Perchè a volte può bastare un cappello, magari proprio da prete, per confutare il nichilismo del dottor Panterre. Lo capirà a proprie spese quel satanasso del barone Carlo Coriolano di Santafusca che se ne sta a rimpiangere la scarsella vuota e la magione in rovina.
Ha bisogno di restituire una cartella da quindici mila lire, il signor barone, se non vuole patire l'onta di una denuncia al procuratore del re.
Pensa che ti ripensa, il nobile decaduto ha l'illuminazione: vendere la casa avita a chi ha i denari per acquistarla. E chi meglio di prete Cirillo che pratica l'usura e che ha nomea di negromante per aver dato alcuni numeri buoni al lotto?
L'appuntamento a Santafusca è fissato. Prete Cirillo, non prima di aver scambiato un terno secco sulla ruota di Napoli con un cappello da monsignore cucito da Filippino, lascia il basso in cui abita e si avvia verso l'ultima destinazione. Nella villa blasonata del barone infatti, per mano dello stesso nobile, vi troverà la morte.
Delitto perfetto? Così sembrerebbe se non fosse per il cappello del prete.
Le cose sono andate pressapoco così: un cane ruba il cappello del parroco lasciato inavvertitamente sul luogo del delitto (l'unico errore del barone) e lo porta a Salvatore, custode della villa. Frattanto costui muore e a dargli l'estrema unzione è quel santo di don Antonio che inavvertitamente scambia il suo, di cappello, con quello di cui si è appropriato il custode. E mentre il cappello, per un rimorso di coscienza, ritorna al suo creatore, quel Filippino che ha giuocato gli ultimi soldi proprio sul terno rivelatosi vincente, lo stesso copricapo viene a denunciare incontrovertibilmente la scomparsa di prete Cirillo. Pure perchè nel frattempo il copricapo addirittura si sdoppia e il secondo, creduto primo e unico, passa nelle mani di un parente di Salvatore e verrà recuperato da un fantomatico cacciatore (alias il barone di Santafusca). Quest'ultimo lo affoga in alto mare per sbarazzarsene una volta per tutte, ma senza alcun costrutto.
Ironia della sorte, il barone di Santafusca inizia a vincere al gioco in maniera smodata, proprio ora che non avrebbe bisogno di soldi per via delle ricchezze della buonanima del curato di cui si è impossessato.
E intano, nonostante la tanto decantata superiorità della materia rispetto allo spirito, il barone di Santafusca sembra quasi inseguito dal cappello del prete e dai mille accadimenti che verranno a riguardarlo. Finchè, convocato in tribunale per una deposizione che non può che assumere i connotati di una formalità (lui è pur sempre" U barone" !), inizia a contraddirsi e a non reggere oltremodo il peso della coscienza. Quella coscienza che sarà avviluppata dalla seta del cappello fino a trovarsi inchiavardata nelle secche della verità. Non gli resta che confessare, ebbro di furore per non essere stato in grado di declinare il suo materialismo al cospetto di un misero copricapo da prete.
Pubblicato nel 1888 quando Giovanni Verga dava alle stampe il Mastro Don Gesualdo, l'opera di Emilio De Marchi, per ammissione dello stesso scrittore, vuole provare che si può scrivere un ottimo romanzo d'appendice senza recarsi necessariamente in quel di Francia. Tutto questo non disdegnando (tutt'altro!) il grosso pubblico, i famigerati "centomila" (lettori) cioè che ben presto l'opera raggiungerà, grazie anche all'uscita a puntate sul Corriere di Napoli.
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