù? E perchè, dopo aver conosciuto il passato della donna con cui si è messo in affari e che indubbiamente ama, la stessa gli lascia un biglietto nel quale comunica di star via qualche giorno, chiedendogli di rimanere tranquillo?
L'unica è partire con una piroga, malgrado il caldo del mattino già inoltrato sconsiglierebbe vivamente il viaggio. Ma Timar è deciso. Si prende dodici uomini, dodici neri che s'impegnano fino allo stremo per rendergli meno gravosa possibile la traversata, e inizia a risalire il fiume. Destinazione Libreville.
C'è il processo. La verità di comodo da dare in pasto al pubblico è già bella e confezionata. A sparare non è stata la sua donna, ma un povero indigeno scelto, dietro una grossa somma promessagli proprio da Adele, da quel capo tribù nella capanna del quale si era fermata al suo arrivo.
I bianchi l'avranno ancora una volta vinta.
Quando però Timar riconosce nei tratti del capro espiatorio lì di fronte a lui una qualche somiglianza con la giovane vergine che si è arrendevolmente concessa a lui; quando intuisce che Adele probabilmente è andata a letto con un altro importante funzionario per imprimere alle indagini il corso voluto; quando infine capisce che colui che sarà condannato altri non è che l'ennesimo appartenente alla razza vessata e spogliata di tutto dalla prepotenza bianca, non ce la fa più.
Grida finalmente la verità. Svela il nome dell'omicida.
D'altronde, si sa: "ai bianchi, soprattutto a quelli giovani, fragili e sprovveduti come Joseph Timar, capita, quando arrivano nelle colonie, si prendere un colpo di luna".
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